il Fatto Quotidiano, 25 agosto 2010
Anna Fallarino, 29 secondi con Totò in Totò Tarzan
Terzo capitolo
ANTONIO DE CURTIS detto Totò, nel film ha un ciuffo, e il suo solito tono scanzonato. La modulazione della voce è quella inconfondibile di sempre, con l’ironia affilata che fa sempre capolino nella giostra dell’apparente nonsense, l’eterno gusto per il calembour e il gioco di parole. Il ciuffo no, il ciuffo è un’acconciatura di scena. Se ci fate caso, in ogni film, Totò era sempre uguale a se stesso in tutto, e sempre diverso, in almeno un dettaglio. Il kepì di “Totò le moko”, il vestito scuro e gli occhiali da iettatore ne “La patente”, le maschere grottesche di Totò diabolicus, per non dire dell’indimenticabile combinazione di saio e zazzera, quasi una incarnazione crepuscolare in “Uccellacci e uccellini”. E poi, quel ciuffo eccessivo e posticcio, il ciuffo di Totò Tarzan. La scena in cui Anna Fallarino fa la sua prima ed ultima apparizione nella storia del cinema italiano, avrebbe potuto invece essere, come per tante altre stelline, il primo passo di una lunga carriera. Nella versione definitiva del film dura in tutto ventinove secondi, quasi trenta. Anna all’epoca ha solo ventuno anni. Per lei anche una scena di ventinove secondi in un film che sbanca al botteghino potrebbe essere il punto di partenza di una piccola scalata al cielo. Se solo quella scena si fosse chiusa in un altro modo, Anna non sarebbe mai diventata la marchesa Casati Stampa. Magari non avrebbe sfondato definitivamente, magari non sarebbe diventata una nuova Loren, maintantoancoraviva.Invece,la bussola del destino l’ha portata in un’altra direzione.
La scena da ventinove secondi che (non) ha cambiato la sua vita è una sequenza breve, una strisciata di bianco e nero un po’ virato che se ne vola via sullo schermo, graffi intermittenti a dare il senso del tempo. L’anno è il 1950. La regìa è di Mario Mattoli, Totò passa il tempo in una roulotte-camerino, corre voce che dongiovanneggi, fra un ciack e l’altro.
In quella scena, invece, con una sproporzionata camiciona coloniale e un fazzoletto appariscente al collo, irrompe nell’inquadratura e si ritrova attorniato da un plotone di belle ragazze. Grida giocoso: “A chi tocca?”.
Tutte le fanciulle ridono. Totò fa la conta, ìlare come un satiro innocente:“Toc-capre-ci-sa-me-ntea… te! Come ti chiami?”. È a questo punto che dal fondo del gruppo, Totò estrae, tirandola per il braccio, una ragazzona con i capelli bruni e vaporosi, e la trascina in primo piano, davanti alla cinepresa. È vestita da reginetta, con un bikini per i parametri dell’epoca strepitosamente succinto, e una coroncina di fiori che le incorona l’ovale. É Anna Fallarino.
Totò: “Come ti chiami?”.
“Ranocchia!”, risponde lei.
Come sono strane letraiettorie delle vite quando comincia a correre il cronometro del destino, ventinove secondi sono una misura elastica e imponderabile. Totò risponde alla sua maniera. Geniale, imponderabile, con uno dei suoi gorgheggi intraducibili: A-hhh, Uh-uh-uh. Onomatopee, ritmo, comicità intraducibile e ancestrale. E poi, accade che il tempo si infila nel varco del destino nel modo più imponderabile. E poi, in mezzo ai puntini sospensivi di quella domanda che era rimasta appesa, Totò infila persino uno di quei gesti che, fatto da chiunque altro sembrerebbero osceni. Agita una mano che va e che viene, mimando un pompaggio nell’aria. No, a dire il vero non sembra: è un gesto osceno. Ma è anche un gesto di Totò. Ventinove secondi in tutto che corrono sulla celluloide, adesso sono già quindici.
“Uh-uh-uh… Senti Ranocchia, andiamo a fare un…. Girino?”. Anna gli sorride, gli va incontro. Lui si scatena in una gag di sguardi e sorrisi, un’esplosione di sensualità comica. Ma questo accade sul set. Pellicola scomparsa e perduta. Nel film invece c’è, quasi impercettibile da cogliere un taglio di montaggio: la scena cambia. Adesso, nell’ultima manciata di secondi che il capriccio del regista le hanno concesso, Anna e Totò sono raggiunti da un finto intervistatore che fa una domanda sciocca al protagonista: “Senta Totò tartan, non vorrebbe fare un urletto al microfono?”.
VENTINOVE SECONDI,
quasi ventisette. Anna in questo cambio di scena è ritornata una comparsa, uno spettro. Assiste allo scambio di battute, sorride, ma è sulle spine, e si vede. É convinta di aver perso il suo momento, lo avverte fisicamente. Il cronista chiede a Totò: “Ci può dire qualcosa?”. E lui: “Qualcosa?”.
“Cosa pensa della civiltà?”.
A quel punto Totò si illumina. Fa una faccia delle sue, mima una pernacchia, Prrrr….
Ventinovesimo secondo, Anna sta uscendo dalla storia del cinema. Fa in tempo a dire: Oh-oh!”. Ed è qui che Totò, con il suo indecifrabile istinto comico, e con il suo innato istinto ritmico chiude il siparietto: “Preferisco la iiungla!”. Non dice Giungla, Totò, ma proprio iiiungla, con la “I”. La scrivi così e sembra solo una fesseria, lo dice lui e ti fa subito ridere. Perché la magia del cinema è quella. E anche il talento è un’equazione segreta che tiene insieme spazio, suono e tempo.
Anna quella scena è andata a rivederla tante volte, negli anni, ogni volta che hanno ripassato il film nelle sale, seduta in fondo, nascosta dietro un foularde grandi occhiali da sole. Ventuno anni aveva allora, adesso ne ha quaranta, ma in mezzo ci sono sempre ventinove secondi. Ogni volta che vede quel fotogramma correre sul grande schermo, si infila nella stessa catena di “Se”. Se Totò non fosse stato tagliato in montaggio per la sua meravigliosa sconcezza, avrebbero sicuramente dovuto lasciare in campo il suo sorriso, e chissà: era un sorriso così luminoso, ne sentiva ancora dentro di sé il riverbero, come può capitare delle emozioni che si vivono con intensità irrevocabile.
SE AVESSE fatto carriera non avrebbe dovuto acconciarsi all’idea di recitare in un palcoscenico domestico due vite di moglie che non le appartenevano, la prima con Peppino Drommi, ingegnere. La seconda con Camillo Casati Stampa, marchese. Il suo grande esordio nel cinema, l’appuntamento con la storia finiscono lì, ventinove interminabili secondi che ti ricordi per tutta la vita. Lei era esplosa di luce per la meravigliosa sconcezza di Totò, ma quel lampo era stato tagliato, insieme al suo presupposto giullaresco, perché i tempi del costume, nel 1950, non sono maturi nemmeno per una boccaccia decurtisiana. Così, nel luogo esatto dove altri con un fotogramma iniziano una carriera, lei la finisce. Ci ha ripensato mille volte, Anna, a quel ciak. Lei le battute sul copione le aveva, trenta parole per farsi largo sul palcoscenico della vita. Ma Totò era esploso in quel numero irresistibile. “Ungirino, ungirinetto…”. Sottinteso gioco erotico. Lei rideva, lui continuava. Solo in quel momento, solo per lei. E così il talento di Totò aveva incontrato le forbici pruriginose dei censori. La carriera di Anna era finita anche per una piccola pruriginosa censura: la fama che nel 1970, da morta, l’avrebbe portata nuda su tutti i rotocalchi nazionali, avrebbe cambiato il corso della storia per tutte, dopo di lei. Quella fama erotica, esplosiva, iconografica, travolgente, oscena, avrebbe prodotto lafine della censura più pruriginosa, spostato in avanti la linea della sostenibilità e del comune senso del pudore.