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 1977  novembre 25 Venerdì calendario

Le accuse di Levi le nostre ragioni

I fatti sono questi: le Brigate Rosse sparano, per uccidere, su Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa di Torino. La nostra condanna è immediata e totale. Poi Giampaolo Pansa va a Torino per raccontare come reagisce la città e riferisce che lo sciopero di solidarietà alla Fiat è in pratica fallito e che c’erano dei grossi vuoti in piazza San Carlo alla manifestazione contro il terrorismo: Il direttore della Stampa Arrigo Levi accusa Pansa e altri colleghi di avere puntato sul sensazionale e dato una immagine distorta di Torino.
Siccome sono stato a Torino nei mesi scorsi per capire quale è la situazione nelle fabbriche, fra gli studenti e nella nuova sinistra, mi sembra opportuno di intervenire per dire questo, in sostanza: il terrorismo che dispone, a suo insindacabile giudizio, della vita e della morte di chiunque, è talmente estraneo al nostro modo di fare politica, di pensare la politica che rivendichiamo il diritto di dire «non capisco» senza essere considerati per questo opportunisti o complici. Arrigo Levi, Ennio Caretto e i colleghi della Stampa che sono nell’occhio del tifone terroristico, hanno diritto alla nostra solidarietà e devono battersi decisamente; ci consentano però di dissentire dalle loro generiche chiamate di correo degli intellettuali e dalla pretesa di imporre in ogni circostanza, anche in questa, la mediazione dei poteri costituiti, sia grande giornale sia grandi partiti, a chi vuole conoscere la verità. Nel caso, la presenza, sia pure minoritaria, di una Torino indifferente e addirittura ostile. Costatazione amara, dura ma da farsi perché la funzione della Stampa e di tutti i quotidiani non è quella di autodefinirsi «bandiera della democrazia» o «maestri di libertà», ma di raccontare correttamente come questa democrazia opera nella realtà, come reagisce ai colpi del mondo e alle ingiurie degli uomini. Un discorso teso, certamente difficile in ore così drammatiche, ma in ogni modo civile. Giovedì mattina però, appare sulla prima pagina della Stampa, una lettera di Furio Colombo, corrispondente dagli Stati Uniti, residente a New York e, purtroppo, già lontano, si direbbe, dalla realtà italiana, dalla sua ferocia e dalla necessità che ne deriva di essere seri e responsabili. Dico purtroppo perché Colombo scrive: «Vi immaginate uno che sosti sui cadaveri della Banca dell’agricoltura e dica: «Ma cosa stiamo tanto a piangere sulle povere vittime. Questi erano mediatori che andavano a depositare il bottino, non facciamo gli ipocriti». È più o meno il ragionamento di Giorgio Bocca». E senza neppure darmi il tempo di sbalordire, di ricordarmi e di ricordargli che cosa abbiamo scritto a caldo, su quei morti, indicando subito il terrorismo nero, aggiunge: «Neppure di Occorsio o di Coco, che pure avevano avuto una vita professionalmente aperta a interpretazioni diverse ricordo che qualcuno abbia avuto il cattivo gusto di sostare accanto al cadavere mettendo in luce i possibili demeriti che avevano dopotutto meritato il delitto. Neppure per Calabresi. Per Casalegno invece va bene, «ma quale maestro di libertà» si incazza Bocca «ma quale bandiera della democrazia».
A questo punto ho chiamato al telefono Arrigo Levi e con la pacatezza che viene dallo sconforto assai più che da nervi freddi gli ho detto: «Scusa Levi, tu hai letto la mia opinione di martedì e sai molto bene che non c’era una parola, un giudizio, una allusione a Carlo Casalegno che, fra l’altro, è mio amico da quando lavoravamo a Giustizia e libertà. Tu sai che Furio Colombo mi attribuisce cose che non ho mai scritto fra cui parole aspre, irridenti nei riguardi di un collega ferito, mai pronunciate. Che cosa succede, Levi? Non ti sembra che qualcuno stia perdendo la testa?».
La risposta di Arrigo Levi mi ha spaventato e turbato: «Ci sentiamo nel mirino dei terroristi, paghiamo di persona e proprio adesso ci sentiamo attaccati da ogni parte. Sì, è vero, le tue parole erano dirette al giornale, ma noi le sentiamo come dirette a Casalegno, a noi».
Ho detto spaventato e turbato perché Levi parlava sinceramente e io non riuscivo a spiegargli che questo significa accettare la spirale della paura e del sospetto, delle delazioni e delle accuse generiche, dell’occhio per occhio. Spaventato e turbato perché ne io né Pansa né quanti pensano che ci spetti il dovere di ragionare e di distinguere, nonostante gli amici feriti, sappiamo più che cosa rispondere a chi come Colombo, ci accusa, senza perifrasi, di istigazione a delinquere, e addirittura di mandanti che indicano Levi come uno sconosciuto un po’ bieco schiacciato nelle vetrate del potere. E allora è logico odiarlo.
Le melanconiche considerazioni da fare mi paiono queste: quando vengono le ore difficili, bisogna mettere nel conto le più imprevedibili e isteriche reazioni personali e i raptus, i nervi che saltano anche agli amici e conoscenti che, senza accorgersene o accorgendosene, vi segnalano ai killer dell’uno come dell’altro terrorismo, alle punizioni dell’una come dell’altra repressione. E allora, come abbiamo detto al terrorismo «incomprensibile», come non potremo accettare il tanto peggio tanto meglio, diciamo agli amici e conoscenti che non sanno più ragionare e distinguere che non accetteremo neppure il loro gioco del massacro reciproco. L’uomo che non ha paura non è un uomo. Ma si può avere paura senza perdere la testa.