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 2017  luglio 30 Domenica calendario

E il killer dilettante avvelenò il bitter

Il 24 Agosto 1962 Tranquillo (Tino) Allevi, grossista di formaggi di Arma di Taggia, ricevette per posta uno strano involucro. Conteneva una bottiglietta di bitter, con un’ancor più singolare lettera di accompagnamento di una nota ditta di Milano più o meno di questo tenore: la preghiamo di assaggiarlo; se è buono lo mettiamo in commercio, e Lei sarà il nostro rappresentante di zona. Lo sprovveduto commerciante non sospettò nulla di losco; non lo sorprese nemmeno la confezione grossolana, priva di marchi ed etichette, con la bottiglietta chiusa a tappo in modo sommario. Tracannò il liquore assieme a due amici, che quasi lo sputarono per quanto era amaro. I due finirono all’ospedale, e se la cavarono per miracolo. Tranquillo morì quasi subito tra dolori atrocissimi. Il bitter conteneva tanta stricnina, dissero poi i periti, da fulminare due tori.
LA TRESCA
I sospetti si indirizzarono subito sul dottor Renzo Ferrari, veterinario della vicina Barengo, che da tempo aveva intrecciato una relazione con Renata Lualdi, moglie dell’Allevi. Il quale sapeva benissimo della tresca adulterina, anche perché una volta, avendo sorpreso entrambi in aperta flagranza, aveva sottratto gli indumenti del dottore che era tornato a casa seminudo. Per di più, i due non facevano nulla per nascondere il loro incontenibile trasporto, che consumavano nei luoghi più disparati: in auto, sul greto del fiume, nel fienile, in casa e altrove. Tuttavia, benché cocu magnifique, il marito era pur sempre un ostacolo. E i carabinieri trovarono presto, a carico del veterinario, indizi e prove schiaccianti: la lettera scritta con la macchina dell’ufficio; l’acquisto di stricnina in dosi massicce col pretesto di curare bovini; la presenza a Milano nell’ora in cui il pacco era stato spedito, e via così. Ferrari negò tutto, anche la relazione sentimentale. Poi dovette ammetterla, ma la spacciò per una zingarata da scapolo, inadeguata a sollecitare passioni omicide. Forse fu questo atteggiamento indifferente e spavaldo, più ancora del crimine, a irritare la vedova, che diventò la sua più implacabile accusatrice.
IL NUOVO RIVALE
Al processo, la donna fu ascoltata a porte chiuse. Ma ancor prima che i verbali fossero resi accessibili erano filtrate le notizie più piccanti: Renata aveva avuto relazioni plurime prima e dopo il matrimonio, prima e dopo il Ferrari. Anzi, il fatto che si fosse trovata un nuovo amichetto aveva aumentato la furia del geloso veterinario. Questo, per la verità, avrebbe potuto costituire un elemento a suo favore, salva l’eventualità, che qualcuno adombrò, che l’ostinato veterinario intendesse avvelenare anche il nuovo rivale. Ma la Corte procedette imperterrita. Una giudice popolare, ascoltando queste prodezze amorose, uscì sconvolta dall’udienza, e fece alcuni commenti che avrebbero potuto invalidare il processo. La Lualdi ne uscì ammaccata sotto il profilo morale, ma indenne come testimone credibile. La sentenza definitiva l’avrebbe definita moglie esuberante, donna molto irrequieta nell’appagamento degli istinti sessuali e costituzionalmente proclive alle avventure passionali. Tuttavia i giudici diedero atto che aveva tenuto un atteggiamento lineare e coerente, non tralasciando, per ossequio alla verità, di mettere in luce persino gli aspetti più degenerativi di tanti intimi particolari che venivano a mortificare ancor più la sua già compromessa posizione morale. Un linguaggio che oggi farebbe rabbrividire, o forse sorridere.
Poi emersero altre prove. La più significativa fu la scoperta che l’etichetta appiccicata al pacco del bitter era stata ritagliata da una rivista medica che Ferrari riceveva regolarmente. L’imputato smentì, ma fu travolto dalle sue stesse contraddizioni. Il Presidente fu sul punto di perdere la pazienza, ma il roccioso veterinario mantenne una calma olimpica, ai limiti della sfrontatezza. Più volte si dichiarò tranquillo, giocando, con pessimo gusto, sul nome del marito avvelenato.
Dopo le consuete udienze dove sfilarono soprattutto periti tossicologi, la Corte condannò il Ferrari a trent’anni di reclusione. Gli concesse alcune attenuanti compresa quella di un deficit mentale dovuto alla sua insana e ossessiva passione per la Lualdi, e quella di essersi sempre dichiarato innocente.
La Pubblica accusa fumò di irritazione per un verdetto così sconcertante. Ferrari aveva architettato un delitto in modo goffo, ma non per questo era mezzo scemo. Quanto all’ostinazione del negare anche l’evidenza, questo era semmai un elemento aggravante. La Corte d’Assise d’Appello rinnovò in parte il dibattimento, e alla fine concordò con la Procura Generale. Ritenne l’imputato colpevole di omicidio premeditato, non gli concesse alcuno sconto e lo condannò all’ergastolo. La sentenza fu confermata in Cassazione, e divenne definitiva.
L’EPILOGO
Visto retrospettivamente, forse il caso non meritava l’attenzione che suscitò. Il piano sarà anche stato diabolico, ma era stato male progettato e peggio eseguito. E anche se i potenziali colpevoli potevano essere molti (la moglie, il suo nuovo amante, i creditori) l’imputato aveva disseminato il percorso omicida di una serie impressionante di tracce univoche. L’idea di ritagliare l’etichetta della ditta da una rivista cui era abbonato non deponeva a favore di una brillante intelligenza criminale. Tuttavia questa approssimazione dilettantesca fu compensata dall’abbondanza degli ingredienti che eccitano la morbosità popolare: una girandola di tradimenti e di situazioni boccaccesche, con un epilogo da basso impero orientale: l’avvelenamento e la morte tra gli spasimi. Il tutto in un’apparente atmosfera di normalità, nella tranquilla campagna ligure, tra protagonisti di estrazione non propriamente regale. Il pubblico, che affollava l’aula della Corte, subì il fascino dell’orrore in casa propria. Quel misto di attrazione e di brivido che un letterato definì la volupté de la peur sans le danger. La voluttà della paura senza il pericolo.
Nel 1986 Ferrari fu graziato. Morì due anni dopo, sempre proclamandosi innocente. Ad Arma di Taggia, nel locale dove la vittima assaggiò il bitter, oggi c’è un noto ristorante.