Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  dicembre 19 Martedì calendario

L’io nel filtro della rete l’incognita del cambiamento

Vivere in un ambiente mediamente prevedibile aiuta a fare stime su quello che si può verificare nella vita quotidiana e favorisce il senso agente di sé. Ma questo scenario sta cambiando perché il mondo digitale sembra non avere più confini. Sappiamo esattamente cosa accade in sessanta secondi sulla Rete. In un giro di lancette, si effettuano 900.000 login su Facebook, si inviano 452.000 «cinguettii» su Twitter, si vedono 4,1 milioni di video su YouTube, si effettuano 3,5 milioni di ricerche su Google, si postano 1,8 milioni di foto su Snapchat, si inviano 16 milioni di messaggi.
I calcoli del World Economic Forum non ci dicono però quanto di «noi» lasciamo nel momento in cui riversiamo nell’agorà digitale inclinazioni, paure, desideri. Una risposta l’ha fornita l’ex socio di Mark Zuckerberg, Sean Parker: Facebook cambierebbe letteralmente la relazione di un individuo con la società e con gli altri. Per capire se ha ragione, occorre declinare per gradi quello che sappiamo sull’uso dei dati personali. Essi hanno un valore commerciale, politico, infine psicanalitico. Possono quindi influenzare il mercato, la democrazia, la stessa personalità. 
Per quanto riguarda il primo fronte di queste nuove commodities il dibattito è già vasto. È stato calcolato, sempre dal Wef, che in un minuto della nostra vita si spendono in Rete 751.522 dollari, fornendo nello stesso istante informazioni di ogni genere. Quest’ultime possono essere definite il «plusvalore» per gli over the top, la nuova moneta. A Londra è possibile acquistare in un negozio alcuni prodotti pagando con un paio di foto, il Financial Times è arrivato a quantificare il valore dei dati personali in 5.139 euro. Negli Stati Uniti, ha previsto Evgeny Morozov, ci sono 3,5 milioni di camionisti, che verranno rimpiazzati da autocarri a guida automatica assemblati grazie alle informazioni fornite dagli stessi autisti in carne ed ossa. È tutto talmente in movimento che a maggio del 2018 entrerà in vigore un Regolamento della Commissione Ue che garantirà una sorta di copyright sui dati personali. 
Sul secondo versante, quello politico, al centro del dibattito c’è la circolazione e la formazione della libertà di espressione del pensiero. Anche in momenti chiave come le elezioni. 
L’ Economist si è interrogato sui rischi derivanti per la democrazia. Invece di pensare in modo critico e di verificare le fonti, spesso sul web si ripetono concetti altrui oppure si amplificano e si deformano, senza controllo, opinioni e pregiudizi personali. Si tratta di un universo chiuso, autistico, dove si perde il senso dell’interlocuzione, del dialogo e del confronto. A tutto danno della partecipazione sociale.
Ma è il terzo livello, quello delle implicazioni psicanalitiche dell’uso dei Big Data, a rappresentare lo stadio di analisi più inesplorato. Nel campo della salute mentale, si tende a valorizzare l’uso delle informazioni personali, anche se vengono sollevate perplessità sulla loro veridicità e affidabilità. Sicuramente avere un valore in quanto fonte di informazioni rilevanti pesa sull’immagine di sé e sulla propria autostima perché non ci si riconosce come persona, ossia per quello che si è, ma come «informant» che serve al mercato, la cui valutazione è quanto mai volatile. 
Il proprio baricentro personale tende sempre più a spostarsi all’esterno, ma non verso le altre persone con cui si può interagire, quanto piuttosto verso una Rete digitale sempre sfuggente che suscita un senso di precarietà e di provvisorietà. Si vive sotto un «tallone di ferro», dal titolo del romanzo di Jack London, in cui viene meno la propria decisionalità e il senso agente di sé perché qualcun altro decide del nostro futuro senza che ne abbiamo consapevolezza. Ci si sente prigionieri di una «pseudocomunità paranoide», prede di cospirazioni e raggiri, senza sapere chi siano gli attori e i protagonisti. Una condizione in cui è impossibile trovare un senso e difendersi. Può succedere anche nel cosmo digitale? Secondo un articolo dell’ American Journal of Epidemiology, citato in un’inchiesta della London Review of Books, ad un aumento dell’1% dei like su Facebook, dei click e degli aggiornamenti corrisponde un peggioramento dal 5 all’8% della salute mentale.
Insomma, un giorno potremmo scoprire una società completamente cambiata, nella più intima sfera personale. Un luogo da cui non è più possibile uscire. Oggi in quella stanza abbiamo di fronte cinque porte, ciascuna delle quali rappresenta una faccia dei Big Data: Velocità, Valore, Volume, Veridicità, Affidabilità. Ognuna conduce ad una definizione delle nostre identità.
In conclusione, se sappiamo quanto denaro viene generato in un minuto di Internet, nel mentre maturiamo le nostre convinzioni, ben poco conosciamo di come quest’ultime cambiano il nostro ego dopo che sono passate nel filtro della Rete. Forse non siamo ancora al dominio sulle menti, ma dobbiamo capire come la digitalizzazione della nostra vita abbia potuto modificare anche il modo di percepirla.