6 ottobre 2017
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APPUNTI SUL NOBEL PER LA PACE
REPUBBLICA.IT 5/10 –
Il Premio Nobel per la pace 2017 va a Ican, la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari che raccoglie oltre 440 gruppi di cento paesi diversi. L’annuncio è arrivato dal comitato dei Nobel a Oslo, rispettando le previsioni che, con la crisi nord coreana in corso e con il braccio di ferro fra Teheran e Washington sul trattato sul nucleare iraniano, davano questo tema come il favorito nelle preferenze dei selezionatori.
"L’elezione di Donald Trump ha spinto molte persone a preoccuparsi del rischio nucleare", ha dichiarato Beatrice Fihn, direttrice esecutiva di Ican, "se vi spaventa che il presidente americano abbia il nucleare, dovreste essere contrari alle armi atomiche in generale".
"Per me è un onore immenso, faccio fatica a descriverlo", ha poi commentato, "è un premio importantissimio per tutti coloro che lavorano alla lotta contro le armi nucleari, un tributo ai sopravvissuti di Hiroshima e anche alle vittime dei test nucleari".
Il 4 ottobre ha scritto in un tweet: "Donald Trump è un imbecille". In conferenza stampa ha spiegato che voleva essere una battuta: "Stavo citando il segretario di Stato Rex Tillerson. Anche se ora un po’ me ne pento".
Il comitato per il Nobel è arrivato alla decisione travolto dalle polemiche degli ultimi mesi. Il silenzio dell’ex paladina democratica Aung San Suu Kyi sulla persecuzione dei rohingya in Myanmar ha scatenato una guerra tra Nobel: prima l’attivista pakistana Malala Yousafzai, poi il Dalai Lama e Desmond Tutu. Tutti hanno criticato la “lady di Rangoon” per non essere intervenuta sulle violenze che hanno costretto oltre 500 mila rohingya a fuggire in Bangladesh. La delusione per l’atteggiamento della Suu Kyi si è diffusa velocemente, e la petizione lanciata su change.org per revocarle il Nobel per la pace ha raccolto 430 mila firme.
E le critiche sono arrivate anche l’anno scorso, quando è stato premiato il presidente della Colombia Juan Manuel Santos per il processo di pacificazione con le Farc prima che un referendum bloccasse momentaneamente l’accordo. Anche la morte del dissidente cinese Liu Xiaobo in carcere, dopo 11 anni di prigionia, ha provocato diversi malumori. Troppo timide e tardive le richieste di scarcerazione della comunità internazionale, che pur avendolo insignito del Nobel nel 2010 ha preferito non creare attriti con il governo cinese.
Per allontanare le critiche e provare a riacquistare la fiducia dell’opinione pubblica internazionale, quest’anno è stato scelto un tema popolare, che dovrebbe mettere d’accordo tutti.
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ALESSANDRA MUGLIA, CORRIERE.IT
Pensava fosse un scherzo quella telefonata arrivata qualche minuto prima dell’annuncio ufficiale. Ed è rimasta incredula finché non ha sentito il nome della «sua» organizzazione, Ican, pronunciato dal Comitato di Oslo che assegnava il Nobel per la Pace 2017. Sogna un mondo senza armi nucleari ma resta cauta, con i piedi per terra, Beatrice Fihn, da anni a capo di questo consorzio di almeno 468 ong impegnate in oltre cento Paesi a bandire le armi nucleari.
Svedese, 37 anni, studi a Londra e a Stoccolma, questa biondina dagli occhi azzurri mostra determinazione e capacità di visione: «Le armi nucleari sono vecchie, sono strumenti del passato non adeguate ai tempi e alle nuove sfide: cambiamento climatico, terrorismo, criminalità organizzata» va ripetendo. E la storia inizia a darle ragione.
Dopo anni di pressing da parte di Ican, a luglio all’Onu è passato il trattato che vieta le armi nucleari. Un risultato voluto, atteso, preparato. Un traguardo storico.
«Dopo l’approvazione del trattato all’Onu ho passato la serata a festeggiare con gli amici di Ican in un bar, a bere Coca Cola e mangiare patatine, cercando disperatamente di rimanere sveglia».
Moniti e insulti (via social)
Senza farsi rovinare la festa da quanti dicevano che la parte più difficile viene ora: perché per entrare in vigore, questo trattato deve essere ratificato da 50 stati, processo che potrebbe durare mesi o anni (finora è stato ratificato soltanto dal Brasile, comunica lei stessa su Twitter). Fihn è ottimista, crede che già dichiarare le armi nucleari illegali aiuterà a stigmatizzarle: «Per gli Stati sarà sempre più difficile giustificarle» sostiene.
E dopo l’assegnazione del Nobel ha ribadito con fermezza: «Continuare a basare la propria sicurezza sulle armi atomiche è un atteggiamento inaccettabile. Stiamo cercando di mandare forti segnali a chi ha queste armi, Corea del Nord, Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna, India e Pakistan: è inaccettabile la minaccia di uccidere civili».
Non ha peli sulla lingua quando esprime sui social il suo disprezzo per le scelte dell’attuale amministrazione Usa: «Donald trump è un imbecille» ha twittato due giorni fa.
L’appello
Poi ha lanciato un appello a questi Paesi perché vietino ora le armi atomiche: «E’ un momento di grande tensione nel mondo, mentre dichiarazioni di fuoco rischiano di condurci facilmente, inesorabilmente verso un orrore indicibile. Lo spettro di un conflitto nucleare si aggira di nuovo nel mondo. Se c’è un momento in cui le nazioni devono dichiarare la loro opposizione senza equivoci alle armi nucleari, questo momento è ora».
Stoccolma, Londra, Ginevra
Il suo interesse per le questioni globali è iniziato presto. All’università di Stoccolma si è laureata in relazioni internazionali, con focus in risoluzione dei conflitti e potenze nucleari. Teoria e pratica: uno stage alla sede svedese della Lega internazionale delle donne per la pace e per la libertà, una conferenza Onu in Svizzera sul disarmo e il lavoro al Centro di Ginevra per le politiche di sicurezza. Ha preso una seconda laurea in legge a Londra e dal 2006 è impegnata su questioni del disarmo e delle negoziazioni multilaterali.
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LASTAMPA.IT 5/10 -
L’annuncio della scelta di Oslo ha colto tutti di sorpresa, dal momento che l’Ican non era nella rosa ristretta dei favoriti. E fino all’ultimo tutti puntavano alla vittoria dei principali negoziatori dell’accordo sul nucleare con l’Iran, il ministro degli Esteri di Teheran Mohammad Javad Zarif e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza della Ue, Federica Mogherini.
È la 19esima volta che il Nobel per la Pace va a chi si batte a favore del disarmo. Nel 2013 il Nobel per la Pace era stato assegnato all’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) e il Comitato lo aveva motivato con «l’impegno a favore dell’eliminazione delle armi e degli arsenali chimici nei vari scenari di guerra in tutto il mondo». Allora l’Opac stava supervisionando lo smantellamento delle armi chimiche in Siria.
Erano 318 i candidati di quest’anno, di cui 215 persone singole e 103 organizzazioni. Nella storia del premio è il secondo numero di candidati più alto: il record è ancora della scorsa edizione, quando i candidati furono 376. Il premio Nobel per la Pace fu assegnato per la prima volta nel 1901 e andò al francese Frederic Passt, fondatore e presidente della Società d’arbitraggio tra le nazioni, la prima società espressamente creata per il mantenimento della pace.
A differenza di tutti gli altri premi Nobel, il Nobel per la Pace viene consegnato a Oslo, in Norvegia, e non a Stoccolma, in Svezia.
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IL POST 5/10 –
Il premio Nobel per la Pace 2017 è stato assegnato alla Campagna Internazionale contro le Armi Nucleari (ICAN) per «il suo lavoro nel portare l’attenzione sulle conseguenze umanitarie catastrofiche di qualsiasi uso delle armi nucleari e per i suoi sforzi fondamentali per ottenere un trattato che metta al bando queste armi». Il comitato che assegna il Nobel ha spiegato che alcuni stati stanno modernizzando i loro arsenali nucleari e che c’è il pericolo che altri paesi cerchino in futuro di procurarsi dispositivi di questo tipo. In passato, attraverso accordi internazionali vincolanti, la comunità internazionale aveva adottato divieti contro le mine antiuomo, contro le bombe a grappolo, contro le armi biologiche e chimiche. Le armi nucleari, «ancora più distruttive» non erano state finora oggetto di una simile proibizione giuridica internazionale: «Attraverso il suo lavoro, ICAN ha contribuito a colmare questo divario giuridico».
L’ICAN (International Campaign to Abolish Nuclear weapons) è un’organizzazione non-profit fondata nel 2007 a Vienna che raccoglie più di 400 organizzazioni (internazionali o nazionali) attive in 100 paesi del mondo: ne fanno ad esempio parte la Lega Internazionale Donne per la Pace e la Libertà (fondata nel 1915 contro la Prima guerra mondiale), Peace Boat, organizzazione giapponese, e la Norwegian People’s Aid. In Italia aderiscono all’ICAN, tra le altre, Senzatomica e Rete Disarmo. Nella sua campagna l’ICAN è stata sostenuta anche da altri premi Nobel per la Pace, come Desmond Tutu, il Dalai Lama e Jody Williams, pacifista statunitense fondatrice della Campagna Internazionale per il Bando delle Mine Antiuomo. Nel novembre del 2012, l’allora segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon citò l’ICAN per il suo lavoro a favore «di un mondo libero da armi nucleari». La sede che coordina e gestisce la campagna internazionale è a Ginevra, in Svizzera, e la sua direttrice è Beatrice Fihn.
Grazie al lavoro dell’ICAN, lo scorso luglio la Conferenza delle Nazioni Unite ha approvato il Trattato sul divieto delle armi nucleari, il primo accordo internazionale legalmente vincolante (per i paesi che vi aderiscono) per la completa proibizione delle armi nucleari. Ai negoziati – che si sono svolti in due sessioni per un totale di quattro settimane – hanno partecipato delegazioni di circa 140 paesi e della società civile provenienti da tutto il mondo. Non hanno invece partecipato le nove nazioni che possiedono armi nucleari e i paesi che fanno parte della NATO, compresa l’Italia, con la sola eccezione dei Paesi Bassi. Il testo del Trattato è stato adottato con il voto a favore di 122 stati, un astenuto (Singapore) e un solo voto contrario, quello dei Paesi Bassi, unico membro della Nato che ha partecipato ai lavori perché obbligato da un voto del Parlamento.
Il punto centrale del Trattato è l’articolo 1 che vieta agli stati aderenti di sviluppare, testare, produrre, acquisire, possedere qualsiasi dispositivo nucleare esplosivo; vieta di «trasferire a qualsiasi destinatario qualunque arma nucleare o altri dispositivi esplosivi nucleari», di «ricevere il trasferimento o il controllo delle armi nucleari direttamente o indirettamente», di «utilizzare o minacciare l’uso di armi nucleari» e di «assistere, incoraggiare o indurre, in qualsiasi modo, qualcuno ad impegnarsi in una qualsiasi attività che sia vietata dal presente Trattato». Il Trattato vieta anche «qualsiasi dislocazione, installazione o diffusione di armi nucleari o di altri dispositivi esplosivi nucleari sul proprio territorio o in qualsiasi luogo sotto la propria giurisdizione o controllo». Proibisce quindi esplicitamente il cosiddetto “nuclear sharing” in base al quale l’Italia ospita ad esempio decine di testate termonucleari statunitensi.
Il Trattato è stato finora firmato da 53 paesi ed è dunque entrato in vigore (la soglia necessaria era la firma di almeno 50 paesi), ma come abbiamo visto non è stato sottoscritto dall’Italia. Il coordinatore dell’organizzazione Rete Disarmo, Francesco Vignarca, ha spiegato che «Al momento l’Italia ritiene che un trattato che non coinvolga anche le potenze nucleari sia controproducente e mini i percorsi concordati di disarmo previsti da precedenti accordi: percorsi che però sono in stallo da oltre 20 anni». E ancora: «Se l’Italia dovesse ratificare il trattato, dovrebbe far smantellare gli ordigni presenti sul nostro territorio. Ma è per questo che i paesi europei con accordi di “nuclear sharing” con gli Stati Uniti (Belgio, Olanda e Germania oltre a noi) sono fondamentali per la riattivazione del percorso di disarmo nucleare».
Prima della firma alle Nazioni Unite il governo italiano aveva dichiarato che «la convocazione di una Conferenza delle Nazioni Unite per negoziare uno strumento giuridicamente vincolante sulla proibizione delle armi» costituiva «un elemento fortemente divisivo che rischia di compromettere gli sforzi a favore del disarmo nucleare». L’Italia, aveva sostenuto il governo, preferiva dunque seguire «un percorso graduale, realistico e concreto in grado di condurre a un processo di disarmo nucleare irreversibile, trasparente e verificabile», basato cioè sulla «piena applicazione del Trattato di non-proliferazione (TNP) pilastro del disarmo» (le organizzazioni italiane dell’ICAN hanno fatto però notare che l’Italia non rispetta di fatto nemmeno il TNP, che impegnerebbe gli stati militarmente non-nucleari a «non ricevere da chicchessia armi nucleari, né il controllo su tali armi, direttamente o indirettamente»).
Il premio Nobel per la Pace fu assegnato per la prima volta nel 1901 e andò al francese Frederic Passt, fondatore e presidente della Società d’arbitraggio tra le nazioni, la prima società espressamente creata per il mantenimento della pace. A differenza di tutti gli altri premi Nobel, il Nobel per la Pace viene consegnato a Oslo, in Norvegia, e non a Stoccolma, in Svezia. Ogni anno organizzazioni e istituzioni sono invitate dal comitato dei Nobel a proporre le candidature, tra le quali viene poi scelto il vincitore attraverso consultazioni e votazioni interne. Il comitato che assegna il Nobel ha fatto sapere che quest’anno il numero di candidati era 318, di cui 215 persone singole e 103 organizzazioni. Nella storia del premio è il secondo numero di candidati più alto: il record è ancora della scorsa edizione, quando i candidati furono 376.
L’anno scorso il premio era stato vinto dal presidente della Colombia Juan Manuel Santos per avere raggiunto un accordo di pace con le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (FARC), che ha messo fine a una guerriglia durata mezzo secolo e che ha ucciso 220mila persone.
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ARMI NUCLEARI PER LA VERITA’ -
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In controtendenza con il percorso intrapreso negli ultimi anni dagli Stati Uniti, Donald Trump ha deciso di implementare l’arsenale nucleare. Per il presidente americano, in un contesto globale dove altri Paesi si muovono, gli Usa devono ambire a essere in «cima al gruppo e non dietro, anche se si tratta di paesi amici». La posizione di Trump a proposito delle armi nucleari è apparsa un po’ confusa: da una parte ha detto che i grandi arsenali atomici sono un problema per la pace nel mondo e dall’altra ha affermato che non esiterebbe a utilizzare armi nuclerari: «immaginiamo che qualcuno dell’Isis ci attacchi: non dovremmo rispondere con armi nucleari?». Di una cosa però Trump sembra essere sicuro: nella corsa alle armi nucleari gli Stati Uniti stanno per essere sorpassati e lui non intende permetterlo, non importa quali saranno le conseguenze.
Uno scarto deciso rispetto all’amministrazione Obama e alla linea delle Nazioni Unite: a ottobre 2016, infatti, l’Onu hanno adottato a larga maggioranza una risoluzione politica che chiede di avviare nel corso di quest’anno i negoziati per un trattato internazionale che vieti le armi nucleari: una decisione che ha posto fine a due decenni di paralisi in questo ambito. A onor del vero a favore della risoluzione votarono 123 nazioni, con Austria, Brasile, Irlanda, Messico, Nigeria e Sud Africa che si sono assunti il compito di redigere concretamente la Risoluzione. L’Italia votò contro, insieme ad altri 37 Paesi; 16 invece i Paesi astenuti. In sostanza la maggior parte delle 9 nazioni nucleari ha votato contro la risoluzione Onu e molti dei loro alleati, compresa l’Italia e gli altri Paesi in Europa che ospitano armi nucleari sul loro territorio come parte di un accordo Nato, non hanno sostenuto la risoluzione.
AUMENTI Nel suo primo discorso al Congresso, un mese fa, Trump ha annunciato un aumento delle spese militari: 56 miliardi di dollari. È una cifra molto alta, ma è soltanto il 3% in più di quanto Barack Obama aveva già deciso di spendere, e comunque troppo poco secondo l’esercito americano. Di questo aumento, quanto ne andrà al programma nucleare è ancora incerto, ma gli annunci di Trump una reazione la hanno già causata. La Russia ha annunciato che qualsiasi investimento nell’arsenale atomico americano porterà a un uguale reazione dal parte delle sue forze armate.
VIDEO Lo scorso 20 marzo il Lawrence Livermore National Laboratory, ente del governo americano che lavora per la sicurezza dell’arsenale atomico del paese, ha pubblicato su YouTube 64 video di esperimenti nucleari condotti dagli Stati Uniti tra il 1945 e il 1962. Sono solo una piccola parte degli oltre 6.000 filmati che il laboratorio ha restaurato negli ultimi anni. Mostrano i 210 esperimenti con armi nucleari che gli Usa hanno condotto all’interno dell’atmosfera tra il 1946 e il 1962, l’anno in cui furono vietati (da allora i test sono stati spostati sottoterra). Il laboratorio stima che in tutto siano stati girati 10.000 filmati, dal momento che ogni esplosione veniva ripresa da varie angolazioni.
STIME Oggi le stime sul tema nucleare sono complicate perché soggette a rapidi cambiamenti a partire dalla cessazione della Guerra fredda. Si veniva dagli anni Ottanta che ereditavano la folle corsa al riarmo nucleare tra Stati Uniti e Unione Sovietica scaturita dal nuovo ordine mondiale dopo la sconfitta del nazismo. All’epoca la quantità di ordigni sul pianeta aveva raggiunto il massimo storico superando le 60.000 testate atomiche. Oggi, secondo le stime del Fas (Federation of American Scientists), il numero di bombe atomiche totali presenti sulla terra supera ancora le 15.350 unità, anche se molti armamenti sono ancora in fase di dismissione: ancora intatti ma di fatto esclusi dal calcolo delle testate effettivamente disponibili, che in questa maniera scende a 10.355.
SEGRETI Il numero esatto delle bombe nucleari in possesso di ogni Paese è un segreto di Stato. Gli scienziati della Fas spiegano di elaborare le loro stime sulla base delle informazioni disponibili al pubblico (piuttosto esaurienti nel caso di Usa e Russia), di un’analisi attenta delle serie storiche e di occasionali indiscrezioni. Quello che sappiamo è che sono 9 le nazioni che possiedono effettivamente le bombe atomiche e che bisogna distinguere tra testate attive e non.
NATO Gli Stati Uniti, che hanno condotto più test nucleari di chiunque altro, dispongono di 7.000 testate nucleari (alcune attive, le altre 2.340 ancora integre sotto la custodia del dipartimento dell’Energia). La Russia invece ne ha 7.300 di cui 2.150 attive e così distribuite: 500 testate terrestri, 1.150 assegnate ai sottomarini nucleari e 300 pronte per essere montate sugli aerei. C’è poi il programma di condivisione nucleare della Nato che conterebbe 200 bombe termonucleari schierate in Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia.
CHIRAC La Francia, dopo Usa e Russia, è la terza potenza nucleare al mondo e dispone di 300 testate, 250 delle quali assegnate a sottomarini nucleari e le restanti 50 pensate per attacchi aerei. Nel 1996, sotto la presidenza di Jacques Chirac, ha smantellato tutte le testate terrestri.
MANHATTAN Il Regno Unito ha condiviso con gli americani il Progetto Manhattan, padre di tutte le sperimentazioni nucleari, sviluppando poi un proprio personale programma. Oggi dispone di 160 ordigni operativi, esclusivamente per uso sottomarino.
ASIA Passando in Asia, il Pakistan dispone di 90 testate e l’India all’incirca di 100. Quest’ultima ha prodotto armi nucleari proprie dopo i test nucleari della Cina a metà degli anni sessanta, testando i propri ordigni dal 1974 al 1998. Dispone di missili nucleari aerei e terrestri e da anni cerca di allargare il programma nucleare alle forze marine.
PECHINO In Cina il primo test di successo con un ordigno nucleare è targato 1964, cui seguì la prima prova termonucleare due anni e mezzo più tardi. Oggi si suppone che la Cina abbia circa 140 testate terrestri e 40 assegnate per gli aerei, ne avrebbe 240 in totale, ma le restanti testate siano conservate per un futuro impiego in un sottomarino nucleare.
ISRAELE Non si sa esattamente quante testate nucleari abbia Israele ma la stima migliore ne accredita 80, con plutonio sufficiente per arrivare fino a 200. Solo nel 1998 il presidente Shimon Peres rivelò che gli esperimenti israeliani sul nucleare erano cominciati già negli anni Cinquanta.
KIM La Corea del Nord avrebbe meno di 10 testate nucleari che ha sperimentato nel 2006, 2009 e 2013 mentre l’ultimo test risale a settembre 2016. Il prossimo, secondo gli analisti sudcoreani, potrebbe tenersi da un momento all’altro, a ridosso del primo summit tra i presidenti americano Donald Trump e cinese Xi Jinping, atteso il 6 e il 7 nella residenza del tycoon di Palm Beach, in Florida. Il dittatore Kim Jong-un ha dichiarato inoltre di essere ormai in grado di montare le proprie testate su missili balistici.
TEHERAN L’Iran, per quanto accusato da Israele di essere a un passo dall’ottenere un ordigno nucleare, è ancora lontano dal raggiungere un’arma nucleare in piena regola. Invece Pakistan, India e in particolare Cina suscitano preoccupazione perché hanno scelto di non allinearsi alla dinamica di progressiva riduzione degli armamenti atomici nell’ultimo quinquennio.
START Nel 2010 Usa e Russia si sono incontrate a Praga per dare rilancio al progetto Start, il sistema di trattati per la non proliferazione delle armi atomiche siglato il 31 luglio 1991 tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Qui hanno promesso di fissare a 1.550 il tetto per testate e bombe nucleari, 800 vettori complessivi tra missili balistici intercontinentali (noti come Icbm), i sommergibili con lanciamissili nucleari (Slbm) e i bombardieri pesanti. In più è stato fissato un limite a 700 vettori contemporaneamente attivi. I due Paesi rappresentano oltre il 93% di tutte le armi nucleari strategiche. Tuttavia, nonostante l’attuazione del trattato bilaterale Treaty on measures for the further reduction and limitation of strategic offensive arms (New Start) il ritmo delle riduzioni rimane lento. Russia e Stati Uniti hanno in corso comunque dei programmi di modernizzazione della componente strategica. Washington, ad esempio, prevedeva un investimento di 350 miliardi di dollari entro i prossimi 30 anni, per mantenere ed aggiornare la forza nucleare strategica. Almeno fino ad ora.
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IL FATTO QUOTIDIANO 11/9 -
Risiko nucleare. La minaccia non arriva solo da Kim
Il mondo è in pieno riarmo nucleare. Non tanto per il numero di testate, in lento calo dopo il nuovo trattato Start del 2010, ma per i programmi di modernizzazione delle forze nucleari avviati da tutte le nazioni armate di atomica. Non solo la Corea del Nord, ma tutti i nove Stati nucleari sono impegnati in costosissimi progetti per la costruzione di bombe più potenti o di nuovi missili, bombardieri e sottomarini per il lancio di testate nucleari. Una competizione tra programmi a lungo termine che, come osserva l’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, dimostra che “nessuno di questi Stati sarà pronto a privarsi del suo arsenale nucleare nel prevedibile futuro”.
Il 92% delle quasi 15.000 testate nucleari esistenti – di cui 4.150 schierate, cioè ponte all’uso – si trova negli arsenali americani e russi in quantità equivalenti: 7.000 in Russia (di cui 1.950 schierate) e 6.800 negli Stati Uniti (di cui 1.800 schierate). Le due potenze nucleari europee, Francia e Gran Bretagna, detengono rispettivamente 300 testate (quasi tutte schierate) e 215 testate (la metà schierate). La Cina ha 270 bombe, tutte schierate, così come gli eterni nemici India e Pakistan che ne hanno circa 130 ciascuna, tutte puntate contro il vicino avversario. Anche le 80 atomiche di Israele sono pronte all’uso. Infine la Corea del Nord, che sembra averne almeno una ventina, il triplo secondo Washington.
Troppo spesso nel tracciare la mappa globale del Risiko atomico (che fino agli Anni 90 comprendeva anche Sudafrica, Ucraina, Bielorussia e Kazakistan) ci si limita a questi nove Paesi dimenticando di citare anche gli Stati nucleari “in subappalto”, tra cui l’Italia, vale a dire le cinque nazioni che fin dagli Anni 60, in virtù della dottrina atlantica della “condivisione nucleare” (Nuclear Sharing) detengono bombe atomiche Usa che, in caso di conflitto nucleare, saranno impiegate dalle forze aeree nucleari nazionali (oggi i Tornado, domani gli F-35). In tutto almeno 150 bombe, di cui un terzo in Italia (nelle basi di Aviano e Ghedi), altrettante in Turchia e il resto spartito tra Germania, Belgio e Olanda. Tutti Paesi, Italia compresa, che non a caso hanno boicottato il Trattato per la messa al bando degli armamenti nucleari approvato a luglio dall’Assemblea generale Onu.
Stati Uniti. Obama aveva avviato – e Trump sta portando avanti – un poderoso programma di ammodernamento nucleare da 400 miliardi di dollari fino al 2026 (un trilione di dollari in trent’anni) per potenziare le bombe termonucleari tattiche B61 (comprese quelle schierate in Italia), costruire i nuovi bombardieri nucleari a lungo raggio B-21 per rimpiazzare i vecchi B-52 e B-1, i nuovi missili nucleari da crociera Long-Range Standoff, i nuovi missili nucleari balistici intercontinentali Ground Based Strategic Deterrent destinati a sostituire i vecchi Minuteman III e infine i nuovi sottomarini lanciamissili nucleari classe Columbia che prenderanno il posto della classe Ohio.
Russia. Anche Putin, in risposta al dispiegamento dello scudo antimissile americano in Polonia e Romania e allo sviluppo del programma Usa Prompt Global Strike (Attacco Globale Fulmineo), sta investendo molto nell’ammodernamento dell’arsenale nucleare ex-sovietico. Dopo aver costruito i nuovi missili nucleari balistici intercontinentali semoventi RS-24 Yars in grado di trasportare sei testate termonucleari capaci di colpire obiettivi diversi, il Cremlino sta testando gli ancor più potenti missili intercontinentali pesanti da silos RS-28 Sarmat, che di testate ne potranno trasportare addirittura quindici e che pare abbiano capacità di condurre bombardamenti atomici orbitali. Senza dimenticare i nuovi bombardieri nucleari Tu-160 e i nuovi sottomarini lanciamissili nucleari classe Borei.
Gran Bretagna. Nel 2015 il governo conservatore del primo ministro David Cameron, su proposta del segretario alla Difesa Michael Fallon, ha avviato il discusso programma di sostituzione della flotta di sottomarini lanciamissili nucleari classe Vanguard con i nuovi sottomarini classe Dreadnought che verranno armati con missili Trident II dotati di nuove testate Mark 4A, più potenti e precise. Il costo complessivo del programma è stimato in 45 miliardi di dollari.
Francia. La Difesa francese, oltre a portare avanti il programma di ammodernamento dell’arsenale missilistico nucleare sottomarino con i nuovi missili balistici intercontinentali M51, ha avviato dal 2012 lo studio per la sostituzione dei sottomarini lanciamissili nucleari classe Triomphant. Analogamente, per la componente aerea, Parigi ha deciso l’ammodernamento del missili nucleari da crociera a medio raggio ASMP-A in dotazione ai bombardieri Mirage e Rafale e la loro sostituzione con missili nucleari supersonici e stealth ASN4G (prodotti da MBDA, partecipata da Leonardo).
Cina. La Repubblica popolare cinese sta testando i nuovi missili nucleari balistici intercontinentali semoventi Dongfeng-41 (DF-41) ognuno in grado di trasportare una dozzina di testate termonucleari: una volta operativi, saranno i missili a più lunga gittata esistenti al mondo, in grado di colpire il territorio americano. Grande importanza riveste per Pechino lo sviluppo di un’effettiva deterrenza nucleare marittima basata sulla creazione di una flotta di moderni sottomarini lanciamissili nucleari, i Type 094 classe Jin, armati con i nuovi missili nucleari intercontinentali JL-2. La Cina si sta dotando anche di un bombardiere strategico nucleare stealth a lungo raggio Xian H-20 per rimpiazzare gli H-6 di vecchia concezione, così da mettersi al pari con i B-21 americani.
India e Pakistan. I due storici nemici (non firmatari del Trattato di non proliferazione nucleare del 1970) stanno entrambi lavorando per accrescere i loro arsenali, oltre a potenziare le rispettive forze nucleari, non solo per deterrenza reciproca. Nuova Delhi sta sviluppando i nuovi missili nucleari balistici intercontinentali Agni-V in grado di colpire anche la Cina e si sta dotando per la prima volta di una flotta di sottomarini lanciamissili nucleari, classe Arihant, armati con i nuovi missili K-4, attualmente in fase di test. Islamabad rincorre il nemico lavorando ai nuovi missili nucleari balistici Shaheen-III, e alla costruzione di una deterrenza nucleare marittima, ma soprattutto allo sviluppo di piccoli ordigni nucleari tattici da impiegare contro l’India.
Israele. I progetti nucleari militari israeliani rimangono avvolti nel mistero, a partire dal reale numero di testate (il doppio delle 80 dichiarate secondo alcune fonti). Si sa solo che Tel Aviv (non aderente al Tnp) sta testando un nuovo missile nucleare balistico intercontinentale, il Jericho IV, in grado di colpire qualsiasi bersaglio sul pianeta, e sta continuando ad accrescere la sua flotta di sottomarini tedeschi classe Dolphin, in grado di lanciare missili Popeye armabili con testate nucleari.
Corea del Nord. Come noto, il regime di Kim Jong-un ha condotto negli ultimi mesi una serie di test con missili balistici Hwasong che gli consentono di minacciare con armi nucleari non solo il Giappone e la base americana di Guam nel Pacifico, ma addirittura la costa ovest degli Usa e l’Europa. Non è chiaro se, oltre alla gittata, questi missili siano anche in grado di colpire accuratamente il bersaglio.
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DANILO TAINO, CORRIERE DELLA SERA 17/8 -
Kim Jong-un ha per ora rinviato un attacco all’isola di Guam, Pacifico occidentale, territorio degli Stati Uniti. L’escalation di minacce tra Pyongyang e Washington delle scorse settimane, però, ha riproposto una minaccia che da lungo tempo grava sul mondo ma che da un paio di decenni era finita ai margini dei dibattiti. Quella di uno scontro nucleare. Per evitare di considerarla un videogioco o una chiacchiera da social media, è forse il caso di metterla con i piedi per terra. Lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) calcola che (dato a inizio 2017 ) nel mondo ci siano 14.935 armi nucleari, in calo dalle 15.395 di un anno prima. Di queste, circa settemila sono russe e 6.800 americane. Schierate – cioè dislocate su missili o in basi con forze operative – sono 1.950 quelle di Mosca, 1.800 quelle di Washington. Le altre testate sono mantenute di riserva oppure in attesa di essere smantellate. Gli unici altri due Paesi che mantengono ufficialmente un arsenale di schieramento, cioè mobilitabile in tempi brevissimi, sono la Francia e il Regno Unito. Su un arsenale di 300 bombe, Parigi ne mantiene 280 immediatamente operative. Londra, 120 su 215. Gli altri Paesi nucleari hanno bombe schierate ma non lo dichiarano: Sipri calcola che in tutto le testate operative, cioè non di riserva, nel mondo siano 4.150. Complessivamente, la Cina possiede 270 testate, il Pakistan tra le 130 e le 140, l’India 120-130, Israele 80, la Corea del Nord dieci o venti. La riduzione di armi nucleari in corso avviene soprattutto in Russia e in America, sulla base dell’accordo New Start firmato nel 2011. Procede però lentamente. Soprattutto, Mosca e Washington, ma anche gli altri Paesi interessati, hanno in corso programmi di ammodernamento degli arsenali e delle capacità di lancio. Al proposito, gli Usa hanno lanciato, durante l’Amministrazione Obama, un programma da 400 miliardi di dollari da investire tra il 2017 e il 2026. La Cina (sottolinea Sipri) ha in corso miglioramenti qualitativi. Lo stesso vale per Pakistan e India, assieme alla modernizzazione delle capacità missilistiche. I test di lancio di missili da parte della Corea del Nord sono cronaca delle settimane scorse. «Programmi di modernizzazione di lungo termine sono in corso in tutti i nove Stati» nucleari, sostiene Shannon Kile, responsabile per Sipri del programma sulle armi atomiche. Come è noto dai tempi della Guerra Fredda, il fatto che gli arsenali siano colmi di testate nucleari non significa che una guerra di distruzione di massa sia vicina. I numeri, però, ricordano che il pericolo non è virtuale.
@danilotaino
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FEDERICO RAMPINI, LA REPUBBLICA 6/10/2017 –
EW YORK -Il presidente degli Stati Uniti si avvia a ripudiare l’accordo nucleare con l’Iran che era stato firmato dall’amministrazione Obama (oltre che da altre cinque nazioni). In un incontro con i capi militari alla Casa Bianca, Donald Trump ha affermato che l’Iran ha violato lo "spirito dell’accordo": si tratta, ha detto di "un regime che appoggia il terrorismo ed esporta violenza, spargimenti di sangue e caos nel Medio Oriente". Per questo, ha spiegato, "non possiamo concedergli armi nucleari".
Il Washington Post anticipa il primo passo verso la disdetta dell’accordo: entro la scadenza prevista del 15 ottobre, Trump "de-certificherà" di fronte al Congresso quell’accordo. E’ il passaggio formale che prelude alla disdetta, anche se formalmente lascia la responsabilità finale ai parlamentari.
L’esecutivo infatti è tenuto periodicamente a fornire al Congresso la sua valutazione sul rispetto da parte dell’Iran degli impegni presi. Nel momento in cui la Casa Bianca annuncia ai parlamentari che Teheran non sta rispettando le promesse, con
ogni probabilità la maggioranza repubblicana avvierà la disdetta. Si tratterebbe in un certo senso di una "disdetta morbida", sempre stando alle anticipazioni del Post. Anzitutto perché Trump lascerà aperta la porta ad un rinegoziato dell’accordo stesso. Poi perché nel "de-certificarlo" la Casa Bianca non chiederebbe al Congresso di ripristinare quelle sanzioni che erano state sospese alla firma dell’accordo stesso.
Il passaggio della de-certificazione entro il 15 ottobre apre comunque uno scenario denso di incognite. A cominciare dalle reazioni degli altri firmatari tra cui figurano Russia, Cina, Germania, Inghilterra e Francia. Rinegoziare un accordo non è una decisione unilaterale che Washington può prendere da sola. Poi, soprattutto, come reagirà l’Iran? Trump vuol essere fedele a quanto disse in campagna elettorale, quando denunciò ripetutamente l’accordo firmato da Barack Obama come "pessimo, uno dei peggiori della storia, contrario, agli interessi degli Stati Uniti".
In questo allineandosi con la posizione del premier israeliano Benjamin Netanyahu, ma anche dell’Arabia saudita, altro partner privilegiato di questa Amministrazione. Però all’interno della Casa Bianca il dibattito è stato molto serrato. Non solo il segretario di Stato Rex Tillerson, sempre meno influente, ma anche il segretario alla Difesa John Mattis, si erano battuti per il mantenimento dell’intesa. Anche alla luce della crisi nordcoreana: visto quel che fa Pyongyang, perfino i falchi del Pentagono si sono convinti che sia meglio tenere l’Iran dentro l’accordo che congela almeno per un decennio i suoi piani nucleari a scopo militare.
Per quanto Trump scarichi la questione sulle spalle del Congresso, i rapporti di forze in quella sede non sembrano lasciare adito a dubbi: nella maggioranza parlamentare repubblicana ha sempre avuto ampi consensi la posizione di Netanyahu contro quell’accordo.