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 2017  dicembre 19 Martedì calendario

L’ultimo saluto al soldato bambino mandato a morire

È come un’incongruenza. Una nota stonata che non cogli subito. Perché alla prima impressione tutto sembra perfetto: il silenzio, il verde smeraldo dell’erba curatissima, il bianco smagliante delle lapidi allineate. Poi scorri le cifre incise sul marmo e quel sereno equilibrio si scompone. Vacilla.
Age 19, age 20, age 21, age 22, age 23, age 24.....
I cimiteri di guerra degli Alleati (ma è lo stesso in quelli dei vinti) sono sacrari contro natura: lì riposano solo ragazzi. Age 20, age 24...l’età dei nostri figli. Perché oltre settant’anni fa (sono molti, ma neanche troppi) a quell’età non ci si alzava al mattino per andare all’università, al lavoro, all’appuntamento con la ragazza, allo stadio. Non si colmava il futuro di sogni, progetti e speranze. Da un giorno all’altro milioni di giovani si trovavano catapultati in un campo di battaglia a migliaia di chilometri da casa. Era l’immane tragedia della Seconda guerra mondiale: un’intera generazione sacrificata perché tutti noi fossimo liberi. Ed è ancora più urgente ricordarlo oggi, davanti al risvegliarsi di fascismi più o meno striscianti, più o meno consapevoli.
«Ero diventato vecchio dalla sera alla mattina.
So di non essere stato mai più la stessa persona di prima», ha scritto un soldato evocando il battesimo del fuoco a Cassino. Anche Raymond Frederick Rose era uno di quei ragazzi. Anzi, lui era quasi un bambino, aveva appena diciotto anni quando nel 1942 si era arruolato a Gloucester, Inghilterra, e probabilmente aveva mentito sulla sua vera età per indossare la divisa del terzo battaglione delle Coldstream Guards. Ma quella coraggiosa bugia la possiamo raccontare solo oggi, perché il 25 settembre del 1943 la sua breve vita si spezzò sprofondando nell’oblio e per i successivi settantacinque anni nessuno seppe più nulla di Raymond. I resti del soldato-bambino, insieme a quelli di un altro militare inglese, sono riemersi nel 2014 tra i rovi e la boscaglia di una collina a Capezzano, qualche chilometro a nord di Salerno.
Frammenti di ossa e divise trovati dai volontari dell’“Associazione Salerno 1943”, appassionati di storia che si dedicano al recupero, al restauro e alla conservazione del materiale bellico relativo ai combattimenti di quelle zone. Per identificare i due soldati si è proceduto con l’esame del Dna, ma mentre in un caso (quello del lance corporal Ronald George Blackman) si è risaliti all’identità nel giro di un paio d’anni, a Raymond il nome, il volto, la biografia sono stati restituiti solo adesso e grazie alle analisi dei medici legali che, dai frammenti ossei, hanno dedotto un’età intorno ai 18 anni. Da questo dettaglio si è risaliti all’unico adolescente della lista dei dispersi nei combattimenti di Capezzano: Raymond Frederick Rose, figlio unico di Frederick Henry e Florence Agnes Rose, studente alla Hatherleyroad School di Gloucester e corista nella chiesa di St. Michael.
Le ultime ore della sua esistenza le ha trascorse a 2300 chilometri da casa nella disperata conquista della Hill 270 lungo la strada per Avellino. I corpi di Raymond e Ronald vennero sepolti provvisoriamente, poi i colpi dei mortai e gli incendi spazzarono via quel fazzoletto di terra. Ora due candide lapidi li ricordano nel cimitero militare del Commonwealth di Salerno. La cerimonia per Raymond si è svolta qualche giorno fa e i nipoti, che sapevano appena di un parente disperso in guerra, sono tornati in Inghilterra con un anello e una fibbia. Davanti a quella tomba per ognuno di noi dovrebbero valere le parole che il soldato Ryan, ormai vecchio e in visita al sacrario dello sbarco di Normandia, rivolge alla moglie nella sequenza finale del film di Spielberg: «Dimmi che ho condotto una buona vita, dimmi che sono un bravo uomo».
Perché, ricordiamocelo sempre, dobbiamo meritare ogni giorno quello che quei ragazzi hanno fatto per tutti noi.