Dieci anni di Repubblica, 22 novembre 1977
Se la Torino-bene si sente offesa
Chi è il terrorista italiano? «È qualcuno», risponde Alberto Ronchey «che si concede un potere di vita e di morte su chiunque». Oppure, come dice Lotta Continua, qualcuno per cui chiunque può essere complice diretto o indiretto del sistema e quindi giustiziabile. Se le cose stanno così (e chi si sente di negarlo lo spieghi), credo si debba avere il coraggio o il diritto di confessare la propria ignoranza, di dichiararsi incapaci di capire.
Andrea Casalegno, dopo aver letto la sentenza a morte di suo padre firmata dalle Br, ha detto, da persona onesta: «Non capisco chi siano e che cosa vogliano. Non capisco la terribile sicurezza con cui definiscono i ruoli, attribuiscono le colpe e trasformano le persone in emblemi».
Anche noi siamo fra coloro che non capiscono e che lo confessano. E proviamo fastidio e anche un po’ di amarezza per le chiamate di correo e i rimbrotti che vengono da quanti presumono di aver capito o si vergognano a confessare di non aver capito.
Il direttore della Stampa, Arrigo Levi, e il vice direttore di Stampa Sera, Ennio Caretto, si trovano nell’occhio del tifone terroristico, hanno parecchi e seri motivi di essere preoccupati e fanno bene a battersi con decisione. Non possiamo però condividere i loro ripetuti e generici attacchi agli intellettuali e non ci persuade la loro stizza quando si scopre che la società torinese non corrisponde all’idea che se ne sono fatta.
Levi scrive in un editoriale: «Qualche giornalista venuto a Torino con ricordi e conoscenze imperfetti della città e con un certo gusto della sensazione, è rimasto sconvolto da frasi violente e provocatorie che ha raccolto da lavoratori i quali si dissociavano dallo sciopero indetto dai sindacati per solidarietà con Casalegno e ha assunto queste frasi a fatto determinante (ed è profondamente falso) nella reazione dei torinesi all’orribile attentato».
L’irritazione di Arrigo Levi è tipica dell’«establishment» torinese da sempre abituato all’equilibrio ineguale, ma stabile dei poteri: quello egemone della Fiat e quello subalterno dei partiti che amministrano la città e organizzano l’opposizione. In questo equilibrio La Stampa è l’interprete e il portavoce dell’opinione pubblica «torinese» immaginata come omogenea, mentre il Pci e il sindacato sono la mediazione obbligatoria con la classe operaia, anche essa immaginata compatta.
Ne risulta che nella situazione attuale, non il Pci in municipio e La Stampa bersaglio dei terroristi, doveva risultare questo quadro di Torino: l’intera città sdegnata e la classe operaia unanime nella condanna degli attentati.
In questa come in altre occasioni è accaduto però che un cronista estraneo all’equilibrio dei poteri abbia voluto vedere le cose come stavano. Questa volta è stato Giampaolo Pansa a interrogare direttamente gli operai della Fiat e a guardare con i suoi occhi piazza San Carlo. E ai suoi occhi, come ai nostri in recenti occasioni, la realtà torinese è apparsa questa: una classe operaia in notevole parte fedele al partito e al sindacato, ma, in altra e preoccupante parte, spoliticizzata, non rappresentata, fortemente e magari nevroticamente «incazzata» perché i nervi ce li hanno anche gli operai e saltano anche a loro; e una città eterogenea, ammalata, spesso ingovernabile, delle cui contraddizioni e ambiguità e anche solenni porcherie e madornali errori La Stampa è stata, per decenni, lo specchio a volte fedele, a volte deformante. Sarebbe consigliabile quindi lasciar perdere o attenuare il tono patriottico del giornale «bandiera della democrazia» o «maestro di libertà» e mettersi fra quanti non riescono a capire, ma vogliono capire e si sforzano di capire.
La realtà sembra un po’ più complessa: a Torino ci sono operai che provano sulla loro pelle i traumi dell’immigrazione, del lavoro alla catena, della metropoli disgregata; a Genova sono molto diversi, inseriti nella città, solidali con il partito, compattamente ostili all’avventurismo; e sono diversi a Milano, diversissimi a Napoli. E non è detto, come presume la Castellina, che combattere contro l’organizzazione capitalistica del lavoro sia di per sé una mossa vincente.
È piuttosto un grande rischio, se volete un nobile rischio, in cui tutti siamo coinvolti, operai e borghesi, lavoratori manuali e intellettuali. Sicché ci suonano falsi e comunque retorici gli appelli e le condanne degli intellettuali del tipo a cui è ricorso, per ultimo, Ennio Carretto. Andiamo, siamo seri, non attacchiamoci a categorie indefinibili, come questa degli intellettuali. Cerchiamo piuttosto di fare onestamente il nostro mestiere.
Il nostro di giornalisti non è quello di maestri di democrazia, ma quello di cronisti che raccontano onestamente. I cronisti sanno che questa democrazia non è una entità trascendente ed immutabile e sacra; ma qualcosa che va ogni giorno faticosamente fabbricata o risollevata dalle devastazioni del mondo e dalle ingiurie degli uomini.