la Repubblica, 18 dicembre 2017
La lingua di Gianni Brera che riscattò lo sport dalla marginalità
Venticinque anni fa, il 19 dicembre, moriva a 73 anni in un incidente stradale l’uomo che aveva cambiato per sempre la maniera di raccontare una materia giudicata “bassa”.
I neologismi, i collegamenti con storia ed etnologia, il racconto del gesto tecnico Accaccone e Accacchino, Rombo di Tuono e Puliciclone, Bonimba e Stradivialli: ci ricordiamo sì di Gianni Brera, eccome se ce ne ricordiamo. I soprannomi che apponeva a calciatori e allenatori erano forse il dettaglio più vistoso del suo giornalismo, poiché aggiungere qualifiche o addirittura sostituire il Nome dell’Eroe, dal «pie’ veloce Achille» all’«aborto miracoloso Maradona», richiede un’improntitudine che non passa inosservata. Ma quella era, per Brera, solo la superficie: la scintillante vernice con cui colorava di epica una scrittura, e un mestiere, che affondava le sue radici ben più in basso.
Quando, nello sfoglio quotidiano, si incontrava la firma di Brera era come se il giornale si facesse più spesso. Che fosse la cronaca di un derby, una pagella di voti ai giocatori o il racconto di una scampagnata friulana al premio Risit d’Aur della famiglia Nonino, si poteva essere certi che la lettura non sarebbe stato un semplice scorrimento degli occhi sulle righe e sui caratteri.
Innanzitutto scriveva tanto e, per suo stesso proclama, rapidissimamente: a volte neppure scriveva, ma dettava dalla tribuna al giornale, via telefono, metà pezzo nell’intervallo fra il primo e il secondo tempo. Questo era, per inciso, l’argomento che usò rispondendo mille volte e sempre stizzosamente a una noticina che Umberto Eco gli aveva dedicato in un proprio saggio. Eco vi qualificava il lavoro di Brera come una sorta di versione semplificata e «spiegata al popolo» della scrittura di Carlo Emilio Gadda e Brera non gliela perdonò mai.
Denegava persino la palese ispirazione gaddiana (in ciò imitando, certo inconsapevolmente, proprio Gadda che rigettava l’accostamento critico con Carlo Alberto Dossi) e accusava Eco di non tenere conto della differenza fra cesellare articoli e racconti al proprio tavolo e invece dettare duecento righe dal catino magari gelido di uno stadio.
Il fatto è che sin dagli esordi Brera aveva fatto del giornalismo sportivo un vero e proprio campo di sperimentazione. La mission di raccontare una gara a lui non bastava. Per la generazione dei «nativi televisivi», diciamola così, è ben difficile immaginare cosa dovesse essere stato scrivere di un evento sportivo sapendo che il lettore non avrebbe avuto altre testimonianze al riguardo. Da un lato, una grande libertà di sbagliare o anche inventare; dall’altro lato, una solitudine altrettanto vasta, effetto della consapevolezza di poter contare solo sui propri occhi e sulla propria sintassi. Fin da subito Brera scelse di adottare un metodo fortemente analitico. Gli studi in Scienze politiche lo avevano indirizzato alla considerazione del substrato storico, geografico ed etnologico di ogni evento umano: perché lo sport avrebbe dovuto andarne esente? Ed ecco allora che il «gioco all’italiana» trovava motivazioni che potevano tranquillamente risalire alle invasioni barbariche, con annotazioni che arrivavano a sfidare le accuse di razzismo conclamato. Nello specifico sportivo, poi, prima dell’evento e dei suoi esiti si occupava del singolo gesto: il tiro, il salto, la corsa, la pedalata. Agiva come un critico letterario che consideri la trama non come un tutt’uno ma come una costruzione che deriva dalla concatenazione di atti, e dalle singole frasi e parole che li descrivono. È per questo che rifare l’elenco dei neologismi che Brera ha donato alla lingua italiana, e a volte anche alle altre, rischia di essere un esercizio sterile. È vero, ha inventato il nome del «libero», del «centrocampista», del «goleador», del «contropiede», della «melina». Dati i suoi contatti personali con i grandi strateghi del gioco, da Nereo Rocco a Enzo Bearzot, è probabile che in qualche caso avesse inventato non solo il nome ma persino la cosa.
Ma il tutto derivava dall’esigenza di raccontare l’esito di un evento sportivo come la risultante logica, quasi necessaria, di una serie di premesse tecniche e tattiche.
Ogni dispositivo espressivo e retorico (nel senso classico e nobile della parola) che Brera padroneggiava era inteso a restituire tramite la scrittura un’immagine vivida di quanto fosse successo in campo. Come scrittore – e ancor più negli articoli che nei romanzi che scriveva in vacanza – la sua dote più formidabile era proprio la capacità di evocare le azioni di gioco. Leggendo Brera pareva proprio di vederli: Maradona che attraversa il campo con il pallone incollato al piede, schivando avversari che mirano alle caviglie, rotolando a terra e rialzandosi senza dire «beh» come un misirizzi; o Gigi Riva che esplode il sinistro; o l’indolente Mariolino Corso che indovina l’ennesima «prodezza balistica»; o Enrico Albertosi che vola a togliere un pallone dall’incrocio dei pali; o Gimondi che si alza sulla sella per uno scatto in salita. La vivacità sintattica, il compiacimento delle invenzioni linguistiche, la costruzione di un epos erano tutti al servizio di questa esigenza: mostrare al lettore; cioè non limitarsi raccontare ma, per quanto possibile, rappresentare.
Inevitabilmente ciò implicava di associare alla funzione narrativa quella critica, poiché critica finisce per diventarlo ogni analisi basata sulla competenza. E quando sul Giorno e poi su Repubblica i suoi vicini di pagina si chiamavano Mario Fossati o Gianni Clerici (per fare solo due nomi) si capiva che il giornalismo sportivo si era riscattato dalla marginalità circense a cui pareva destinarlo il suo argomento. Brera, del resto, aveva fatto lo stesso con il cibo. Assai colto ma nient’affatto intellettuale, Brera si interessava a zone della vita sociale tanto trascurate quanto popolari. Dal suo gusto dello spararla anche grossa, dalla sua ferocia di polemista, dal suo sense of humour a tratti irresistibile e sempre materiale e terragno, si capiva che ciò che lo muoveva era innanzitutto la passione. A lui oggi si addice l’aggettivo che coniò (per Bartali, salvo errore), così naturale e fluente che pare essere nella lingua italiana dai tempi di Petrarca: intramontabile.