Dieci anni di Repubblica, 24 settembre 1977
Il Pci è l’unico imputato
C’è un solo imputato a Bologna: il Partito Comunista Italiano. I giovani del movimento lo processano con rabbia da amore deluso, spesso irragionevole. Forse anche questa è politica, ma politica dell’isolamento.
La prima assemblea nel Salone dei 600 ha applaudito con forza Mimmo Pinto quando ha parlato del nappista Lo Muscio come di un martire (1). Perché, se non vogliamo ingannarci a vicenda, questo, nonostante le coperture legalistiche, era il significato dell’ovazione.
Ognuno può avere l’opinione che crede sul partito armato, ma se ha quest’opinione non va a un convegno sulla repressione, va a discutere di rivoluzione, possibilmente nell’assenza della stampa «di regime». In uno dei giornali venduti per le vie di Bologna. «Senza tregua», lo si dice in modo esplicito: «Lo Stato di diritto lo lasciamo agli ultimi liberali della borghesia».
La filosofia del movimento e di questo convegno sembra girare attorno a questo nodo assurdo: si denuncia una repressione borghese, statuale, mentre si dichiara guerra e guerra senza condizione alla borghesia, allo Stato e ai suoi alleati socialdemocratici. Ma quando si dichiara guerra si va al fronte e non si fanno discorsi più o meno legalistici.
Giornata grigia, fredda. Per tutta la notte ci sono state assemblee, telefonate allarmistiche alla polizia. E ora il convegno si dissemina per la città: gli apparati organizzativi all’università, i rivoluzionari legali al Palazzo di Re Enzo nel Salone dei 600, gli autonomi al Palazzetto dello Sport, una commissione nell’aula VI del Magistero, colonne in marcia dalla stazione al centro, un gruppo di autonomi che discute «come disporre le truppe per dare una passata a quelli del Mls», una cinquantina di strilloni volontari dell’Unità sotto i portici di via Rizzoli, i compagni Mirko e Dario che firmano cambiali per assicurare la distribuzione dei pasti. «Sembra d’essere all’Orlando furioso di Ronconi (2)», mi dice Federico Enriquez, «vediamo un convegno a pezzi. Speriamo di capire qualcosa stasera alla televisione».
Intanto la polizia ha preso discretamente posizione: i poliziotti venuti da lontano li riconosci da questo, fanno la fila dai tabaccai per acquistare le cartoline illustrate da spedire a casa.
Andiamo nel Salone dei 600 a una conferenza stampa in cui i giornalisti saranno una cinquantina e i giovani del movimento tre o quattromila, in parte stipati nel salone, gli altri fuori. «Quelli della stampa hanno domande da fare?», chiede Marco Boato. La stampa tace, l’assemblea ride ma senza cattiveria. L’inizio è in tono democratico. Alex Langer presenta il primo libro bianco sulla repressione. Dice che è stato fatto in pochi giorni rileggendo i giornali dopo il 20 giugno del ’76. Nessuno ride. Eppure è curioso che la fonte del libro bianco contro la repressione sia la malfamata stampa di regime.
Alex Langer dice delle cose sensate, vere, che ogni osservatore onesto della vita politica italiana può condividere: il voto del 20 giugno, e poi il patto di governo, l’inizio del compromesso storico hanno segnato una svolta decisiva. La crisi economica, la formazione di una «seconda società» di non garantiti e di emarginati, di giovani disoccupati, costringe lo Stato a darsi nuove armi repressive.
Langer sostiene che è stato il Pci nella persona di Pecchioli a insistere presso Andreotti perché l’ordine pubblico avesse un posto di rilievo nel programma. Sia o meno vero, è evidente che il Pci nell’area di governo non è la stessa cosa che il Pci all’opposizione. Dice bene Langer quando afferma che oggi il Pci «porta allo Stato e alla sua repressione un consenso politico a una legalizzazione ideologica». E si può riconoscere alla nuova sinistra il pieno diritto di esprimere un’opinione negativa su questa svolta e sulle conseguenze e di fare della ironia «sul Paese più libero del mondo» secondo la nota definizione di Zangheri. Ma il discorso è molto diverso quando si passa al partito armato e alla repressione del terrorismo.
L’equazione che l’onorevole Mimmo Pinto spiega all’assemblea e a una stampa sempre piu silenziosa e allibita è la seguente: «L’assassinio di Lo Muscio (assassinio perché ucciso da un carabiniere quando era ormai disarmato e ferito), la repressione carceraria e la deludente legge sui lavoratori sono tre aspetti dello stesso disegno. Non si può dunque chiedere al movimento di condannare i compagni del partito armato, la loro antidemocrazia è niente a confronto dell’antidemocrazia di un Lattanzio».
Marco Boato, che sa ancora distinguere un ragionamento politico da un intervento demagogico da assemblea, cerca di metterci una pezza, si mette a parlare di violenza come di dottrina. Ma l’impressione non cambia, da questa ambiguità non si esce o se ne esce se si ha il coraggio di dire che il Parlamento è una truffa, che questo pubblico convegno è una farsa, che tutti noi presenti in quest’aula siamo pennivendoli e manutengoli del regime e poi ci si arruola in qualche colonna di Br.
Felix Guattari, lui può permettersi il lusso del massimalismo innocuo. Arriva da Parigi, tornerà a Parigi, vive la vita nel Paese dove il potere borghese è talmente saldo che non si teme neppure un governo delle sinistre, può venire qui a dirci che dobbiamo fare la rivoluzione contro la Dc, il Pci, il Psi, l’America, la Russia, la Nato. Se ci andrà male ci manderà una cartolina da Parigi. Comunque adesso è qui a farci l’esame, alla fine del convegno ci promuoverà o ci boccerà come stampa democratica. E dopo questo ci ha accusato anche di sciovinismo, ma in questo si sbaglia di grosso: siamo semmai un Paese provinciale sempre pronto a scambiare la lingua francese o inglese per buona letteratura.
Maria Antonietta Macciocchi ha risposto al giudizio pesante di Berlinguer sugli «untorelli» (3) indicandolo come «un Dalai lama che fin dalla nascita porta in sé i misteriosi segni del potere». La Macciocchi conosce bene «la storia di famiglia», ricorda la battuta di Pajetta su Berlinguer: «Si è iscritto giovanissimo alla direzione del partito».
Ha chiuso Peppino Ortoleva sul tema degli intellettuali, del loro coraggio e della loro vigliaccheria. Ha detto cose interessanti, ma alle quali nessuno ha risposto anche perché nella sala d’intellettuali italiani non se ne sono visti.
Se dovessimo riassumere diremmo: i dissensi e le delusioni sul Partito Comunista sono comprensibili in un movimento che dal Pci è stato in larga parte ripudiato. Ma se non ci si ricorda che cosa è stato ed è nella storia italiana il Pci, se non si tiene conto del fatto che la classe operaia organizzata sta dietro quel partito, se non si capisce che la rivoluzione non è lì in attesa paziente, dietro l’angolo, allora si va a contrapposizioni drammatiche e tristissime.
Note: (1) Il capo dei Nap Antonio Lo Muscio era stato ucciso dai carabinieri il 1° luglio, nella piazza di S. Pietro in Vincoli a Roma. Nella medesima operazione, che aveva suscitato violente polemiche, i militi avevano arrestato Maria Pia Vianale e Franca Salerno. (2) Nell’Orlando furioso l’azione si svolgeva simultaneamente su tre palcoscenici distinti. Lo spettacolo, diretto da Luca Ronconi e scritto con la collaborazione di Edoardo Sanguineti, era andato in scena per la prima volta al Festival di Spoleto del 1968, riscuotendo un successo enorme. (3) Chiudendo la Festa nazionale dell’Unità a Modena, il 18 settembre, Berlinguer aveva sferrato un durissimo attacco agli autonomi («oggi che il fascismo è parola impresentabile, usano la parola autonomia») inframezzato da un commento sprezzante sul convegno di Bologna: «Non saranno questi poveri untorelli a spiantare Bologna».