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 2017  luglio 07 Venerdì calendario

Biografia di Kim Jong-Un, il piccolo dittatore

Il suo sogno è arrivare a New York e magari un giorno ci riuscirà: a cavallo di un missile? La Statua della Libertà può attendere, l’obiettivo è il Madison Square Garden: vuole andare a vedere – confessa al suo amico Dennis Rodman, l’ex re della pallacanestro – gli amatissimi Nicks del basket.
Guida Mercedes e beve Johnny Walker: giocava a Tetris e Super Mario ma oggi preferisce la stanza dei bottoni, possibilmente nucleari. Nel cuore del Regno Eremita, che ha ereditato il nomignolo appiccicato all’intera penisola per il suo storico isolamento, ha regalato al suo popolo anche uno show con ballerine vestite da Minnie e Topolino: la Disney ha protestato, uso di marchio non autorizzato, ma lui non è tipo da chiedere permessi. Sempre Rodman, il nero dal capello rosso, ha confessato di bevute senza fiato nella residenza estiva di Wonsan, dove sono attraccate due meraviglie marchiate Princess Yachts, 60 metri di lusso ciascuna. A Seul la chiamano “hallyu”, e l’ha citata perfino Barack Obama in visita laggiù: vuol dire korean wave, onda coreana, espressione pigliatutto che raccoglie l’insostenibile leggerezza del K-pop e la sostenibile pesantezza dei film di Kim Ki-duk. A Pyongyang la chiamano invece “eumjugamu”. E in quella metà di Corea dove le tv sono vendute con i canali, solo due, già pre-sintonizzati e bloccati per sempre, la parola accende strane fantasie: vuol dire “alcol, musica & ballo” – praticamente sballo. Il nostro dimostra, anche qui, di essere Leader Supremo: come quando si lascia andare ai party sfrenati nelle sue dodici residenze. O come quando se ne sta spaparanzato a mandare giù una 727 dopo l’altra, le sigarette autarchiche così chiamate per celebrare il 27 luglio (7 il mese, 27 il giorno), l’armistizio del 1953 tra Nord e Sud.
Il suo castello è la numero 55, la Residenza Pyongyang: così blindata da includere anche un campo minato che corre per il giardino, oltre al comando-bunker dove il novello Stranamore potrà sbizzarrirsi quando il programma nucleare auspicato dal nonno e perseguito da papà sarà finalmente concluso.
È la missione che s’è dato e che lui stesso ha battezzato “Byungjin”, «una nuova linea strategica che porta avanti, contemporaneamente, la costruzione dell’economia e delle forze armate nucleari». Sull’economia la discussione, si fa per dire, è aperta. Durante le annuali celebrazioni di primavera – 15 aprile genetliaco del Grande Leader Kim Il-sung, 25 aprile 85esimo della fondazione dell’Esercito del Popolo – i pochi stranieri invitati sono stati portati ad ammirare i grattacieli da 70 piani nel nuovo quartiere di Ryomyong Street. Sostiene invece il Global Hunger Index che dieci milioni di persone sono a rischio sussistenza: il 41% del paese. I conti, dunque, sulla crescita non tornano: ma volete mettere come funziona il suo Byungjin quando si tratta di sparare missili. Jin Qiangy, il professore d’origine coreana che fa la spola tra Pyongyang e la Cina, dice a Repubblica che sotto la sua guida la Corea del Nord «ha cominciato la trasformazione da un’economia pianificata a una economia di mercato» e che il Giovane Maresciallo «non è più legato al pensiero socialista tradizionale». Bryan Myers, il prof americano della Dongseo University, Corea del Sud, ti aggiunge che ormai non è più legato neppure alla Juche, la dottrina ufficiale di Stato: «Sente che il suo regime è ormai così potente da poter mostrare il vero colore ideologico: da estrema destra». Il comunismo può attendere: il suo sogno è arrivare a New York e magari un giorno ci riuscirà. Ma com’è stato possibile che il sogno di Kim Jong-un sia diventato il nostro incubo?
SEUL
La Svizzera non è Disneyland ma quel ragazzino svogliato non sembra interessato neppure più di tanto a distrarsi, come fanno i suoi compagni, con fumetti e cartoon. Pensa ad altro. Le montagne di Berna lo riportano continuamente a quelle di casa: troppo lontana. Kim è malato di nostalgia, Kim è troppo timido per fare amicizia, Kim si rifugia come un pulcino sotto l’ala della zia chioccia finita anche lei lassù nel cuore dell’Europa. Sembra un quadretto da Heidi, e invece è così che comincia il ritratto del dittatore da giovane, è da qui che bisogna partire per cercare uno straccio di documento, testimonianza o ricordo per rispondere alla domanda che tutto il mondo si sta facendo con l’atomica puntata alla tempia: chi è davvero Kim Jong- un? Chi è il Leader Supremo che dal 38esimo parallelo minaccia indisturbato l’intero pianeta? Un pazzo? «No che non è un pazzo» dice a Repubblica Daniel Tudor, l’autore con James Pearson di North Korea Confidential: «Non è un pazzo anche se ci gioca: perché è il modo migliore per farci ancora più paura». Un tiranno imprevedibile? «No che non è imprevedibile» aggiunge Jean H. Lee, la prima giornalista occidentale a poter lavorare a Pyongyang con l’Associated Press e oggi fellow del Wilson Center: «Dai missili al nucleare niente è fuori dell’ordinario: continua a muoversi nel solco delle decisioni di famiglia». Non è un pazzo, non è imprevedibile: e com’è che nessuno è riuscito ancora a fermarlo?
Sembra un’amara ironia del destino ma l’uomo che rischia di scatenare la terza guerra mondiale è cresciuto proprio nel paese più neutrale del mondo, la Svizzera. Certo le fonti contrastano, il ritratto non è mai a tutto tondo. I testimoni balbettano verità intermittenti: però non sono neppure in malafede. Quel bambino è andato a nascondersi lassù sotto falso nome, e la confusione è aumentata dal fatto che sempre in Svizzera sarebbe andato a svernare anche il fratello maggiore Kim Jong-chul. Quello che una decina di anni fa – rivelano i cabli di WikiLeaks – aveva (inutilmente) invitato a suonare a Pyongyang il suo idolo Eric Clapton. Quello stesso Kim che il padre poi scarterà dalla successione perché ha «un cuore da femmina». La colpa? Aver presentato alla maestra, proprio quando svernava qui in Svizzera, un tema che sembrava copiato da Imagine: immagino un mondo senza armi e senza atomica, immagino un mondo dove la gente è libera. Un po’ troppo, forse, per sedere sul trono più sanguinario del mondo.
La prima testimone si chiama Ko Yong-suk, sostiene di essere la sorella della mamma dei Kim e in una intervista al Washington Post dice di essere fuggita perché temeva di cadere in disgrazia. Ko Young-hui, l’attrice coreana ma nata in Giappone che è la seconda amante di papà Kim Jong- il, è malata di cancro al seno e può morire da un momento all’altro, e si sa che alla corte di Pyongyang le fortune girano peggio che in quella di Bisanzio. Ko è arrivata a Berna da due anni, nel 1996, proprio per occuparsi di Kim, allora dodicenne, e del fratello più grande, Kim Jong-chul. Ogni tanto si porta dietro anche Kim Yo-jong, la sorellina, la donna che oggi sovrintende all’immagine del fratellone, vicedirettrice del potentissimo dipartimento della Propaganda. Vive con il marito e i ragazzi al civico 33 di Kirchstrasse, Berna, una viuzza con un paio di pizzerie, il supermarket della Coop e la filiale di una banca: «Abitavamo in una casa normale, facevamo la vita di una famiglia normale». Dice che Kim giocava già allora con i soldatini, era intrigato dalle macchine: come navigano le navi, come volano gli aeroplani? «Non era una vera peste, ma intemperante e impaziente sì» racconta ad Anna Fitfield. «Se la mamma gli diceva di piantarla con i giochi e studiare di più, sul momento non le ribatteva però protestava smettendo di mangiare». È più basso dei suoi compagni, ma è sempre la mamma a dirgli che se gioca a basket diventerà più alto. «Diventa ossessionato, con quella palla va perfino a dormire». Ora è il momento del carosello: «Quando arrivavano gli altri ragazzi preparavo qualche stuzzichino. Mangiavano un dolcetto, giocavano con i Lego». Sarà stata proprio quella normalità ad aprire gli occhi alla signora: che succederà quando perderà la sua protettrice? Ko decide di cambiare vita prima che la morte della sorella cambi la sua e si presenta armi e bagagli all’ambasciata americana a Berna: la zia del dittatore che oggi minaccia gli Usa fugge inseguendo l’American Dream. E Kim?

Qui le testimonianze si perdono: non senza prima regalarci altri scorci dell’infanzia di un capo. Quando la preside della scuola Liebefeld- Steinholzli lo introduce ai compagni della 6° A, Kim si presenta acconciato come un ragazzino born in the Usa: jeans, scarpe da ginnastica Nike e la maglietta degli amatissimi Chicago Bulls, la squadra di basket dove svetterà il suo futuro amico Rodman. «Questo è Un-pak, viene dalla Corea del Nord – dice la preside – è il figlio di un diplomatico». Il ragazzino scivola nel banco accanto a quello di Joao Micaelo, anche lui figlio di un diplomatico, portoghese: «Non eravamo i più asini ma neppure i più svegli: sempre in seconda fila». Kim mastica un po’ di inglese e un po’ di tedesco, ma nulla di più. Gli piace la matematica, ma poi si perde anche lì. «Quando doveva risolvere un problema gli veniva l’agitazione. I professori vedevano che ci provava disperatamente e si vergognava di non farcela: decisero di lasciarlo in pace». L’avventura in Occidente finisce così: e così finisce anche tutto quel che più o meno sappiamo sui suoi studi, coronati poi dai cinque anni a caccia di laurea trascorsi, fino al 2007, a Pyongyang – dove si suppone non abbia incontrato grosse difficoltà visto che l’università è intitolata a nonno Kim Il- sung. «Qui in Svizzera invece lasciò senza dare neppure un esame. Era più interessato al basket e al pallone che alle lezioni». L’amico Joao sostiene che anche questo spinse il padre a farlo rientrare in Corea: quel ragazzo introverso, che fino a un paio d’anni prima si chiudeva nella sua cameretta a mettere a tutto volume le canzoni più patriottiche di Pyongyang, forse anche per coprire i singhiozzi del pianto, adesso è tutto preso dai giochini tecnologici. «Era circondato dai migliori gadget: tv, videoregistratore, la Playstation della Sony. Guardavamo un sacco di kung fu, soprattutto i film con Jackie Chan». La passione più grande resta però il basket. «Dopo la scuola ci vedevamo al campetto per fare qualche tiro: pretendevamo tutti e due di essere Michael Jordan».

Il ritratto del dittatore da piccolo ricalca quello di tanti adolescenti di tutto il mondo: ma poi subito se ne distacca. «Parlavamo di ragazze, di cosa fare da grande. Il fine settimana organizzavamo delle feste, scorreva un sacco di alcol ma non ho mai visto una goccia bagnargli le labbra. E non sembrava interessato neppure alle ragazze». «Il padre e il nonno erano due playboy, lui anche oggi è più un tipo da famiglia: la moglie, la figlia» ti dice Tudor, l’autore di North Korea Confidential. «Come persona sembra anche un tipo piacevole, adesso ama bere, è un ragazzo divertente: ma se provi a contrastarlo, ti distruggerà. È un monarca, è come Maria Antonietta: il re è lui e tutti gli altri seguano. E pensa anche di essere nel giusto».
Il figlio del diplomatico portoghese, che oggi fa lo chef, finisce il racconto di vent’anni fa svelando come, poco prima di sparire, il suo amichetto gli mostra una foto con il papà e gli dice: «Vedi? Io non sono il figlio dell’ambasciatore, io sono il figlio del presidente nordcoreano». Ma qui non sai più dove finisce la testimonianza e dove comincia la coloratissima versione del Daily Mail.
«Una sera ci mettemmo a parlare di politica: il diritto di voto, il senso di responsabilità. Lui non intervenne mai, tutto il tempo a guardarsi la punta delle scarpe e a scandagliare nel suo sacchetto di Loeb, il miglior negozio di delikatessen di Berna, un posto dove per due insalate spendi cento euro». Vero? Falso? Sicuramente verosimile.
L’incoronazione in Piazza Kim Il- sung
Il giorno in cui si affaccia per la prima volta alla balconata della Biblioteca della Grande Casa del Popolo, il mondo sa poco o nulla del giovane dittatore che adesso minaccia di fare saltare in aria il pianeta. Kim Jong- un, 27 anni, e quindi orwellianamente nato proprio nel 1984, guarda il suo popolo raccolto in Piazza Kim Il- sung, la Piazza Rossa dei coreani. È il 29 dicembre 2011 ma per l’ideologia di Stato – quella Juche che plasma ogni cosa ed è già stata rinnegata perfino dal suo ideologo, Hwang Jang-yop, fuggito in Corea del Sud, – mancano solo due giorni alla fine dell’Anno Cento: è il primo secolo dell’età dei Kim, l’era che nasce il 15 aprile 1911 insieme a Kim Il-sung, Kim il Primo, il “presidente eterno”. Kim Jong-il, cioè Kim il Secondo, è spirato 12 giorni prima ma il conclave nella Sistina Rossa è durata pochissimo: sono due anni e mezzo che quel ragazzo studia da leader, e adesso tutto è pronto per l’annuncio del nuovo papa. E dunque eccolo, finalmente, l’uomo che «trasformerà il dolore della Repubblica Democratica Popolare della Corea in forza e coraggio mille volte più grandi», come sta dicendo Kim Yong-nam, 83 anni, il cardinale camerlengo di Pyongyang, che in realtà sfodera un titolo molto più lungo e molto meno evocativo – presidente del presidio della suprema assemblea del popolo. Tocca a lui pronunciare il “nuntio vobis” alla coreana: tocca a lui annunciare l’ascesa «del Compagno Kim Jong-un».
Nella piazza non si muove una foglia. Si potrebbe quasi sentire scorrere il Taedong che passa lì accanto, ma perfino il fiume che taglia Pyongyang non osa opporre il suo flusso al silenzio religioso. Non solo la piazza ma la Corea del Nord tutta è riempita in quel momento dal suono di quel nome che per la prima volta riecheggia pubblicamente. «Il rispettato Compagno Kim Jong-un è il nostro Supremo Leader del partito, delle forze armate e del paese». Pausa. «Il compagno Kim Jong-un è colui che eredita l’ideologia, la leadership, il carattere, le virtù, la grinta», sembra non finire più, «e il coraggio del Grande Compagno Kim Jong-il».
Il ragazzo ascolta in silenzio. Parlano gli altri, parlano i colonnelli del regime. Ma lui tace. Le ventuno salve di cannone sono il segnale che quella folla immensa aspettava. «Dopo che l’ultima salva è esplosa, una cacofonia di sirene, fischietti e strombazzate risuona per tutta Pyongyang – dalle auto, dagli autobus, dai treni e dalle navi – per segnare la fine del periodo di lutto ufficiale» racconta Paul French in Our Supreme Leader: The Making of Kim Jong- un. Ma «appena la banda dell’Esercito Popolare di Corea suona l’Internazionale, Kim Jong- un scompare dalla vista per infilarsi dentro l’enorme biblioteca». Il Leader Supremo adesso è lui, «ma come sarà il suo stile di governo – e come si comporterà lui stesso – resta un mistero». È vero che era già tutto deciso: ma è vero anche che nessuno sa nulla di lui. Non era lui il predestinato. Doveva toccare a Kim Jong-Nam, il figlio (unico) che Kim il Secondo aveva avuto dall’amante più amata, Song Hye- rim, e che invece s’è fatto pizzicare dieci anni prima all’aeroporto di Tokyo mentre con un passaporto falso cercava di andare, pensa te, a Disneyland. Non era lui il predestinato e Kim il Terzo resta per questo un mistero.
Perfino i pochi “pyongyangologi” che credono di potersi orientare in quel castello maledetto rimarranno, tra poco, terribilmente spiazzati. Tutti guardano, per esempio, all’uomo e alla donna che fino a un minuto prima erano lì sul balcone ritti accanto al nuovo leader. Lei è Kim Kyong-hui, classe 1946, la potentissima zia paterna che è stata segretaria del Partito dei lavoratori. Lui è Jang Song-taek, anch’egli classe ’46, vera anima nera del regime. La sua qualifica ufficiale è vicepresidente e direttore dell’amministrazione del partito, la sua qualifica ufficiosa – e che nessuno avrebbe l’ardire di ufficializzare mai – è presidente ombra. È lui l’uomo forte al comando della Corea del Nord, è lui che ha vegliato sugli ultimi anni di Kim Jong-il sempre più debole e malato, è lui che ha vegliato soprattutto su Kim Jong-un accompagnandolo negli arcani di palazzo come un secondo padre: con tutto l’affetto e l’odio che qui ogni figlio ha da sempre rivolto verso il proprio padre.
Jang è l’uomo del business, quello che con la moglie tiene la cassa, il principale architetto di quello schema finanziario che gli addetti ai lavori hanno ribattezzato “Dollars for Kim”. Il miglior ritratto lo offre Barbara Demick, l’ex capo dell’ufficio di Pechino del Los Angeles Times che ha raccolto i suoi reportage in Nothing To Envy: Ordinary Life in North Korea.
«Sposa la sorella di Kim Jong-il contro il parere di suo padre. Tipetto elegante, viaggia in Corea del Sud e Cina: particolare che ne fa l’uomo più di mondo della reclusa famiglia regnante». In Corea del Nord non vai da nessuna parte se non ti chiami Kim: o se non sposi qualcuno chiamato Kim. Le occasioni non mancano perché, almeno da questo punto di vista, la famiglia è piuttosto aperta, grazie alla libertà di vedute sentimentali dei primi due della dinastia, di cui nessuno è mai riuscito veramente a tenere il conto di mogli e amanti. Di Kim il Primo si raccontano caterve di concubine e si ricordano due mogli ufficiali: Kim Jong-suk, che morirà appena 32enne di parto, nel 1949, e poi Kim Sung-ae. Kim Jong-suk è un po’ la madonnina del presepe di lassù, perché prima della dipartita è comunque riuscita a regalare alla patria Kim il Secondo e la sorella Kim Kyong-hui di cui sopra. La storia di Kim Song-ae riassume invece il clima di paura e delirio a Pyongyang che caratterizza la dinastia. Quando il padre della nazione se ne innamora eccola balzare saltando ogni gradino da segretaria a potentissima leader, presidente dell’unione delle donne democratiche di Corea. Poi sembra che il dio Kim quasi se ne dimentichi, non la si vede più nemmeno accanto, e questo certo si spiega con il fatto che lei tenta in tutti i modi di spingere alla successione uno dei suoi tre figli, Kim Pyong-il. Finirà male per tutti. Per l’aspirante al trono, che da Pyongyang viene praticamente esiliato in Polonia, a fare da innocuo ambasciatore. E soprattutto per lei. Il dio-marito è ancora vivo ma ormai praticamente soggiogato, a sua insaputa, dal figlio, che gli ha stretto intorno il cordone dei suoi fedelissimi e gli controlla anche le telefonate. Siamo agli inizi degli anni ‘90 ed è tutta la vita che Kim il Secondo, ormai cinquantenne, soffre la presenza di quella donna che ha sempre cercato di mettergli tra i piedi i suoi figlioli: e adesso che lui è finalmente riuscito a tenere a bada l’amato —si fa per dire – papà, perché non approfittarne per fare fuori anche l’odiata matrigna? Detto fatto: mamma Kim viene dichiarata insana di mente, come da migliore tradizione di tirannia comunista, e messa agli arresti domici-liari, dove trascorrerà gli ultimi vent’anni della sua esistenza – sempre che sia morta per davvero, come si dice, nel 2014, dopo essere già stata data per assassinata tre anni prima in un finto incidente stradale a Pechino.
Ecco dunque perché Kim Kyong Hui e Jang Sun-taek, la sorella e il suo bel maritino, sono così potenti in questa dinastia sanguinaria dove è sempre il sangue appunto a comandare. Loro sono sangue del sangue. Parafrasando un signore che queste cose le aveva profetizzate, tutti i Kim sono uguali ma Kim Kyong Hui e Jang Sung-taek sono più uguali degli altri. Sono loro, anzi, a possedere le vere chiavi del regno: altro che quel ragazzone che ancora non dice una parola. Sono loro, i reggenti, l’uomo e la donna destinati a governare la Corea del Nord fino a quando Kim il Terzo non si sarà fatto le ossa. Lo sanno tutti lì nella piazza stracolma di quel gelido dicembre. O meglio: questo è quello che credono tutti. E proprio per questo sarà ancora più scioccante scoprire la verità. Una verità pronta a svelarsi con i particolari che sembrano rubati da un film altro che dell’orrore – semplicemente splatter. Perché chi potrà mai immaginarlo, in questo gelido giorno di dicembre dell’Anno Cento, che la coppia più potente del Regno Eremita farà presto una fine da cani.
Amore e morte a corte
Come ottiene la mano dell’amata l’uomo che nella vita dispone del corpo degli altri a suo piacimento, centinaia di migliaia di corpi internati nei campi di lavoro e morte? Come chiede la mano dell’amata l’uomo che lascia spegnersi nelle sue celle il corpo di un giovane americano, il povero Otto Warmbier, colpevole soltanto di aver tentato di portarsi a casa un souvenir da quella gita all’inferno? La Bestia & la Bella, il Diavolo e l’Acqua Santa, Eros & Thanatos. I luoghi comuni si sprecano tutti alla ricerca di una cornice dove esporre la foto di matrimonio del leader dello stato più cattivo del mondo. Perché nella biografia di Kim Jong-un davvero la morte fa capolino perfino nella sua storia d’amore.
Sembra un complicatissimo gioco degli specchi. Kim sposa Ri Sol- ju, la star della Moranbong Band, una diva pop, una cantante. Kim fa trucidare l’ex fidanzata Hyon Song- wol, la star della Unhasu Orchestra, una diva pop, una cantante. La storia che rivela il Chosun Ilbo, il giornale sudcoreano noto per far trapelare le veline dell’intelligence di Seul, incendia la primavera del 2013. Kim ha appena fatto sobbalzare il mondo con il suo primo test nucleare, 12 febbraio, quando esplode la bomba del gossip più cruento della storia di lassù: Hyon Song- wol, l’ex fidanzata di Kim Jong- un, viene arrestata insieme ai compagni del suo gruppo, una delle band nazional-popolari più note del paese, la Unhasu Orchestra. L’accusa: pornografia. Il processo manco a dirlo sommario, la sentenza già emessa: condanna a morte per lei e i suoi complici nella band. Possibile? L’Orchestra che un anno prima si è esibita fino a Parigi dedicando alla Città dei Lumi “Arirang”, l’inno ufficioso di Stato, accompagnata niente di meno che dalla Filarmonica di Radio France, adesso non solo finisce dietro alle sbarre ma perde almeno quattro dei suoi componenti: trucidati da un plotone di esecuzione. Addio ai cantori di “Io amo Pyongyang”, “Lei è un soldato riformato, “I passi dei soldatini”. Un successo affogato nel sangue: e perché mai?
Scrive John Sweeney, lo scatenatissimo (e informatissimo) reporter spedito dalla Bbc in Corea del Nord per un reportage in incognito, che «l’ex fidanzata di Kim il Terzo e i suoi amici possono essere stati vittime di qualche terribile intrigo di palazzo. Forse – argomenta in North Korea Undercover: Inside the World’s Most Secret State — sono stati registrati mentre sparlavano o tramavano una vendetta verso Kim. Forse avevano video porno di Kim Jong- un dalle performance imbarazzanti. Qualcuno potrebbe aver cercato di ricattarlo: e questo spiegherebbe il bagno di sangue». Tutto tiene. Ma la domanda da farsi è: c’è stato davvero il bagno di sangue?
L’esecuzione a colpi di mitragliatrice dei pornografi e traditori della Unhasu sarebbe avvenuta davanti agli altri membri dell’Orchestra e di due band rivali, la Wangjaesan Light Band e la Moranbong Band. Il carattere educativo dell’evento è evidente. Ma occhio: la Moranbong non è una band qualunque. È una band composta da ragazzine acconciate in maniera anche sexy e filo-occidentale scelte a una a una dal Supremo Leader. «Le ragazze della Moranbong Band» ha scritto Jean H. Lee su Foreign Policy «sono più che semplici principesse pop: sono le emissarie politiche di Kim». E chi cantava nella Moranbong Band? Quella Ri Sol-ju che diventerà sua moglie. E dove ha iniziato la bella Ri? Che domande: nell’Unhasu di quella Hyon Song-wol amata da Kim. La storia, dunque, sarebbe andata così. Kim il Giovane era pazzo della sua Hyon, ma quel dittatore di papà non si capisce perché non apprezzava la show girl, lui che pure aveva fatto rapire dalla Corea del Sud una divetta, Song Hye-rim, che gli fece da amante e gli diede pure un figlio, il povero Kim Jong-nam che il fratellastro farà poi assassinare in Malesia.
Kim il Terzo dunque brama, Kim il Secondo frena: la bella Hyon però scalpita e fa un figlio con un altro incomodo (oggi probabilmente finito anche lui sottoterra) senza però rinunciare a continuare a vedere il potentissimo Kim – e dando così vita a quel ménage a trois che alla fine porterà la morte a chissà quanti. Convinti? Anche qui: che battaglia tra il vero e il verosimile. Dietro i pettegolezzi che i nordcoreani hanno definito «barbarie», si nasconderebbe una plausibile verità, raccolta da un rapporto del Nis, il servizio segreto di Seul: i quattro ragazzi dell’Unhasu sarebbero stati sì uccisi, ma con l’accusa di spiare per il Sud. E la focosa Hyon? «Io posso solo confermare quello che avevamo già accennato nel libro» dice Tudor, l’autore di North Korea Confidential.
«Hyon Song- wol non è morta. Una nostra fonte l’ha vista e ci ha parlato». Che sia sparita invece è molto più plausibile. Meglio non farsi più vedere in giro adesso che il Supremo Leader ha impalmato la sua rivale. Non è sano.
Semplicemente scomparsa o tragicamente uccisa, tutto è definitivamente cambiato per Hyon quel 25 luglio del 2012. Sono le 8 di sera e la Korean Central Television fa quello che la fa (quasi) ogni sera: mostrare le immagini del Supremo Leader in missione nel paese. L’ispezione questa volta è assai poco marziale perché Kim è in visita a un parco dei divertimenti. Con lui Pyongyang sta cambiando volto. «Il regime vuole mostrare che questo nuovo Kim è giovane, hip e moderno», dice Lean H. Lee. «La leadership sarà anche ereditaria ma lui sta cercando il consenso delle nuove generazioni, spinge tanto su sport e tecnologia, perfino l’ossessione per il nucleare invece delle armi tradizionali è uno spolvero di modernità». E difatti la capitale oggi sfodera parchi a tema, boutique, perfino le vetrine di Miniso, la risposta cino- giapponese al successo di un brand come Muji – e ovviamente missili, missili e missili. La telecamera non si stacca mai dal leader finché non compare, all’improvviso, una giovane donna, e l’annunciatrice fa sapere che si tratta di «sua moglie, la compagna Ri Sol-ju».
La coppia sarebbe andata a nozze nel 2008 o forse nel 2009, ma comunque abbastanza di corsa: Kim Jong-il sa di avere i giorni contati e vuole far mettere la testa a posto al ragazzone che ha scelto come erede. Congettura su congettura: se il matrimonio avviene nel 2008 e la bimba, che si chiamerebbe Kim Yo-jong, oggi ha quattro anni, avrebbero ragione i pettegoli di corte che temono che Kim non riesca ad avere ancora un figlio maschio. «Lei deve necessariamente dargli un figlio maschio, le monarchie hanno bisogno di figli maschi: e quando succederà crescerà anche il suo potere a corte, come era accaduto alle altre mogli dei Kim» spiega ancora Tudor. Forse ci ha già provato a dargli quel maschio che il dittatore cerca con la stessa insistenza che mette nell’inseguimento del programma nucleare. Forse ci ha provato e qualcosa è andato storto: e questo spiegherebbe anche la sua assenza dalle scene l’anno scorso durata, guarda caso, proprio nove mesi. Anche qui, via alle speculazioni di ogni sorta: è malata, è in depressione come la matrigna di Kim, il marito se n’è liberata e ha fatto fuori anche lei. Pettegolezzi cancellati quel giorno del dicembre scorso in cui nel solito bollettino delle 8 di sera è ricomparsa accanto al Giovane Maresciallo. Poi, per carità, lassù tutto è possibile. Anche la sua immagine passa naturalmente attraverso il formidabile Ufficio Propaganda dove si decide ogni particolare del look del Leader Supremo: compreso l’ormai celebrato taglio di capelli, la stessa giacca alla Mao che portava il nonno, al quale sempre più cerca di assomigliare per rafforzare la sua leadership, e quindi anche il look simil-Chanel della signora, ormai ammirata come «una specie di Jackie Onassis di Pyongyang», dice Tudor.
Peccato che tanto glamour resti nascosto dietro la cortina. Uno dei pochi testimoni occidentali della felicità coniugale è sempre lui, quel pazzo di Dennis Rodman. L’ex stella americana della Nba, si sa, lassù in Corea del Nord ci è andato cinque volte, anche se l’ultima «il suo migliore amico» non l’ha voluto incontrare personalmente, forse terrorizzato dal fatto che anche il campione possa essere stato involontariamente arruolato dalla Cia per ammazzarlo come da trama di Interview, il film con James Franco che la Sony ha dovuto ammainare dopo che per vendetta da Pyongyang era partito il più grande attacco hacker nella storia di Hollywood. Rodman dice adesso di aver visto, anzi perfino tenuto in braccio la piccola, che allora aveva appena un anno, durante la visita del 2014, il giorno in cui la sua personalissima diplomazia del basket ha toccato il punto più basso, quando prima di esibirsi davanti ai 14mila accorsi al Pyongyang Indoor Stadium sempre lì davanti a tutti si è messo a cantare Happy Birthday To You a Kim, per il suo 31esimo compleanno, 8 gennaio: come Marilyn Monroe che cantava tanti auguri a John Kennedy.
Resta il mistero di Ri e della sua scarna biografia. Figlia di un professore e di una ginecologa, si sarebbe specializzata in musica in Cina, o in scienze a Pyongyang. Oppure, come salomonicamente riassume la scheda preparata da Paul French, «sia in scienze che in musica». Conclusione rispettabilissima nel tentativo di far quadrare conti e profili che non tornano mai, voci che sovrastano voci, date che impazziscono nel frullatore dei reportage tv, storiacce da cronaca nerissima – il rosso sangue delle stragi e delle esecuzioni che riesce a far affogare perfino quei brandelli di cronaca rosa sopravvissuti al mattatoio dell’uomo che dispone dei corpi degli altri a suo piacimento.
Il potere in pasto ai cani
Anche la Corea del Nord, nel suo piccolo, ha i suoi Dead Men Walking. Solo che i condannati a morte di lassù hanno poco da attraversare l’ultimo miglio: l’inferno non può attendere nelle prigioni del regime e la condanna, appena pronunciata, è quasi sempre eseguita. Questo è lo stato con il più funzionale apparato repressivo del mondo: 200mila i prigionieri dei campi di concentramento, e lì dentro non ci si finisce solo per ragioni politiche; 120mila sono quelli che hanno sfidato lo strapotere della dinastia, ma ci sono anche decine e decine di migliaia, dicono 80mila persone rinchiuse per i reati più comuni. Tutto è classe nel paese che ha imposto la lotta di classe e dove a regnare è il fantomatico Partito dei lavoratori: solo che qui la classe si chiama “Songbun” e ricorda per la verità più le caste d’India che le divisioni sociali ipotizzate da Karl Marx. Un’invenzione del Caro Leader Kim Il-sung, che creò appunto tre livelli da dividere poi in sottocategorie. Un’invenzione da regno distopico che sembra rubata dalle pagine di 1984: ecco infatti la classe del “nucleo” del paese, la classe di quelli “titubanti” e la classe infima dei “nemici”: naturalmente del popolo, e quindi della sua rappresentazione massima, cioè il dittatore- Kim di turno. Quale modo migliore per controllare e dividere il popolo? Il “nucleo” è ovviamente quello che governa e popola le grandi città da Pyongyang a Chongjin. I “titubanti” sono quelli che stanno di mezzo e su cui è meglio tenere più che un occhio. I “nemici” sono le famiglie che originariamente avevano combattuto i comunisti. Questo capolavoro di ingegneria sociale è anche all’origine di una delle più imponenti tragedie nazionali. Quando negli anni Novanta le alluvioni devastano il paese già piegato dalla mancanza di aiuti di Mosca – il Muro di Berlino già crollato seppellendo il sistema sovietico – i funzionari di regime dirottano verso la classe amata gli aiuti ricevuti dalle organizzazioni internazionali. La classe amata vive nelle città: ma i nemici del popolo sono quelli che nelle campagne allagate soffrono di più. Il risultato sono tre milioni di morti: di fame. Nel paese dei paradossi quel disastro apre però l’unico spiraglio che i nordcoreani intravedono in settant’anni. Nella Corea allo sfascio, alla gente disperata e senza più aiuti di Stato non resta che ricorrere al mercato, anche se obbligatoriamente nero. Kim Jong-il, che ha sperperato milioni di aiuti in orologi e macchine di lusso, per non parlare delle brigate del sesso, capisce che qualcosa deve cambiare e prova, timidamente, a scimmiottare le riforme cinesi. Ma è un flop. È allora che si rifugia nel nucleare. Il primo test è del 2006 ed è chiaro che sta cercando una via di fuga: vuole contrattare la sua sopravvivenza.
Ri Chun-hee è l’annunciatrice che 17 anni prima ha comunicato ai coreani la notizia più triste del mondo. È lei la signorina buonasera degli annunci importanti, è lei che Kim Jong- un ha richiamato adesso dalla pensione per annunciare al pianeta di aver lanciato un missile capace di raggiungere gli Stati Uniti d’America. È la sera del 19 dicembre 2011 e Ri Chun- hee ha appena annunciato la dipartita del Caro Leader Kim Jong- il. E nei dieci giorni di lutto sono milioni i coreani che si riversano per le strade a urlare disperati “Padre! Padre!”, “Abogi! Abogi!”: ma lo sanno tutti che Kim era un Leader Caro solo di nome. Per questo la salita al trono di Kim il Giovane è vista, per quanto oggi possa sembrare impossibile, come un soffio di libertà. Per questo la storia dei Dead Men Walking coglie tutti di sorpresa.
I Dead Men Walking sono gli uomini che accompagnano il Caro Leader nel suo viaggio verso l’inferno. «È la vecchia guardia: quella a cui il sovrano morente ha affidato il paese e il figlio troppo giovane» spiega sempre Tudor. «E a poco a poco, tutti questi uomini che seguivano la bara di Kim Jong-il non ci sono più». Non solo non sono più al potere: non sono più al mondo. I numeri naturalmente non concordano quasi mai ma sui sette dignitari che seguivano la bara, cinque sarebbero già finiti loro stessi sottoterra. Cinque più uno: il più blasonato, quello che abbiamo osservato immobile proprio al fianco di Kim Jong-un il giorno in cui quel ragazzone si affaccia per la prima volta alla balconata dello studio della Grande Casa del Popolo. Sì, il Dead Man Walking che nessuno avrebbe mai immaginato morto è proprio suo zio: Jang Sung-taek.
«La purga di Jang è uno spettacolo teatrale che avrebbe reso orgoglioso Stalin» scrive Barbara Demick. «La televisione coreana trasmette immagini di un meeting speciale del Partito dei Lavoratori in cui Jang viene preso per le ascelle e trascinato fuori dalla stanza». La caduta è il capolavoro di Kim: il ragazzo che fa fuori il sorvegliante messo lì dal padre. Ma è anche il punto più alto della sua crudeltà: un punto che ancora non è riuscito a raggiungere neppure il più potente dei suoi missili. Per carità: buon sangue non mente, il ragazzo è pur sempre il nipotino di Kim Sung- il, l’ex guerrigliero che negli anni ‘ 30 e ‘40 si fece le ossa guidando la resistenza contro gli occupanti giapponesi ma quando si presentò da Josif Stalin si guadagnò la benedizione sovietica solo perché per lui aveva speso una parola buona Lavrentij Beria, il più crudele dei bolscevichi. E i coreani del resto avevano capito cosa il Giovane Maresciallo sarebbe stato capace di fare già al suo debutto. È l’ottobre del 2012, meno di un anno dopo l’incoronazione, e siamo ancora in un periodo di lutto quando l’ex viceministro dell’esercito, Kim Choi, viene beccato a gozzovigliare. Kim ordina che di lui «non resti più traccia, neppure un capello», e il poveretto viene “obliterato” a colpi di cannone. Per lo zio, però, che salto di qualità. Un comunicato lo bolla come «la peggiore feccia umana», «peggio di un cane»: l’accusa è quella di voler destabilizzare il partito e lavorare per sé. E per la verità è quello che lo zietto ha fatto per tutta la vita: lavorare per sé e per la ditta trafficando di tutto, dal carbone al pesce, con l’aiuto dei suoi amici cinesi che l’hanno sempre protetto, e infilando figli e figliastri nei posti che contano, nel governo, nell’esercito, arrivando ad accumulare una ricchezza incredibile, dicono anche più di 80 milioni di euro. Kim però adesso decide di liberarsi non solo di lui ma dell’intera famiglia. Anche di sua zia, la sorella di suo padre, sangue del suo sangue?
Qui le notizie divergono: c’è chi dice che il nipotino abbia “obliterato” anche lei e c’è invece chi dice che la stessa zia abbia dato il via libera alla strage. Certo sarebbe che Kim ha comunque già individuato chi mettere al suo posto, quello di “cassiera” e un po’ superpartes di famiglia, una specie di garante della stabilità della cupola: un’altra donna, la sua sorellastra, Kim Sul- song, unica figlia della prima ( e meno amata) moglie di Kim il Secondo, Kim Young-suk. Anche qui: dicono che Kim il Terzo abbia una venerazione per questa quarantenne senza scrupoli che gli avrebbe coperto le spalle durante il suo misteriosissimo mese sabbatico, quando il giovane leader – settembre 2014 – era praticamente scomparso dai radar scatenando una caterva di gossip. Dicono, anche, che sia stata lei la mente di quell’altro capolavoro di crudeltà, l’assassinio del fratellastro ( anche suo) Kim Jong-nam. E che ci sia allora anche la sua manina dietro la morte mostruosa che Kim avrebbe fatto fare allo zietto? La fine più crudele: in pasto ai cani.
La notizia spunta come da sempre dai giornali stranieri, in questo caso è lo Straits Times, che pure è una istituzione di Singapore, che la riprende da Wen Wei Po, un tabloid sensazionalistico di Hong Kong con il visto del partito. Sospetto: sono stati dunque proprio i cinesi a mettere in giro la voce dei cani? È Pechino che comincia a essere ben più che insofferente di quel ragazzone, l’unico dei Kim che non si è ancora degnato di andare a baciare la coda al Dragone? È un segnale per screditarlo? Cani o non cani – le cronache più informate parlano di una “semplice” esecuzione – certo è che la scomparsa dello zio è il segno che il giovanotto ha ormai ben saldo il controllo del potere. Osservazione per niente scontata. Perché perfino questa sanguinaria monarchia deve in realtà confrontarsi con una sua propria struttura delta: il misteriosissimo Jojik- Jidobu, il potentissimo Dipartimento dell’Organizzazione e Guida, meglio noto con l’acronimo inglese di Ogd. È questo il vero parlamentino che si spartisce il potere nel regno dei Kim. È questa la cupola che prende le decisioni da presentare al Supremo Leader. Lo zio, lì dentro, era uno dei capi. E adesso chi ne ha preso il posto?
Non è una domanda da poco. Individuare tutti gli uomini del Supremo è anzi operazione fondamentale ora che di fronte ai missili di Kim il mondo ha due scelte soltanto: rispondere o dialogare. Chi sono allora i suoi consiglieri? Chi sono gli uomini che lo fanno ragionare? «Quando Kim Jong-il ebbe il primo infarto, anno 2008, un piano per la successione non c’era ancora, e così hanno dovuto fare tutto in fretta, pescando quel ragazzo appena 23enne e circondandolo di consigliori. Era un meccanismo che puntava sul tempo lungo: salendo al potere così giovane Kim avrebbe dovuto regnare per decenni, quindi era chiaro che si sarebbe prima lasciato guidare» spiega Jean H. Lee. «Ma l’esecuzione dei fedelissimi che il Caro Leader gli aveva messo alle costole dimostra due cose: che Kim ha ignorato la volontà del padre e ha deciso di fare tutto da solo».
La vecchia guardia è sempre più vecchia e sempre meno forte: e tutto cambia alla velocità dei missili che Kim non si stanca di testare. «La Corea del Nord di oggi» scrivono Tudor e Pearson in Confidential «potrebbe essere considerata come una coalizione composta da Kim Jong-un, dai suoi parenti stretti, e dai membri dell’Ogd come Hwang Pyong So e Kim Kyong Ok». Il problema è che subito dopo l’uscita del libro è circolata la voce che Kim si era liberato anche di questo Kim Kyong Ok: e adesso? «E adesso neppure Hwang Pyong So, uno dei generalissimi, è così potente come pensavo fosse prima» confessa Tudor. «Direi che è ancora il secondo uomo più potente del paese. Ma oggi come oggi, se all’improvviso dovesse sparire pure lui, non ne sarei per niente sorpreso».
Oggi come oggi, nessuno si sorprenderebbe più di niente in Corea del Nord. Il regime, ti dicono tutti, è più solido che mai, «e l’ultimo test del missile intercontinentale non fa che consolidare la leadership», assicura Jean H. Lee. Il re è sempre più solo. «Donald Trump implora la Cina di tirargli la briglia ma dopo la morte di Jang Song- taek non sappiano neppure chi è che nel suo regno tiene più i contatti con Pechino». Il re sempre più solo e un regno senza più altri pretendenti: anche perché, quando ci sono, zac! – e non ci sono più. E chi proteggerà, adesso, Kim Han-sol, il nipote 22enne comparso in un video su YouTube, che chiede, disperato, di non fare la fine di suo padre Kim Jong-nam?
Oggi come oggi – con quel ragazzone che continua a trafficare con i missili come faceva da bambino, quando chiedeva com’è che gli aerei volano, com’è che le navi navigano – siamo tutti prigionieri del Giovane Dittatore che gioca a basket con la palla-mondo sul 38esimo parallelo.