Dieci anni di Repubblica, 18 novembre 1977
Ai cancelli della Mirafiori
Cancello 2 della Fiat – Mirafiori, ventiquattro ore dopo le rivoltellate in faccia a Casalegno. C’è la Torino mitica che abbiamo sempre immaginato: il cielo ripulito dal vento, la geometria dei grandi viali, le montagne, la fabbrica e la classe operaia. Ma non è più tempo di miti. Il terrorismo sgretola non soltanto Torino, ma anche le nostre antiche certezze. Chi va in cerca di risposte rassicuranti, trova anche parole che gelano. Chi spera di ascoltare una voce sola, di condanna senza riserve, deve prendere atto che siamo entrati in un’età crudele, gonfia anche di rancori e di paura.
Ore 14, in corso Tazzoli. Sta entrando il secondo turno. Sono operai della carrozzeria, quelli delle linee della 127, della 131, della 132. Le mie domande saranno quasi sempre le stesse. Ha letto dell’attentato al vicedirettore della Stampa? Farà lo sciopero di un’ora proclamato dai sindacati? Che cosa pensa di quel che è accaduto? Non chiedo nomi. Qualcuno mi guarda con sospetto. «Tu, chi sei?» Ma il taccuino non frena le risposte. Ed ecco, per quel che valgono, i miei appunti.
«Lo sciopero? Perché non abbiamo fatto anche lo sciopero contro l’aumento di stipendio dei deputati? (1)». «Dovremmo fare sciopero per la sicurezza di tutta la gente! Oggi esci per il lavoro e non sai se ritorni a casa». «Casalegno? I suoi articoli li ho letti, molte volte non ero d’accordo, ma io lo sciopero lo farò, deve servire perché episodi di questo tipo non si ripetano». «No, non ho letto niente, e non voglio sapere niente». «Qui siamo tornati ai tempi di piazza Fontana. Quelli delle Brigate Rosse sono nemici dei lavoratori, sono assassini, cercano di farci tornare indietro nelle conquiste, come nel 1969».
Parlano uomini di età diversa. E si ascoltano accenti, o dialetti, di tutta Italia. «Quelli che sparano sono gentaglia, e basta». «Per me sono dei fascisti: la facciata è rossa, ma dietro la facciata sappiamo bene che cosa c’è». «Rossi o neri, io lo sciopero non lo faccio. Ammazzano i borghesi e dobbiamo scioperare, mentre se ammazzano i compagni no! No, non lo faccio: scrivi che sono un crumiro».
«Sono atti criminali, è ora che la smettano, cacciamo in galera quelli che sparano. Però io voglio anche i nomi di quelle cinquecento persone d’oro, che erano sulla lista della banca, e quei nomi voi non li pubblicate! (2)».
Parla un delegato della Fim: «Per ora lasciamo perdere quella lista. Gli operai condannano, comunque, le azioni terroristiche. Il nostro metodo di lotta è diverso. Operaio giovane: «Sei sicuro che la grande maggioranza degli operai abbia condannato quello che è successo l’altra sera? Viviamo in un paese capitalista, i padroni ci schiacciano». Delegato Fim: «Ma non per questo si deve sparare!» Operaio: «Io non sciopero!». Delegato: «Tu lo sciopero non l’hai fatto nemmeno per il contratto!». Operaio anziano: «Noi scioperiamo, e intanto aumenta tutto: i prezzi e i morti ammazzati».
Nasce un litigio aspro. Delegato: «A me di Casalegno non me ne frega un cazzo! Però guarda che quell’attentato è successo subito dopo il nostro sciopero di martedì. Gli operai della Fiat hanno capito che...». «Chi sei tu per parlare a nome di tutti gli operai della Fiat? Adesso vedremo quanti del secondo turno faranno lo sciopero». Operaio anziano: «È giusto che lo sciopero si faccia. Ma quando succede qualcosa ad un operaio, quella gente lì, dei giornali, non fa neanche un minuto di sciopero». Uno mi chiede: «Ehi, giornalista, se ammazzano me, tu lo fai lo sciopero?».
Il secondo turno è entrato quasi tutto. Parlano gli ultimi: «Io ci sto a fare lo sciopero, perché è contro una violenza di tipo fascista». «Io invece non lo faccio. Ma a lei, che cosa interessa?». «Sono in ritardo, mi lasci andare, non mi chieda niente». Un giovane varca il cancello quasi di corsa, mostra il tesserino alle due guardie Fiat, poi si volta rapido verso di me: «Scrivi: uno, cento, mille Casalegno. A me mi vanno bene!».
Adesso sono le 14.30 ed esce il primo turno. Molti corrono ai tram, è difficile interrogarli. Ma qualcuno si ferma. «Io lavoro alla 132, e non ho fatto sciopero. Per Ferrero de l’Unità abbiamo fatto solo un quarto d’ora di fermata, per il ragazzo bruciato nel bar niente (3). E siccome quello era vicedirettore, dovevamo fare un’ora!». «Per i pezzi di merda non si fa sciopero». «Ma che cosa dici? Guarda che quelli che hanno sparato in corso Re Umberto hanno sparato anche contro di noi!».
«Io sono d’accordo sullo sciopero, ma doveva essere generale, contro il terrorismo. Se io mi fermo un’ora nessuno se ne accorge». «Al primo turno, lo sciopero non è riuscito. I più politicizzati l’hanno fatto, ma la gran parte no». «Se gli hanno sparato, un motivo ci doveva pur essere. A noi operai quelli delle Brigate Rosse non hanno mai sparato». «Io ho ritenuto di non farlo. Quando abbiamo scioperato sei mesi per il contratto, quelli della Stampa hanno scioperato in nostro aiuto?».
«Come persona mi dispiace di quello che è successo. Però non mi dimentico che la Fiat schedava gli operai e il suo giornale taceva». «È giusto non aver fatto lo sciopero. L’esempio dovevano darlo i capi, la direzione. Non possiamo essere sempre noi i promotori aella democrazia, noi che dobbiamo solo ruscare, faticare, e portare a casa trecentomila lire al mese». «La violenza è da condannare in ogni modo, ma non è giusto far pagare il costo di un attentato a delle persone che già guadagnano poco».
«Io lo sciopero l’ho fatto, perché lo faccio anche se sono da solo. Nell’officina 83 abbiamo scioperato solo cinque su quaranta». Chiedo: e gli altri? «Dicevano: quel giornalista è della Stampa e quindi della Fiat». «Figurarsi se dobbiamo scioperare ad ogni attentato! Quelli là si divertono ad ammazzare, e noi perdiamo le lire!». «Niente sciopero: La Stampa non si interessa degli operai o è distruttiva. Mi dispiace molto per quel giornalista, ma io ho continuato a lavorare».
In meno di mezz’ora il piazzale è quasi deserto. Adesso ascolto un operaio della Fim-Cisl, sui trentacinque, quarantanni, della provincia di Rovigo. «Sì, lo sciopero non è riuscito. Ma bisogna capire. Intanto, veniva appena dopo uno sciopero generale. E poi era stato proclamato per un caso che a Torino non è più un caso. A Torino, di fronte agli attentati c’è ormai quasi una reazione di normalità. Vedere la gente sparata è quasi un fatto di tutti i giorni. Però, nei reparti, la discussione c’è stata. E la grande maggioranza ha dato un giudizio giusto e maturo».
Insieme all’operaio di Rovigo, vado alla sede della Fim-Mirafiori, in corso Unione Sovietica 351. Con un po’ di diplomazia, ammettono che «non c’è stata una risposta plebiscitaria». La stessa notizia amara viene da altre fonti. E la città? È difficile rispondere. Torino ha ancora quel tanto di coraggio e di fiducia nella democrazia per portare in piazza San Carlo più di diecimila persone, come è avvenuto ieri sera. Ma quante Torino ci sono dentro Torino? E quante di queste micro-città si stanno abituando a vivere con il terrorismo?
La sensazione è di aver di fronte una metropoli destinata a far da cavia in un esperimento brutale: osservare quanto può rimanere salda, e conservare un minimo di solidarietà sociale, una grande comunità urbana sotto il martello pneumatico della violenza, delle bombe, delle rivoltellate. In queste condizioni, non è semplice restare una «città» e non trasformarsi in un insieme di isole, dove ciascuno ha paura per proprio conto e non pensa più agli altri.
I terroristi che tentano di mettere in ginocchio Torino lo sanno e stanno procedendo, isola per isola. Prima gli avvocati. Poi i democristiani. Poi i capi Fiat. Poi i giornalisti. E anche nella nostra isola c’è paura. L’assemblea di ieri mattina alla Stampa è stata imponente, ricca di presenze importanti (Levi, Murialdi, il presidente degli editori Giovannini, il nuovo direttore del Carlino Neirotti, il direttore della Gazzetta del Popolo Torre, il senatore Pecchioli) e forte di buoni propositi e di parole chiare contro ogni solidarietà al terrorismo. Ma si avvertiva molto sbigottimento. Ed è difficile dimenticare le parole accorate dette da Levi nell’abbracciare il direttore del Corriere della Sera, Di Bella, venuto da Milano a prendere notizie di Casalegno: «Coraggio, e attento a te!».
Note: (1) L’indennità parlamentare era passata da 1 milione 15.746 lire mensili a 1 milione 175.408 lire al mese, ferma restando la somma di lire 270 mila a titolo di rimborso spese per il soggiorno a Roma di deputati e senatori non residenti. L’aumento era stato reso noto dagli uffici di presidenza di Camera e Senato il 9 novembre. L’indennità teoricamente ancorata all’87 per cento dello stipendio dei presidenti di sezione della Corte di Cassazione, era in realtà ferma dal 1970. (2) Attraverso una sua finanziaria di Ginevra (la Finabank) Michele Sindona aveva creato un sistema pressoché perfetto per esportare illegalmente valùta. Di questo canale avevano profittato almeno 500 potenti, e in quei giorni pareva che la lista contenente i loro nomi (a tutt’oggi ignota) sarebbe presto stata nelle mani del magistrato. (3) Il primo ottobre un corteo organizzato a Torino da Lotta Continua e contrassegnato da molti episodi di violenza, s’era concluso con l’assalto al bar Angelo Azzurro di via Po, ritenuto «covo di fascisti». Il locale venne incendiato e un giovane studente-lavoratore, che non sapeva nulla di politica e vi si trovava casualmente, Roberto Crescenzio di 22 anni, trovò la morte nel rogo.