Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  dicembre 18 Lunedì calendario

Intervista a Emilio Isgrò. A 80 anni pubblica l’Autocurriculum: «La mia arte non è impegnata ma impregnata: del sociale che sta tutto intorno. Un’arte civile»

Ogni volta Emilio Isgrò ci fa riflettere sul gesto concettuale sovranamente ambiguo che è «cancellare» – l’Enciclopedia Treccani, la Costituzione o il Debito Pubblico (sfortunatamente, in questo caso, solo in effigie). Il 6 ottobre questo spiritello dispettoso ha compiuto ottant’anni. La «sua» Triennale (il siciliano Isgrò vive a Milano dal ’65) ha ospitato «I multipli secondo Isgrò» (a cura del complice più assiduo, Marco Bazzini), coloratissimi semi d’arancia in ceramica. Un gigantesco Seme dell’Altissimo di sette metri, donato alla città, è stato collocato nei giardini della Triennale. E da Sellerio è uscito Autocurriculum (pp. 222, € 14).
Di tante icone conosciute negli anni in cui ha fatto il giornalista culturale, l’irriverenza di Isgrò ci presenta pieghe curiose: dall’«infelicità» di Piero Manzoni al «sempiterno Umberto Eco in ascesa perenne», da Ezra Pound a John Kennedy. Un Pantheon tutto rivisitato a testa in giù. Del resto Isgrò nasce poeta, e all’arte ha sempre affiancato la scrittura, anche teatrale (con l’Orestea voluta da Ludovico Corrao sulle rovine di Gibellina). Per evitare il piedistallo, il testo si propone come curriculum per trovare un «impiego a tempo indeterminato». Irriverente anche con sé stesso, Igrò si presenta come un postulante. Va da Gian Giacomo Feltrinelli: «Tre giorni fa mi hai detto che trovavi bellissime le mie cose e volevi pubblicarle». «Sì, è vero, ma non so se fra tre giorni mi piaceranno ancora». Allora lui, con uno scatto d’orgoglio: «Le mie opere sono fatte perché piacciano anche fra tre secoli». Cinquant’anni dopo, le sue opere sono esposte in tutto il mondo.
Una sua mostra s’intitolava «Dichiaro di essere Emilio Isgrò». Ogni autobiografia afferma la volontà di esserci.
«Ma non in quanto Isgrò, bensì in quanto titolare di un mestiere che rischia di sparire. Se cancello è per creare. La cancellatura è una dialettica: ogni artista ha bisogno di essere questo ma anche altro. Figlio di Dio e figlio, o almeno nipote, di Satana. Al mattino sono credente, al pomeriggio vacillo, al tramonto sono un nichilista assoluto...».
Si presenta come un «non allineato». Il Groucho Marx dell’avanguardia: non vorrebbe mai far parte di un gruppo che ammetta fra i suoi soci uno come lei!
«Polemico sempre, militante spesso, organico a nulla. Noi siciliani vogliamo sempre tenere insieme gli opposti: da noi c’è stato il futurismo, ma con una coloritura bucolica… Mi piace il motto di Trockij per cui “la rivoluzione salta sulle spalle del passato”. Perché altrimenti avrei scritto in dialetto l’Orestea di Gibellina? Quelli del Gruppo 63 mi hanno guardato con simpatia, dell’avanguardia mi piace lo spirito d’avventura ma non l’idea protonovecentesca per cui dai principi non si deroga. Io invece derogo solo da quelli! Ero amico in gioventù di un poeta triestino, Guido Costantini: per metà ebreo, partigiano, iscritto al Pci… io non sono mai stato iscritto a un partito, ma ho sempre votato da quella parte. Quando avevo vent’anni lui venne cacciato dal Partito e mi disse: “Non bisogna mai partire dal presupposto che l’avversario abbia torto; se ha ragione devi avere il coraggio di riconoscerglielo”».
Dice che il suo ispiratore è Manzoni – non Piero ma Alessandro – per l’idea dell’arte come educazione civile.
«Non ho mai voluto fare un’arte “impegnata”, semmai impregnata: del sociale che sta tutto intorno. In questo senso un’arte civile. Persino la cancellatura è così: una spugna che ogni volta prende senso dal tempo e dal contesto in cui viene operata. Quando ho cancellato I promessi sposi ho voluto riflettere sulla scelta trasgressiva di un italiano “popolare”, simile a quella di Pasolini quando adotterà la lingua del cinema. L’arte non è per tutti, ma io non ho mai fatto nulla per escludere. Non ho mai inseguito il successo immediato, ma oggi la parrucchiera e il fruttivendolo mi chiedono notizie delle mie cancellature. È meglio aver avuto successo in ritardo. Altrimenti mi sarei adagiato… avrei trovato subito un lavoro!».
IlSemeè un simbolo di speranza, di futuro. Ma a sottrargli ogni retorica è la sua misura schiacciante.
«Come tutti i siciliani sono un pessimista. Ma un pessimista di buon carattere. Mi piace che il Seme stia a Milano, l’unica città da dove può rinascere l’Italia».
Forse oggi da cancellare sono le frontiere di un mondo sempre più impaurito e aggressivo.
«È quello che ho fatto con le mie cartine geografiche cancellate. Ma oggi lo “scontro di civiltà” non è tra il Nord e il Sud del pianeta, bensì tra la nostra vecchia Europa e il vecchio-nuovo imperialismo americano. La posta in gioco è la libertà del mondo. Trump è l’effetto, non la causa. È un nipotino di Andy Warhol, l’apostolo dell’anonimato; ma oggi Trump è l’espressione aggressiva dell’anonimato della provincia americana».
Per usare categorie Anni 60, si sente più Apocalittico o Integrato?
«Se uno è alla ricerca perenne di un impiego vuol dire che ha gran voglia d’integrarsi, certo; ma vuol dire pure che integrato non è. Diciamo che sono un apocalittico con un buon carattere».