La Gazzetta dello Sport, 14 luglio 2017
Bonucci in controluce
Raccontandosi, qualche mese fa, Leonardo Bonucci ammetteva: «Io scontroso e indisponente? Forse perché indosso un’armatura. Sono una mente tanto pensante e una bocca poco parlante. La diffidenza è un mio limite». Dietro il personaggio si cela la persona. Cioè, il carattere. Duro in campo, sempre severo, sempre grintoso, gli occhi da cattivo da sbattere in faccia agli avversari (e, qualche volta, pure ai compagni...), eppure dolce, apprensivo, ipersensibile appena smette di fare il calciatore e torna a essere soltanto un uomo. Il Bonucci che conoscono i tifosi è soltanto una parte del tutto: il resto, perlomeno l’altra metà, si nasconde tra le ombre che ognuno di noi si porta appresso e magari non ha tanta voglia di metterle in piazza, a costo di apparire, come spesso appare Bonucci, scontroso e indisponente. Di sicuro, simpatico o meno che sia, è il miglior difensore italiano in circolazione. Tanto bravo da meritarsi i complimenti di un santone come Guardiola che da molti anni stravede per lui e che, per averlo, avrebbe impegnato parte del suo ricchissimo stipendio.
RAPPORTO La fine della storia con la Juve era nell’aria da tempo. Perlomeno da febbraio, quando Bonucci litigò platealmente con Massimiliano Allegri. Lì per lì l’allenatore minimizzò e parlò di un «disguido». Qualche giorno dopo, a Oporto, l’allenatore spedì Bonucci in tribuna per punizione, e gli fece fare la figura dello scolaretto pizzicato a copiare il compito in classe. Al di là delle scuse ufficiali presentate da Bonucci a tutta la squadra, quello è l’attimo in cui il rapporto si lacera, e nessuno avrebbe potuto ricomporre la frattura. Da allora Bonucci si è tolto la soddisfazione di vincere il sesto scudetto consecutivo, di alzare al cielo la terza Coppa Italia e di disputare la finale di Champions League, poi persa contro il Real Madrid, ma sapeva che il futuro non sarebbe stato bianconero. Tanti pensieri gli saranno passati per la testa, in questi ultimi mesi, tante volte avrà riflettuto su ciò che gli era capitato da quando, era l’estate del 2005, riempiva la valigia e saliva sul treno alla stazione di Viterbo diretto a Milano: lo aspettava l’avventura con la Primavera dell’Inter. Era l’inizio del sogno. Ci fu lo scudetto con i giovani nerazzurri, e pure la Coppa Italia di categoria, e poi le esperienze in giro per l’Italia, come tutti i ragazzi che hanno bisogno di farsi le ossa, a Treviso, a Pisa, a Bari, e l’incontro (decisivo) con Giampiero Ventura che, in Puglia, lo valorizzò e ne fece, assieme a Ranocchia, un difensore di sicuro affidamento.
ERRORI Alla Juve arrivò nell’estate del 2010, via Genoa. L’Inter se n’era liberata un anno prima nell’ambito dell’affare che portò Milito e Thiago Motta in nerazzurro. Ma i primi tempi a Torino non furono semplici. La squadra non ingranava, i tifosi mugugnavano e Bonucci era nel mirino. In quel periodo venne coniato il termine «bonucciate», per riferirsi agli errori che il difensore commetteva per eccesso di confidenza o per disattenzione. Negli anni Cinquanta certi svarioni erano definiti «maldinate», in omaggio al grande Cesare Maldini. Ma Bonucci non si scompose e, soprattutto, non si fece travolgere né dalle critiche né dalle pressioni. Barcollò, certo, ma restò in piedi. Esattamente come fece quando il Procuratore Federale chiese 3 anni e 6 mesi di squalifica per lui, accusato di aver «combinato» la partita Udinese-Bari. Era l’estate del 2012, un’estate di ansia e di tensione. Bonucci soffrì, ma alla fine il verdetto gli diede ragione: assolto. Fu come rinascere. E un sentimento simile, anche se ben più profondò, lo provò nell’autunno del 2016. Il figlio Matteo per otto ore in sala operatoria, i pensieri che si affollano, la paura che sale, e poi il risultato: intervento riuscito. «In quegli attimi mi è passato per la testa di smettere di giocare» confessò, e scrisse tutte queste emozioni sui social network che frequenta con insospettabile assiduità. Il carattere, quello che molti gli rimproverano, lo ha tenuto in piedi. E la famiglia: la moglie Martina, il piccolo Matteo e il figlio più grande Lorenzo, tifosissimo del Torino e del «Gallo» Belotti e costretto suo malgrado a partecipare alla festa-scudetto della Juve, mano nella mano con papà. A chi gli chiede quali sono le tre persone più importanti, a parte i famigliari, risponde così: «Carlo Perrone, allenatore nella Berretti della Viterbese, che mi spostò da centravanti a difensore. Alberto Ferrarini, il motivatore che mi ha insegnato ad accettare le critiche e a concentrarmi solo sulle cose veramente importanti. Antonio Conte, l’uomo che mi ha fatto diventare ciò che sono».