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 1977  novembre 20 Domenica calendario

L’impossibile stretta di mano

L’incontro impossibile è avvenuto. L’egiziano Sadat ha lasciato per davvero le sponde del Nilo per stringere la mano all’israeliano Begin. Il capo di una nazione araba ha messo piede per la prima volta sul territorio dello stato ebraico. È accaduto alle 18.59 (ora italiana) di stasera all’aeroporto di Tel Aviv presidiato dall’esercito, illuminato dai riflettori, tra i suoni delle fanfare e le salve di cannone.
Affiancati l’uno all’altro, quasi a sfiorarsi, il volto color cuoio del presidente egiziano, figlio di un arabo e d’una nubiana, e quello asciutto, leggermente abbronzato, del primo ministro israeliano, nato in una famiglia Askenazi di Brest-Litowsk, sono rimbalzati in milioni di case arabe e musulmane, sui teleschermi, accendendo speranze e timori. Perché da quest’appuntamento precipitoso e al tempo stesso solenne può infatti nascere una pace inedita, o una nuova tragedia.
Ai piedi della scaletta dell’aereo presidenziale, Sadat è stato accolto dal capo dello stato Ephraim Katzir e da Begin. I tre si sono stretti la mano, quindi – mentre la banda intonava gli inni dei due paesi – hanno passato in rassegna la guardia d’onore. Sadat aveva il viso grave, ma subito dopo l’atmosfera s’è fatta più distesa. Il Rais ha chiesto di Ariel Sharon (il generale che nel ’73 circondò la Terza armata egiziana), e quando questi s’è fatto avanti gli ha stretto la mano. Altre strette di mano con Dayan, con Golda Meir, con Eban, quindi Sadat e Begin hanno preso posto nell’automobile che li ha condotti a Gerusalemme.
Il cronista stenta a distinguere tra gli appunti, le dichiarazioni e le emozioni, le incertezze e i miraggi degli uni e degli altri. L’impazienza è unanime, mentre viene annunciato il decollo dell’aereo dal territorio egiziano. I minuti scanditi sulla pista d’arrivo a Tel Aviv nell’attesa che il jet di Sadat giunga a portata dei riflettori. I dubbi e i trionfalismi. I sorprendenti discorsi sulla «tradizionale fraternità giudeo-araba». L’amico egiziano euforico e poi smarrito che dice: «La pace è a portata di mano. Ma come raggiungerla?». L’amico israeliano che sogna già «un’alleanza Egitto-Israele, capace di colmare il vuoto lasciato dal crollo dell’impero ottomano settant’anni fa». E la tristezza, le perplessità degli arabi dei territori occupati che denunciano il tradimento e al tempo stesso sognano, come gli altri, la pace. Infine lo sportello che si spalanca. La sfida di Sadat comincia. Prima di ritirarsi nell’appartamento reale dell’hotel King David, dove dormì Richard Nixon, il presidente egiziano ha già avuto un primo colloquio con Begin. L’approccio dev’essere stato positivo, se a tarda notte un funzionario vicino al ministro degli Esteri d’Israele ha potuto dichiarare, alla radio israeliana, che il primo frutto dell’incontro tra i due leader potrebbe essere «un accordo di non belligeranza tra Israele ed Egitto».
Non vi è alcun dubbio che Sadat, domani, davanti al Parlamento d’Israele, chiederà il ritiro totale degli israeliani dai territori occupati nel 1967, durante la guerra dei sei giorni. Cosa potrà promettere Begin in cambio per non ferire irrimediabilmente l’insperato interlocutore arabo? Lasciarlo partire a mani vuote sarebbe condannarlo politicamente a morte. Forse negoziati per il Sinai o per il Golan. Ma la Cisgiordania, necessaria per risolvere il dramma palestinese, sembra irrinunciabile per Gerusalemme.
Carter ha telefonato più volte in questi giorni a Sadat e a Begin per raccomandare la prudenza. E non ha risparmiato i consigli: niente intese separate, non escludere del tutto i sovietici senza i quali nulla può essere risolto stabilmente, attenzione ai palestinesi che costituiscono una carica esplosiva impossibile da disinnescare.
La natura dei due uomini, Sadat e Begin, e le trasformazioni che essi hanno attuato nei rispettivi paesi hanno contribuito a rendere possibile quest’incontro. I loro predecessori rappresentavano quasi religiosamente storie inconciliabili. Erano appesantiti da carismi diversi per origine e specie. Gamal Nasser era prigioniero di un socialismo panarabo puritano, era ingabbiato in un dogmatismo al quale non sfuggivano neppure Golda Meir, sionista vincolata ai princìpi socialdemocratici mitteleuropei, e chi poi occupò la sua poltrona di primo ministro a Gerusalemme.
Hanno molti più punti in comune i nazionalismi meno sofisticati e quindi più pragmatisti di Menahem Begin, ex terrorista dell’Irgun e sostenitore del «grande Israele», e di Anuar Sadat, ufficiale musulmano e repubblicano che quasi svenne per l’emozione nel 1952, accompagnando il destituito monarca Faruk sulla nave dell’esilio. Anzitutto Sadat e Begin hanno demolito in gran fretta le istituzioni o i sogni socialisti che ancora sopravvivevano nelle loro capitali. Il nazionalismo grezzo che li anima rende possibile un dialogo su basi irrazionali, che i loro predecessori respingevano a priori.
Nella storia contemporanea non era mai accaduto che il capo di una nazione, senza aver posto fine allo stato di guerra, visitasse ufficialmente il nemico tra suoni di fanfare e discorsi fraterni. E questo è già paradossale. È un gesto riassunto in un’ingenua scritta araba ben visibile su un muro della vecchia Gerusalemme: «Evviva Sadat messaggero di pace e dio della guerra».
È un gesto al tempo stesso drammatico e disperato. Israele in queste ore esulta ma trattiene anche il respiro non riuscendo a capire quel che accadrà nell’immediato futuro, una volta partito Sadat. Sente il brontolio del mondo arabo in preda a convulsioni, forse meno gravi del previsto, ma suscettibili di deflagrazioni delle quali è difficile oggi immaginare le dimensioni.
Questi sentimenti contraddittori sono palpabili nei territori occupati, nella Cisgiordania che il primo ministro Begin chiama Giudea e Samaria, considerandole biblicamente province dello Stato ebraico. Anche là, come a Tripoli e a Damasco, ma sottovoce, Sadat viene accusato di spezzare il fronte arabo e molti sindaci cristiani e musulmani si asterranno domani dal rendere omaggio al presidente egiziano, davanti alla moschea di Al Aqsa, dove si recherà per la preghiera di primo mattino.
I sindaci musulmani o cristiano-progressisti festeggeranno la ricorrenza del «sacrificio» di Abramo nelle loro città con ufficiale mestizia. Ma l’ordine di sciopero, lanciato dalle massime organizzazioni palestinesi è rimasto inascoltato, le botteghe si sono aperte stamane come al solito e non soltanto perché le autorità di Gerusalemme avevano minacciato le abituali sanzioni contro i commercianti insubordinati.
Mi ha detto con severa tristezza un esponente palestinese: «Anche noi vogliamo la pace come Sadat, ma non al prezzo richiesto dai suoi amici israeliani».