il Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2017
Sudafrica, l’eterna faida tra gli eredi di Mandela
“Tutto sembra sempre impossibile, almeno finché non viene fatto”. Le parole più celebri di Nelson Mandela si cuciono perfettamente addosso al Sudafrica di oggi. Il Paese che l’eroe anti-apartheid ha visto nascere nel 1994 – e che l’arcivescovo Desmond Tutu definì significativamente Rainbow nation, nazione arcobaleno, riferendosi alla sua rinnovata proiezione verso il pluralismo – vive oggi una maturità composta di inevitabili contrasti. Il ceto politico dell’African nation congress (Anc), fattosi classe dirigente, ha formalmente superato la discriminazione etnica del governo di minoranza bianco. Eppure la presidenza di Jacob Zuma, già carismatico successore di Mandela, sembra non soltanto aver fallito nel superare di fatto le diseguaglianze economiche che dividono il Sudafrica (come già era accaduto negli anni del suo predecessore Thabo Mbeki), ma ha soprattutto esposto il Paese alla dilagante piaga della corruzione. Un terreno, quello dell’etica pubblica su cui c’è ancora davvero molto da fare. E che rischia di travolgere la presidenza Zuma in un triste e solitario declino.
In questi giorni (16-20 dicembre), l’Anc sta tenendo il meeting con cui deciderà la leadership futura del partito e con buona probabilità anche del prossimo governo del Sudafrica. A contendersela, il superfavorito attuale vicepresidente Cyril Ramaphosa e la ex moglie dello stesso presidente in carica Nkosazana Dlamini-Zuma. Quest’ultima appare certamente una candidatura di prestigio: più volte ministro (della Salute durante la presidenza Mandela, successivamente degli Esteri e attualmente degli Interni) e prima donna presidente dell’Unione africana, Nkosazana sembra però svantaggiata dalla vicinanza all’ex marito, apparendo quindi come un candidato privo di discontinuità. Da parte sua, il 65enne Ramaphosa è un ex sindacalista, protagonista negli Anni 80 della lotta contro il dominio bianco, capo negoziatore dell’Anc ai tempi della transizione democratica e oggi uomo d’affari tra i più ricchi del Paese, con un patrimonio stimato in più di 600 milioni di dollari.
Nonostante il ruolo istituzionale come vice dello stesso Zuma, Ramaphosa ha il vantaggio di apparire più lontano dal presidente, un uomo politico ormai travolto dagli scandali. Solo mercoledì scorso ha perso due cause in un solo giorno, entrambe legate ad abusi di potere per stoppare indagini sulla corruzione a suo carico. Ma i guai giudiziari del presidente hanno radici antiche. Nel 2005, Zuma viene accusato di corruzione per un affare del 1999 da 5 miliardi di dollari nell’acquisto di armi da parte del governo. Le accuse vennero prima accantonate alla vigilia del suo incarico presidenziale nel 2009, poi ripresentate dalla magistratura nel 2016. Nel 2005 fu accusato di violenza sessuale su un’amica di famiglia, e poi prosciolto l’anno dopo. La sua abitazione di Nkandla – una vera e propria magione con piscina e anfiteatro privato – è divenuta sinonimo di spreco del denaro pubblico: costretto da giudici, Zuma ha risarcito i soldi sottratti per la ristrutturazione. Ma il caso che ne ha affossato la reputazione è quello dei fratelli Gupta, ricchi industriali di origine indiana i cui affari spaziano dalle miniere, all’hi-tech, dai trasporti e i media. La connessione tra il presidente e la famiglia – a cui sarebbero state aperte le porte del governo, tanto da poter dire l’ultima parola persino sulla nomina di alcuni ministri – sono talmente profonde che gli oppositori hanno inchiodato il leader a un nomignolo eloquente: quello di Zupta. Non le credenziali migliori, per chi, come lui, è di fatto erede politico di Mandela.
Come se non bastasse, anche gli indicatori macroeconomici del decennio Zuma virano al negativo. Come sottolinea il Financial Times, il tasso ufficiale di disoccupazione è salito dal 23% al 28% e 17 su 52 milioni di abitanti ricevono forme di sussidio dal governo. La Camera di commercio sudafricana lamenta una caduta dell’indice di fiducia delle imprese all’epoca delle sanzioni internazionali contro lo stato segregazionista (prima del 1994). Anche la crescita della ricchezza del Paese, che fino al 2014 aveva sempre espresso un Pil oscillante intorno a un sostenuto 3%, si è attestato negli ultimi due anni tra lo 0 e l’1%.
Conseguenza di scandali personali e di un’economia che arranca, il partito che fu di Mandela si logora al suo interno. Ma soprattutto perde consensi: se dal 1994 in poi si era sempre attestato ben oltre il 60%, nella elezioni locali dell’agosto 2016 si è dovuto accontentare del 54%, perdendo l’amministrazione di città importanti come la capitale Pretoria. Eppure non si può dire che la figura di Zuma non sia quella di un leader carismatico.
“Le colpe di cui Zuma si è reso responsabile sono molte e note. Il suo peccato originale è quello di essere arrivato al potere dopo il tecnocrate Mbeki, un politico molto amato dai mercati e dai media internazionali. Eppure oggi, alla vigilia della passaggio di consegna nel partito, che potrebbe perfino preludere a elezioni anticipate (la scadenza naturale è nel 2019), il giudizio sui suoi anni di governo deve essere equilibrato”. Ne è convinto Rocco Ronza, docente di Geoeconomia presso l’Università Cattolica di Milano ed esperto di Sudafrica per l’Istituto per gli studi di politica internazionale. “Negli anni della crisi mondiale, in cui la contestazione e la conflittualità sociale rischiavano di spaccare il Sudafrica, Zuma è comunque riuscito a tenere insieme un Paese in cui, sotto i suoi predecessori Mandela e Mbeki, il conflitto tra ricchi e poveri è stato privato della componente era stato in parte sganciato dalla componente razziale, ma non risolto. È stato il campione di quelle realtà meno occidentalizzate, più rurali, più povere e meno comprensibili dalle élites internazionali”.
Classe 1942, di etnia Zulu, nato poverissimo, Zuma appartiene alla generazione che ha combattuto il dominio bianco. Meno che ventenne, aderisce all’Anc e al Partito comunista, viene arrestato per cospirazione e imprigionato, passando 10 anni nella prigione di Robben Island, insieme a Nelson Mandela. Dopo anni di esilio, ritorna in patria cominciando l’ascesa che lo porterà alla guida del partito nel 2007 e a quella del Sudafrica nel 2009. Il “presidente del popolo”, come lo chiama i suoi sostenitori, si è sposato 6 volte, ha 21 figli e un’abilità oratoria travolgente. “Ma nonostante l’aspetto populista, o forse proprio perché coperto a sinistra, Zuma utilizza la crisi economica del 2008 per non modificare le politiche di apertura al grande capitale internazionale del suo predecessore Mbeki – sottolinea Ronza – rappresentando in questo senso l’uomo che ha tenuto insieme le due anime dell’African national congress: quella più socialista e l’altra legata ai mercati internazionali più di ogni altra realtà in Africa”.
A dispetto dell’apparenza da estremista, la sua abilità di mediatore emerge nei giorni del massacro di Marikana, quando nell’agosto 2012 la polizia apre il fuoco sui minatori in sciopero, facendo 34 morti. Come conseguenza, Zuma espelle dal partito Julius Malema, leader radicale che ha cavalcato la strage, e che oggi guida il partito di opposizione Economic freedom fighters (Eff). Sarà però la morte di Nelson Mandela nel dicembre 2013 ad accelerare il declino di Zuma. “È con la fine del simbolo anti-apartheid, che parte la campagna contro di lui tuttora in corso”, ragiona l’esperto dell’Ispi. “Il Sudafrica ha magistratura, stampa e imprese autonome dal governo: in questo senso viene considerata una democrazia compiuta. Ma se fino alla morte di Mandela – padre fondatore e simbolo della lotta contro l’apartheid – l’egemonia dell’Anc era fuori discussione, da quel momento in poi lo scenario ha cominciato a cambiare”.
Per aprirsi, se non a un’alternanza di governo con la Democratic alliance – partito che rappresenta le minoranze urbane di bianchi, meticci, indiani e degli indiani e anche una parte anche della nuova borghesia nera – almeno a un futuro politico più frammentato.