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 2017  dicembre 19 Martedì calendario

Puigdemont, Zorro mancato della Catalogna

Voleva essere Mazzini o almeno Zorro; El País lo chiama «codardo». Né esule, né ricercato: «turista». E anche tra i catalani comincia a circolare su di lui una leggenda nera. Puigdemont sognava di tornare nottetempo, a sorpresa; ha dovuto accontentarsi di una malinconica videoconferenza.
è ormai chiaro che Carles Puigdemont le ha sbagliate tutte. L’indipendenza è fallita, e per riproporla i separatisti avrebbero bisogno di un’ampia maggioranza che nelle elezioni di giovedì non avranno. Il suo partito in Parlamento era il primo; ora nei sondaggi è terzo, alla pari con i socialisti, dietro ai nemici di Ciudadanos – ostili alla secessione – e agli alleati di Esquerra Republicana, il cui leader ha avuto la dignità del carcere, da dove si collega con meeting affollati di militanti in lacrime: «Io non sono scappato. Sono coerente con le mie idee, io». Lui, il presidente deposto e fuggitivo, ieri ha organizzato un improbabile collegamento online, e oggi ne farà un altro per chiudere la campagna. Un giorno annuncia il blitz, il giorno dopo precisa che rientrerà in patria solo da vincitore, «con tutti gli onori»; ma l’attesa rischia di essere lunga. 
La propaganda spagnolista l’ha puntato, e diffonde voci cui ormai prestano credito anche catalani perplessi o disillusi. Si racconta che nell’inverno in cui venne al mondo – 29 dicembre 1962, secondo degli otto figli di un panettiere – il suo paesino nella Catalogna profonda, Amer, venne sepolto dalla più grande nevicata a memoria d’uomo, che travolse case e uccise molte persone. Il piccolo Carles, che qui tutti chiamano Puigdi, fu battezzato nel giorno dei funerali, e il parroco rifiutò di suonare le campane. La giovinezza fu funestata da un grave incidente d’auto: porta i capelli sugli occhi per nascondere le cicatrici. La sua fortuna appare sempre legata alla mala sorte altrui. Nel 2007 il candidato dei catalanisti a sindaco di Girona, l’avvocato Carles Mascort, riceve misteriose minacce, e rinuncia; gli subentra Puigdi. Ma il colpo clamoroso gli riesce quando il vero leader del partito, Artur Mas, è costretto dagli anticapitalisti della Cup a farsi da parte: anche loro vogliono la secessione, ma si rifiutano di sostenere un uomo del passato; sono disposti però ad appoggiare chiunque altro, «anche il primo che passa». Il primo che passava era lui: Puigdi, allora sconosciuto.
Gli amici lo descrivono come serio, inquieto, sempre intento a concepire grandi idee da abbandonare a metà; almeno fino all’incontro con una ventiduenne romena, Marcela Topor, arrivata qui per un festival teatrale. Puigdi si è innamorato al punto da sposarla due volte, in Costa Brava e in Romania. Ora lei dirige un giornale in inglese, Catalonia Today. Lui stesso, prima che politico, è giornalista. Ha fondato con denaro pubblico un’agenzia di notizie, «per portare l’immagine della nostra terra all’estero». Tiene un blog da undici anni. Attivissimo su Twitter, che usa fin dalla fondazione, è appassionato di Games of Throne : si è messo in testa di portare la troupe a Girona, e ci è riuscito.
Alla guida della Catalogna non gli è andata altrettanto bene. La regione più ricca di Spagna è un campo di rovine. Ha proclamato l’indipendenza, e ha perso anche l’autonomia. A Barcellona regna l’ordine di Madrid. I separatisti non hanno avuto neppure la drammatizzazione che speravano. Nei calcoli di Puigdi e del suo ideologo David Madì, la repressione avrebbe dovuto raccogliere tutti i catalani a difesa della giovane repubblica: non è andata così, la capitale è più divisa che mai, inerte, in attesa di una svolta che non arriva. È arrivato invece il primo ministro Rajoy, grigio nella sua barba grigia e nei suoi vestiti grigi, che viene e va indisturbato dalla città un tempo ribelle e ora all’apparenza rassegnata.
Intendiamoci: la ferita resta aperta. Il sogno separatista è sfumato, ma nulla sarà più come prima. La manganellate e il bastimento carico di poliziotti in rada nel porto sotto la colonna di Cristoforo Colombo non hanno pacificato la Catalogna, hanno solo scavato un solco che sarà difficile colmare. Ma gli irredentisti catalani considerano più dignitoso l’atteggiamento di Oriol Junqueras, che rilascia intervista dolenti dal carcere – «A cosa penso quando mi sveglio? Ai miei figli. A cosa penso quando mi addormento? Ai miei figli» —, rispetto a quello di Puigdi, che al più si lamenta del clima da «eterno autunno» di Bruxelles. Come vive? «Sono molto frugale». Chi paga? «Qualche amico mi è rimasto». Quando se n’è andato? «Di notte, ma solo dopo avvertito tutti gli alleati. Anche Junqueras. Si è deciso che era meglio me ne andassi. Il resto sono fake news. Comprese le idiozie della ministra della Difesa che mi considera una spia russa».
In realtà il presidente sperava in una mediazione europea che non poteva venire e infatti non è venuta. La Merkel e di conseguenza Juncker non hanno abbandonato il fedele vassallo Rajoy. Il resto l’hanno fatto gli imprenditori, indotti dall’incertezza e dalle pressioni governative a trasferire la sede, e una guerra informatica con cui ministri e burocrati senza muoversi da Madrid hanno smontato pezzo a pezzo l’embrione di Stato catalano, a cominciare dall’arma decisiva, la leva fiscale. I social sono quasi tutti per l’indipendenza, ma la mitica rete è servita a ripristinare la monarchia e la legge. Tutti i calcoli di Puigdemont si sono infranti, compresa la bizzarria di ricomparire da vendicatore mascherato. Ieri è stata resa nota la sua memoria difensiva: 150 pagine in cui accosta l’operato di Rajoy a quello di Franco. La rottura di un tabù per la politica spagnola, che del Caudillo non parla mai: né per difenderlo, né per denigrare un avversario. Ma neppure l’ultima linea rossa ha retto in questa crisi che travolge tutto, anche il buon senso.