Corriere della Sera, 8 agosto 2017
Bembo, il cardinale mondano che impose la lingua di Dante
Ai suoi tempi, la fama di Pietro Bembo fu grandissima, e ciò non sorprende per una personalità già singolare per la sua biografia ora descritta con passione, ma anche con molta cura da Marco Faini, nel volume L’alloro e la porpora. Vita di Pietro Bembo, pubblicato dalle Edizioni di Storia e Letteratura.
Di nobile famiglia veneziana, Bembo non ebbe tuttavia successo nel tentativo di assumere cariche e uffici pubblici, secondo il costume dell’oligarchia lagunare. In realtà, ventenne, nel 1490, Pietro aveva già deciso la sua strada: quella di letterato e scrittore, nell’ampio senso proprio alla cultura e alla prassi dell’Umanesimo, allora al suo apogeo.
Frequentò, quindi, le maggiori corti e case del Rinascimento italiano: Medici a Firenze, Montefeltro a Urbino, Este a Ferrara, Gonzaga a Mantova, i pontefici a Roma. Molti gli amori, tra i quali Lucrezia Borgia (che con lui scambiò lettere, in una delle quali gli inviò una ciocca dei suoi biondissimi capelli). Moltissime le amicizie coi maggiori intellettuali del tempo e con artisti come Raffaello Sanzio. Una vita mondana passata per tutte le raffinatezze del tempo, con varie, e non solo giovanili, licenziosità. Poi si avviò alla carriera ecclesiastica, ma ciò non gli impedì affatto di portarsi a Roma una giovane veneziana (una cortigiana), e di averne tre figli. Alla fine, comunque, nel 1539, il papa Paolo III lo nominò cardinale e vescovo prima di Gubbio e poi di Bergamo, finché nel gennaio 1547 si spense.
Una vita da vero aristocratico, da grande intellettuale e da alto prelato del Rinascimento. Con tutto ciò anche sempre una più che ammirevole assiduità al lavoro intellettuale, con un vigore inesausto fin all’ultimo. Non era da un tale cardinale che si potevano attendere grandi cose per la Chiesa nel dilagare della Riforma protestante, benché suoi amici fossero Reginald Pole e Jacopo Sadoleto, esponenti dell’ala moderata e riformista di quella Chiesa, coi quali solidarizzava. Ma dal letterato si ebbe anche più di quanto egli stesso forse sperasse.
Fu lui, dopo aver prescritto un umanesimo latino e ciceroniano, a esaltare l’italiano come lingua di pari dignità della latina, a fornirne le ragioni storiche e strutturali giustificative, a trattare del rapporto tra contenuto e forma, a stabilire i criteri di valutazione della forma, a fissare nel toscano la forma più propria dell’italiano e nei grandi scrittori toscani (Dante Alighieri e Francesco Petrarca) il modello da seguire e imitare. Con ciò egli risolveva definitivamente la questione dell’uso del latino per gli scrittori italiani, e fissava quei criteri dell’italianità linguistica che, almeno in parte, hanno resistito fino al XX secolo. Né basta.
La sua indicazione del Petrarca come modello poetico fu una prescrizione che condizionò a lungo la poesia italiana ed europea, e nel petrarchismo trovò una di quelle lingue comuni continuamente elaborate nel corso della storia d’Europa: la lingua di una civiltà non solo letteraria. Già, però, ai suoi tempi fu colto il limite di un’estetica in cui la forma, sia pure altissima e geniale, assumeva un valore assoluto; di una dottrina in cui la lingua obbediva al modello di un passato, sia pur splendido, anziché alle urgenze del presente; di una cultura la cui innegabile tensione umana e morale (pur in una vita mossa e varia come quella del Bembo) si risolveva, ma anche si esauriva nel suo slancio e genio estetico e nelle brillanti eleganze delle forme.
Già alla fine dello stesso Cinquecento il filosofo francese Michel de Montaigne pronunciava un drastico Laissons là Bembo, e così di lì a poco si fece in Italia. Proprio per ciò la vita del Bembo non è, però, solo la singolare biografia di una personalità fuori del comune. È anche una parabola, intensamente vissuta, del Rinascimento italiano e dell’Italia del Rinascimento, dell’incomparabile patrimonio e dei formidabili problemi che se ne sono ereditati. Una ragione di più per coltivarne le memorie e continuarne lo studio.