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 2017  dicembre 19 Martedì calendario

Leningrado musica dall’assedio

Stalin aveva una grande passione per la musica: una bella voce tenorile: ascoltava la musica alla radio: vedeva i vecchi e nuovi balletti; comprava i nuovi dischi, come Laurentij Berija, il futuro capo della polizia – visto che, in Urss, i criminali veneravano la musica. Nel marzo 1938, proprio negli anni più terribili del terrore, Stalin proclamò: «Negli ultimi anni in Russia la vita è diventata molto migliore». Non amava Leningrado: nella quale scorgeva l’incarnazione di tutto ciò che detestava; la cultura, la vita, la libera discussione, l’eleganza degli edifici, i colori verde e rosa, l’antico profumo aristocratico. Egli veniva glorificato: il romanziere Alexandr Fadeev disse che era «il più grande talento che il mondo avesse mai visto». Cacciò da Leningrado i collezionisti di francobolli, gli orientalisti, gli esperti di religione buddistica, gli astronomi, gli architetti.
Processò gli avversari, costringendoli a confessare colpe mai commesse. Quando il piano quinquennale fallì, accusò gli ingegneri di aver distrutto le macchine industriali e li fece fucilare. Nell’Urss esistevano due sole parole: tradimento, fucilazione. Tra gli uomini politici, Stalin stimava soltanto Hitler, mentre disprezzava Churchill e Roosevelt, “volgarissimi democratici”. A fine agosto 1939 negoziò con Hitler un patto, in seguito al quale la Germania e l’Urss si divisero la Polonia. Aveva una fiducia completa in lui. Nel 1941 venne ripetutamente avvisato dalle spie sovietiche che la Germania avrebbe assalito la Russia: conosceva persino la data precisa. Ma non credette a quelle che chiamava “provocazioni”; e nemmeno alle notizie dei suoi aerei. Insisté: “siete impazziti”. Mandò in Germania un treno carico di burro, il giorno prima dell’assalto tedesco, il 22 giugno 1941.
I generali russi attesero invano gli ordini di Stalin: fino a quando Molotov annunciò alla radio che l’aviazione sovietica aveva già perduto milleduecento aerei, senza opporre resistenza. Hitler ordinò la distruzione di Leningrado e di Mosca: «propongo di sradicarle dalla faccia della terra». Faceva mitragliare i treni passeggeri: bombardare Leningrado, e le persone isolate che percorrevano le strade.
L’operazione nazista si chiamava Nordlicht, “luce del nord”. Ma la risposta di Stalin fu la solita. Sebbene l’Armata rossa dovesse difendere la Russia, fece arrestare dalla polizia politica e fucilare molti generali, specie quelli che avevano combattuto nella guerra civile di Spagna.
Come disse Anna Achmatova, Leningrado «era appesa, come inutile appendice, alle sue prigioni». I tedeschi arrivarono alle porte della città, sia a meridione sia a settentrione, vicino al lago Ladoga, fin dove giungevano i tram: in città vennero esauriti i generi alimentari; le razioni si ridussero a quasi niente. C’era una fame terribile: una madre soffocò la figlia più piccola, di sei settimane, per nutrire gli altri bambini. Non c’era elettricità, né acqua né carbone: chi veniva colto a rubare era fucilato: per le strade giravano persone esauste, con la faccia pallidissima: molti bambini morirono in silenzio, senza un nome e senza far sentire la propria voce: alcuni medici vennero fucilati come disfattisti; molti cadaveri furono lasciati nel posto dove erano morti, abbandonati per le strade.
Come raccontano due bellissimi libri, Sinfonia di Leningrado di Brian Moynahan (traduzione di Claudia Manciocco, Il Saggiatore Editore, pagg. 546, euro 29) e Trascrivere la vita intera di Dimitrij Šostakovi? ( Lettere 1923- 75, a cura di Elizabeth Wilson, Enzo Restagno e Laura Dusio, Il Saggiatore, pagg. 510, euro 28), qualcuno viveva nella fame e nella disperazione. Gli abitanti di Leningrado amavano la musica. I teatri continuavano, sotto i bombardamenti, a mettere in scena opere liriche, balletti, sinfonie, operette.
La gente non aveva vestiti, tanto meno lo smoking: tutti i biglietti erano esauriti, già alla mattina presto; le mani dei musicisti erano gelide e non riuscivano ad afferrare gli strumenti. Ma gli abitanti di Leningrado si accalcavano nei teatri, con i visi affamati e i vecchi vestiti. Non c’era altro modo per dimenticare la guerra, la fame, la disperazione, entrando in un mondo di armonia.
Šostakovi? era «un uomo pallido e molto magro, con i capelli color ebano». Aveva una buona cultura letteraria: amava Le anime morte che pensò di trasformare in musica, e il teatro e i racconti di ?echov, specialmente Il monaco nero, che gli faceva un’impressione profondissima ogni volta che lo rileggeva. Possedeva un grande talento musicale: una felicità rara, nella quale spesso vedeva un pericolo. Scrisse musica per il cinema e per i balletti; e quando cominciò la Settima sinfonia nel luglio 1941, a Leningrado assediata, aveva già una vasta produzione alle spalle, tra cui Una Lady Macbeth del Distretto di M?ensk che ebbe molto successo in tutto il mondo.
Amava Lenin (più del giusto): «sono molto preso dall’idea di comporre un brano dedicato all’immortale personaggio di Lenin».
Dal principio alla fine della vita venne accusato, dalle autorità culturali sovietiche, di “formalismo piccolo-borghese”, e di “occidentalismo”: i seguaci di Ždanov lo assalirono. Nel 1937 fu accusato dalla polizia di aver preso parte a un complotto contro Stalin: ma l’accusatore venne fucilato (tale era la rapidità delle fucilazioni in Unione Sovietica) prima di poterlo accusare formalmente.
Detestava Mosca e le sue «vie tortuose e soffocanti, che esercitano un influsso negativo su di me». Amava moltissimo Leningrado, Puškin e Dostoevskij. Accettò presto di diventare un “artista sovietico”.
Non fu mai coraggioso: si piegò ai tempi con indolenza, passività e pigrizia; e giunse ad esaltare Stalin e persino Berija.
Scrisse parole vergognose: «Torneremo a vivere una vita pacifica, sotto il sole di Stalin».
Chiese a Berija di intervenire presso Stalin per fargli concedere un appartamento in affitto a Mosca; ed esaltò la “splendida” condizione di vita che gli ebrei avevano in Russia.
Ricevette il premio Stalin, l’ordine di Lenin: il premio Lenin, che concedeva molti privilegi. Quando Stalin gli telefonò, come al solito di notte, lui lo pregò di accettare la sua gratitudine profondissima. Fu conformista, servile, quando avrebbe potuto essere, senza pericolo, decente e decoroso. Si piegò anche dopo la morte di Stalin e di Berija, condividendo il giudizio negativo della Pravda su Stravinskij e Sch?nberg.
Non pensò mai di opporsi al regime, anche se molti lo fecero nel silenzio e nella solitudine.
Šostakovi? cominciò a comporre la Settima sinfonia – non so se la più bella, certo la più celebrata delle sue opere – a Leningrado durante l’assedio, il 19 luglio 1941, mentre i tedeschi avevano conquistato l’ultima striscia di terra che portava alla città.
Andava per le strade, sotto le bombe. Voleva che la Settima sinfonia, concepita sotto i raid aerei, venisse eseguita per la prima volta «nella mia amata città, che ne aveva ispirato la creazione».
Ma fu molto difficile trovare i musicisti: la Settima era un’opera colossale: duecentocinquanta pagine di partitura, un’orchestra di centocinque persone; non c’erano i flauti e gli oboi.
Infine la Settima sinfonia fu eseguita a Leningrado, nel tardo pomeriggio del 9 agosto 1942.
Il direttore d’orchestra giunse in ritardo alle prove, perché aveva dovuto seppellire la moglie, morta di fame. I volti dei musicisti erano irriconoscibili: fissi come icone. I soldati tedeschi erano vicinissimi, a poche centinaia di metri, ed ascoltarono attentamente la bellissima musica composta contro di loro.