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 1977  novembre 20 Domenica calendario

Parla il figlio militante di Lc

Sulle scale del reparto rianimazione delle Molinette, Andrea Casalegno parla con un medico. Dietro a lui la porta smerigliata delle corsie, dove da quattro giorni suo padre sta lottando con la morte. «Se continua ad avere questa fortuna...», risponde Andrea a chi gli domanda notizie del padre. È appena uscito da una breve visita ed è abbastanza ottimista. «Fortuna, fortuna pura, non si può dire altro quando non si crede in Dio. Il pericolo ora è che sopraggiungano complicazioni polmonari, ma la situazione è meno tragica di quanto sembrasse nei primi momenti».
Con quattro pallottole sparate in faccia («da non più di un metro e mezzo e l’ultima, forse, come colpo di grazia», dice Andrea) Carlo Casalegno sembra avercela fatta a sopravvivere. Il cervello non è stato leso, le corde vocali neppure: anche la mascella e i denti, che sembravano frantumati dalle pallottole, non hanno riportato danni gravissimi. «Sarà meno bello...», commenta con aria stanca Andrea, pensando alle infinite operazioni di plastica che il padre dovrà subire.
Per le scale che conducono al secondo piano delle Molinette salgono e scendono i parenti degli altri ricoverati. «Il posto è brutto, ma gli ammalati sono seguiti molto bene. Mio padre ha le stesse attenzioni di tutti gli altri. Non ci sono norme speciali per lui e noi, perché ci chiamiamo Casalegno», commenta Andrea.
È in maniche di camicia, gli occhi sono un po’ rossi. Niente all’esterno tradisce quattro giorni di angoscia. Ma la tensione si ritrova immediatamente appena inizia a parlare.
Nella parole di Andrea – un giovane uomo di 32 anni – ritorna costante il verbo «capire», rivolto a se stesso ma forse anche a molti altri che hanno il suo identico percorso politico: il Sessantotto. Palazzo Campana (1), le prime denunce, la militanza in un gruppo extraparlamentare (per Andrea, Lotta Continua), i volantinaggi alle porte delle fabbriche, le polemiche e le certezze.
«Colpire al cuore lo Stato, se non fosse tanto tragico mi farebbe sgangherare dal ridere. Lo capirebbe anche un bambino di tre anni che così lo rafforzano». Andrea Casalegno parla a getto, è difficile fermarlo. Si capisce che queste non sono soltanto cose che gli escono dalla bocca oggi, in una circostanza drammatica che lo colpisce da vicino: sono il risultato di lunghe riflessioni, di dubbi, di discussioni tra compagni. «Nullità politica», «alzare il tiro», «Stato imperialista delle multinazionali», questo misterioso Sim di cui le Br costellano i volantini, rimbalzano nelle sue frasi.
«E poi... Carlo Casalegno pennivendolo e uomo della Dc. Ma da dove lo hanno preso tutto questo? Mio padre è uno che non ha mai scritto una parola in cambio di soldi. È uno che vive del suo stipendio tutti i mesi. Mai che Agnelli gli abbia telefonato per dirgli scrivi questo o quest’altro. Dalla sua attività professionale hanno estrapolato pochi articoli, qualche frase, si dimenticano di quanto ha sempre scritto contro i fascisti. È un uomo di educazione liberale, ma quando suo figlio è entrato in Lotta Continua non gli ha mai rotto i coglioni».
È chiaro che Andrea condivide ben poche delle idee di suo padre. Però, nel ricordare che gli hanno dato del democristiano, esplode: «A uno che era in Giustizia e Libertà. Ma lo sanno che cosa era G.l.?
«Non mi sorprende l’animosità di certe risposte degli operai della Fiat a chi gli chiedeva dell’attentato. Non mi meraviglio di chi non fa sciopero per mio padre, non ne sono stupito, è una reazione lecita. La loro è una risposta immediata, personale...».
Andrea Casalegno crede ancora nella rivoluzione, nella lotta degli sfruttati, ma non riesce proprio a capire il percorso mentale delle Br. «Disprezzo totale per la vita umana, disprezzo totale per quello che pensa la gente. Mi fanno inorridire. E quel poveretto dell’avvocato Croce, che male aveva fatto?».
Ma non c’è stata da sempre, dal Sessantotto, una mitizzazione della violenza? E la responsabilità di quello che succede oggi non può essere cercata nel passato? «Assolutamente no. Di che violenza parliamo? Allora c’era un grande esempio di lotta armata: era il Vietnam. E i picchetti, erano violenza? Per me, no. Se veniva un fascista a provocare davanti alla Fiat, era giusto, ed è giusto, prenderlo a botte. Ma certi slogan, come «ogni fascista preso lo massacriamo», sono veramente ributtanti. Allora la nostra violenza era più verbale che reale. Ma è certo che da questa indifferenziata categoria della violenza noi ci dobbiamo liberare».
Andrea continua a parlare. Seduta su di un gradino delle scale lo ascolta sua moglie Elisabetta: non dice una parola, ha l’aria stanca, risponde solo se le si chiede dei due figli («li abbiamo lasciati a degli amici, ne abbiamo tanti»). Nelle frasi di Andrea si ripete di continuo un concetto, quello di «rapporto con la realtà». Un rapporto che molti, inseguendo i miti, sembrano aver definitivamente perso.
Disumanizzazione della politica? Assimilazione acritica di miti e di forme di lotta sempre più atroci? «Quando facevo politica, ma anche adesso, ho sempre pensato che il problema principale fosse questo. Il semplicismo non è più giustificato. Certo, una volta avevamo un partito, sapevamo che la rivoluzione non era dietro l’angolo, ma ci sentivamo un piccolo gruppo che lavorava per questo. Oggi c’è una crisi politica globale... Curcio e gli altri delle prime Br avevano un percorso politico, hanno fatto molte tappe, forse si può capire la loro scelta disperata. Ma quei due ragazzi di diciassette anni che hanno sparato a quel povero cristo di Genova, che cosa sono? (2)».
Note: (1) Il 27 novembre 1967 gli studenti di Legge e di Lettere di Torino occuparono Palazzo Campana, sede centrale dell’Università. Da questo episodio si fa tradizionalmente cominciare il ’68. (2) Il 17 novembre, a Genova, un commando delle Brigate Rosse aveva sparato alle gambe e al ventre di Carlo Castellano, docente universitario e dirigente dell’Ansaldo.