Corriere della Sera, 17 settembre 2017
Tags : Anno 1901. Cultura in genere/Linguistica. Italiano
La sintassi si può anche maltrattare. Lo fanno (bene) persino gli scrittori
La maestra elementare non mi fece appassionare alla grammatica. Provai per essa sopportazione anche negli inservibili anni delle medie: dopo i quali gli scolari arrivano alle superiori portando il segno della lettura con il dito indice. Chissà, percepii da subito che la grammatica è un blocco «normativo» rispetto alla sintassi che è «costruzione» e spinta all’«immaginazione». Non a caso mi innamorai della Lingua italiana per la stupefacente oralità (del resto nacque in racconti tramandati e in canti-poesia). La maestra non faceva che leggerci la Bibbia, e giù riassunti. Dunque: lettura e scrittura. Oggi sono ancora dell’avviso che la più ferrea delle discipline si gioca sulla stretta della tenaglia: leggere e scrivere; scrivere e leggere.
Eppure c’è una verità taciuta, una realtà subdola circa la fatica della grammatica. La grammatica italiana non si sa insegnare come non si sa insegnare la matematica. Infatti mi appassionai a lei solo all’università, corso di Lingua italiana del professor Baldelli, non seguendo le lezioni o imparando da grammatiche scritte da studiosi italiani, bensì usando come una Bibbia (è proprio il caso di dirlo) quella che credevo essere la Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti del tedesco Gerhard Rohlfs. Invece, non trovando il volume ma ricordando la sua copertina bianco-latte, consultatomi con l’amico italianista Raffaele Manica, ho riportato a galla la vera mia Bibbia, seconda soltanto a quella dei Patriarchi. L’austriaco Wilhelm Meyer Lübke con la sua Grammatica storico-comparata della lingua italiana e dei dialetti toscani, pubblicata nel 1890 e tradotta in italiano presso Loescher addirittura nel 1901 e poi nel ’27 e per molti altri decenni a venire, fu per me universitario la blindatura di un pozzo di peste affinché mi gettassi ingordo in una foresta di suoni e segni. Venne chiara l’apocope, l’aferesi, l’uso degli accenti sui verbi, sul verso piano, sul proparossitono… Fu un esercizio da amanuense che, comunque, non mi fece un fanatico della sintassi «corretta», della lingua che da Petrarca arriva a Calvino (chiedo scusa per la sintesi oscena). Restai fedele al leggere e scrivere; scrivere e leggere. Quando si procede in tal modo gli errori si sputano via da soli. Nella «asintatticità», infatti, si trova scontato un surplus di espressione che si salda alla necessaria vastità linguistica. Non scelsi Le Grazie di Foscolo bensì l’ Ortis; e prima Machiavelli de Il Principe. E per paradosso, tra gli asintattici, misi il Manzoni dei Promessi : perché non è vero che la saldatura tra il lombardo e il fiorentino (per fortuna) sia così riuscita. Come è falsa la sua linearità. I promessi sposi si distendono in variegati blocchi sintattici che, spesso, fanno attrito. Questa è la grande lingua italiana al servizio della letteratura.
Dal Dante, non animale da stile ma bestia umana e prodigio di visione, fino all’astuto «inaccessibile» Landolfi. Quanta fibrillazione cardiaca e nervosa nella sua sintassi, per non citare gli arcaismi, i sillogismi, insomma l’intero l’armamentario linguistico di rovina e di saccheggio. Perfino Alberto Moravia, dietro la sua scaltrezza sintattica (gli viene dall’essere autodidatta) nasconde lo scodinzolare di una lingua sismografica. Per confessare che ho amato soprattutto gli scrittori asintattici: da Fenoglio, alla Ortese; da Verga a Federico Tozzi; da Berto a Domenico Rea. A Curzio Malaparte – di cui ora anche i morti si sono ricordati.
È così: la foratura della sintassi, il suo boicottamento riportano all’oralità e alla fatica di riportarla sulla pagina. Il «bosco» della lingua che reinventa la sua sintassi apre scenari incontrollabili. Non solo catturano espressione, ma sommano odori e puzze, colori e sapori. Ogni grande scrittore ha tentato (almeno) questa strada. È la via che conduce il romanzo a un mondo nuovo. L’angelo del Liponard di Mario Tobino è pieno di smottamenti e slavine sintattiche. Per ciò la storia riconquista la vetta di un dramma insopportabile. Shakespearianamente sublime.
L’italiano, fino all’avvento della televisione, si è parlato poco o malamente come affermava Eco. A scrivere erano i burocrati, i notai (a seconda delle regioni con parola e modi dialettali) e poi gli scrittori. Con il computer e la mole di mercanzia che ti impone di scrivere e ti corregge, certo sul versante linguisticamente anemico, gli italiani hanno imparato perfino che sul verbo «è» ci vuole appunto l’accento grave (non sapendo che è grave) e un po’ non ha l’accento ma l’elisione o apostrofo che indica la caduta delle lettere: «C» e «O». Accettare l’andazzo mortifica non soltanto la lingua italiana: dà il la a una produzione sterminata di narrativa fatta senza leggere e scrivere. Anzi, si scrive e basta. Ciò non insegna a nulla. Mi auguro che la lingua italiana torni a parlare male e a scrivere peggio. Intanto se deciderò di tornare a insegnare, come sempre, ai miei studenti di scuola superiore amputerò il dito e, con il Manzoni sotto il naso, ci addestreremo su quelle orride Grida a protezione del Griso e del Nibbio.