Dieci anni di Repubblica, 9 settembre 1977
Nell’inferno dell’Asinara
Corriamo in camionetta su una strada che è un sentiero di guerra. Sbattiamo da ogni parte. Guida il direttore del carcere Luigi Cardullo, 41 anni, biondo, i pomelli delle guance rossi, i capelli grigio cenere scompigliati. Siedo accanto a lui con Antonello Trombadori, deputato comunista. Dietro c’è Saverio Corvisieri, deputato di Democrazia Proletaria, Giovanni Jervis, psichiatra, il fotografo Adriano Mordenti. Il direttore parla, parla, parla: «Loro, rossi e neri, dicono: dobbiamo colpire il cuore dello stato. E qui ci siamo, questo è un cuore dello stato». Dice ancora: «Qui siamo gli uni di fronte agli altri. Loro vogliono fuggire, noi dobbiamo impedirlo. Sì, le misure di sicurezza speciali. Ma qui abbiamo Ordine Nero, Nap, Brigate Rosse: se si mettono insieme, che facciamo?».
Il grande sbarco dei detenuti «pericolosi» il 20 luglio è stato un terremoto per l’Asinara. «Qui c’era come un torpore, era un vecchio modo di andare» dice il direttore. «Adesso ci arriva tutto quello che io da tempo volevo, o meglio comincia ad arrivare». Quello che vediamo cambierà presto. Il mare è dietro le nostre spalle e vediamo la prima delle sette concentrazioni carcerarie dell’isola (cinque colonie agricole, due centri di sorveglianza stretta): «Fornelli», un edificio lungo, bianco, con le tegole rosse, l’apparenza di uno stazzo sardo tipico, una volta era un sanatorio carcerario. Ci sono alberi, c’è il sole, cielo azzurro, brezza di mare. Come sarà tra poco? Già si stendono rotoli di filo spinato. Poi si costruirà un muro, tre metri di altezza secondo il direttore, e invece certamente saranno sei, e sul muro ci sarà un camminamento con guardie armate di mitra.
Sarà ancora più carcere, più densa la solitudine, più acuto il gelo che mette l’idea delle sentinelle scaglionate lungo l’isola con le mitragliatrici, gli agenti a cavallo, i cani d’attacco. E la presenza silenziosa ma continua, discreta ma attenta dei carabinieri.
Chiediamo al direttore: «Non sorvegliano anche lei?».
Prima che arrivasse il generale Dalla Chiesa con i suoi reparti di carabinieri per la sorveglianza esterna, era Cardullo che doveva correre in barchetta per far allontanare gli yachts che si ancoravano nelle cale dell’Asinara. Adesso tutto è silenzio: solo qualche vela lontana. «Sono tornati i pesci», dice Cardullo. Sono finite anche le partite di caccia cui sembra partecipassero funzionari dell’amministrazione carceraria. L’Asinara, isola-carcere, è il paradiso ecologico della Sardegna: mufloni, cormorani, gazze, falchi, lepri, gli ultimi asinelli bianchi.
Ma nei passaggi del carcere, come vedremo, anche un albero diventa un’emozione.
Detenuti: circa 400. Agenti di custodia 180. Poi qualche impiegato civile: quello della posta, il medico, il prete, e le famiglie degli agenti. In totale un migliaio di persone, e tutte convergono su Cardullo, coi loro destini. Cardullo, il re dell’Asinara, come lo chiamano i detenuti. Questo «cuore dello stato» è affidato a lui: laureato in legge, entrato in carriera per concorso, un funzionario dello Stato, stipendio modesto. È un tipo borbonico? Legge libri buoni, saggistica anche politica, e molta poesia, ascolta anche su dischi la voce dei poeti, molte poesie sono canti di prigionia e di libertà, poemi delle tante resistenze. Scolpisce, con qualche idea e una montagna di simboli: sole amaro, il potere, maternità, dolore. Ascolta i cantautori moderni, quelli impegnati e poi Brahms, Schumann, Beethoven. Lotta Continua ha ricordato che anche ad Auschwitz... I detenuti gli mandano poesie: ci sono quelle dei comuni, venate di ironia, sentenziose, in rime elementari; e anche quelle di qualche politico: più ricercate, amare, abbandoni patetici. Una è recente, di un detenuto che mostrava di voler «collaborare». Cardullo lo invita a passeggio sulla montagna, coi suoi figli per liberare due scoiattoli finiti nelle trappole. La poesia dice: era meraviglioso quel senso di libertà davanti alla natura, ero sul ciglio del precipizio col mio nemico, bastava dargli una spinta e mandarlo giù, ma non l’ho fatto: «Che avrebbero pensato di me i bambini, e anche gli scoiattoli?». È una storia, ma dopo qualche giorno di permanenza all’esterno, lo stesso detenuto aveva già organizzato un piano di fuga. Scoperto, è tornato alla sorveglianza stretta.
Cardullo mostra di credere nel contatto personale coi detenuti. «Li invito nel mio ufficio, facciamo conversazione, no, non parliamo di carcere, sì di qualche dettaglio pratico, ma cerchiamo di parlare di cose che possano avvicinarci». Ci vanno anche i politici. Ma nessuno spiraglio si è ancora aperto all’analisi di Cardullo. E come potrebbe aprirsi? «Questo è un pugno di ferro» dice Trombadori. «Si può aprire solo dall’interno e può farlo solo chi ha le chiavi».
Leggiamo le cartelle dei detenuti: carriere carcerarie veramente speciali: pericoloso, assai pericoloso, evasione, sommossa, tentativo di evasione. Poi le note dell’Asinara per i «politici»: comportamento corretto, massima riservatezza, nessuna lamentela personale.
Quando a «Fornelli» si aprono le porte-persiane di legno e dal cancello si guarda nelle celle, i detenuti restano silenziosi: prudenti i «comuni», solo qualche parola, vigilanti i «politici». Alcuni brigatisti rossi: Giorgio Semeria, Giorgio Jungo, Pietro Berolazzi, Pietro Morlacchi. In una cella i fascisti Kim Borromeo e Giorgio Spedini fanno ginnastica in slip, i corpi agili scattanti, lo sguardo muto. Nei cortili per Paria, 15 metri per 10, si passeggia in sei. Vediamo Cavallero, scalzo, con altri due, che vanno avanti e indietro, veloci, a grandi falcate, «le falcate del detenuto» dice Trombadori (mesi di Regina Coeli e di Via Tasso durante la resistenza romana).
Alla «Centrale» è come precipitare in un film. A Cardullo le guardie non aprono. Ci vuole l’autorizzazione del capoposto. «Così se mi prendono e mi portano qui, le porte non si apriranno. È quindi anche inutile che mi prendano o prendano mia moglie e i bambini». A noi nessuno ha controllato i documenti, né a Stintino dove ci siamo imbarcati sul gozzo dell’Asinara né quando siamo sbarcati sul molo. «E se noi fossimo un commando?». «Ci ho pensato» dice Cardullo «Ho preso le mie misure».
È un fortino bianco, alla messicana, e tutt’intorno al muro esterno tanti fiori, sopra il muro le sentinelle coi mitra. Trafila di cancelli e di chiavi nelle serrature. All’interno c’è un cortile e nel cortile un blocco di muratura, otto celle, tre uomini in ogni cella, spazio ristrettissimo, la finestra per l’aria sullo stesso lato della porta (a fianco). La porta è intera, non a persiana, non passa aria; dietro la porta il cancello di ferro, sbarre doppie alle finestre, dentro la cella letti a castello, molte, troppe cose, libri, radio, giornali, frutta, file e file di bottiglie di acqua minerale: soffocante.
La dimensione del silenzio è assoluta. C’è silenzio ovunque sull’Asinara, sul mare, sull’isola, nei suoi grandi spazi, nei burroni, nelle spiagge, qui c’è anche il silenzio degli uomini. Si apre la porta della cella di Renato Curcio, Vincenzo Oliva, Massimo Battini. Il manifesto anarchico al muro Umanità Nova, è di Oliva. Chiediamo a Curcio se è vero che gli è stato offerto di lavorare all’esterno e che ha rifiutato. «Mai saputo nulla del genere». Dice due cose: «Bisogna chiedersi che cosa oggi significhino questi carceri speciali. Vogliono il nostro annientamento fisico e psichico». Aggiunge: «È un deterrente». Una dichiarazione politica, nessun riferimento personale.
Il nostro breve viaggio in quest’universo è finito. La sera guardiamo l’Asinara da una terrazza in collina a Stintino. C’è sotto di noi una spiaggia bianchissima, gente che fa il bagno. Un breve braccio di mare e si stende, brulla, la deserta «Isola piana» con le due torri, l’isola di Berlinguer. Dietro c’è un altro tratto di mare azzurro e calmo e l’Asinara. L’ultima cosa che abbiamo visto mentre eravamo sul molo: una camionetta dei carabinieri, silenziosa, che ci sorvegliava. Noi e Cardullo. Il direttore diceva: «Qui abbiamo grandi possibilità di ricezione, se le strutture vengono adeguate». All’Asinara si sta lavorando.