Dieci anni di Repubblica, 23 ottobre 1977
L’innominato di via Solferino
Quando cambia il direttore del Corriere della Sera il fatto è grosso. Il Corriere è uno dei pochi giornali italiani che «fa opinione», vende ogni giorno mezzo milione di copie, per due terzi nel lombardo-veneto, e il resto in tutt’Italia e le vende ad un tipo di pubblico che costituisce il nerbo della società, il «presidio» delle istituzioni e – al tempo stesso – la fronda nei loro confronti.
Si discute se un grande giornale – e il Corriere della Sera in particolare – preceda o segua i sentimenti e gli umori dell’opinione pubblica. La questione è controversa. Personalmente direi che li accompagna: lettori e giornale interagiscono reciprocamente. Quando il direttore è bravo, precede, nel senso che anticipa di pochissimo i mutamenti del pubblico. Se li anticipasse di troppo, non sarebbe un direttore di giornale, ma un profeta, cioè una catastrofe per il suo editore.
Ottone, nel ’72, anticipò di pochissimo l’Italia del referendum sul divorzio e dello «smottamento» a sinistra che ne seguì. E negli ultimi sei mesi aveva anticipato di pochissimo un certo evidente riflusso. Perché Ottone è un bravissimo direttore e non ha altro in mente – com’è giusto per chi si vota a quella missione – che il suo mestiere.
Dunque non è per ragioni di linea politica che Ottone se n’è andato. È per qualcos’altro. Che cosa?
La risposta è semplice: probabilmente Ottone si è accorto che il suo editore era assai meno libero d’un tempo. E se non era più libero l’editore, non sarebbe stato più libero neppure lui. Prima di battere la fronte su quel sasso, ha preferito andarsene. Ha fatto benissimo.
Qualcuno obietterà che non esistono prove sulla «dipendenza» dell’editore del Corriere da forze e gruppi e interessi extra-editoriali. Qualcun altro, tanto per fare una fuga in avanti, sosterrà che tutti gli editori italiani si trovano nelle medesime condizioni e si tranquillizzerà la coscienza.
Ebbene, c’è risposta sia all’una che all’altra obiezione. Anzitutto gli editori italiani hanno una faccia riconoscibile, quasi tutti. Sono facce che possono non piacere, ma hanno un nome e un cognome. La Stampa è della Fiat, il Giorno dell’Eni, Carlino e Nazione sono di Monti, il Messaggero della Montedison, Repubblica è di Mondadori e dell’ Espresso che, a loro volta, sono proprietari di se stessi.
Ci sono solo due casi in cui, nonostante le apparenze, il proprietario è un Innominato: il caso del Giornale di Montanelli e quello del Corriere di Rizzoli, nel senso che, sia l’uno che l’altro, non si sa da dove traggano i denari per sanare i forti disavanzi delle loro gestioni. Montanelli fa collette qua e là; Rizzoli fa debiti, ma di tali dimensioni da autorizzare ogni sospetto.
Recentemente si sono diffuse notizie circa possibili interventi finanziari tedeschi o comunque stranieri. Personalmente non credo ad ipotesi di questo genere, anche se non si possono escludere. Stupisce comunque che il presidente del Consiglio, sollecitato da una pioggia d’interrogazioni parlamentari, non abbia alcuna voglia di dare notizie al riguardo: gli basterebbe chiamare il comandante generale della Guardia di finanza e il governatore della Banca d’Italia per sapere in ventiquattr’ore da dove vengono i finanziamenti di Rizzoli. Perché non lo fa?
Ma il vero problema non è neppure questo. Rizzoli è un privato e, fino a quando vigerà questo codice civile, delle sue proprietà può fare quello che vuole, ovviamente nell’ambito delle leggi. La questione è un’altra. Nei giorni scorsi, dovendo sostituire Ottone, Rizzoli è venuto a Roma ed ha fatto, come si suol dire, il «giro delle sette chiese»: si è incontrato con tutti i segretari dei partiti e con tutti gli sceicchi democristiani che contano e gli ha sottoposto una rosa di nomi di candidati alla direzione del Corriere.
Di Bella è un bravo collega e gli faccio molti auguri, per il suo lavoro, ma il fatto che un direttore di giornale – anzi del maggior giornale italiano – sia nominato in base a questa procedura è, diciamolo, una vergogna nazionale. E dimostra una lapalissiana verità: e cioè che «dipende» dal potere politico, senza i cui favori «bancari» non resisterebbe neppure un mese.
Lo scandalo del Corriere non è dunque nel fatto che il nuovo direttore rettifichi la linea del precedessore, cosa che rientra pienamente nei suoi diritti e nei suoi poteri: ma nel fatto che i partiti – anzi per parlar chiaro la Dc – si sono impadroniti «anche» del Corriere della Sera. Ai tempi di Albertini accadde qualche cosa di analogo. La storia – purtroppo – si ripete.