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 1977  settembre 15 Giovedì calendario

Felix Guattari e la confusione

Ho letto – ovviamente – con molta attenzione l’intervista che Felix Guattari ha avuto l’amabilità di rilasciare al nostro giornale sul tema della repressione in Italia e del relativo convegno che si svolgerà a Bologna nei prossimi giorni, del quale egli è uno dei promotori.
L’ho letta con attenzione sia per l’importanza dell’argomento, sia per la qualità dell’intervistato, sia infine per le responsabilità politiche che incombono a chi dirige un giornale e decide di mettere in circolazione opinioni e giudizi che possono funzionare da detonatori di fatti concreti e di comportamenti di massa.
Conosco buona parte dei lavori saggistici di Guattari; non ho la competenza specifica per darne un giudizio di valore, ma ho una competenza generica sufficiente per dire che spesso quei lavori esercitano un effetto assai stimolante sulla conoscenza di determinate questioni connesse con le discipline psicologiche e con i metodi di ricerca e di terapia psichiatrica.
Ebbene: non è affatto detto che un distinto cultore di studi nel campo della psichiatria e della psicologia sappia con eguale bravura ed intelligenza padroneggiare argomenti politici. Ovviamente, non è neppure detto il contrario. Ma Guattari fa parte – a mio giudizio senza alcuna riserva – della prima specie: il suo discorso politico (me lo consentirà il nostro autorevole intervistato) sulla repressione in Italia, sul ruolo suo e degli altri suoi compagni francesi che si stanno occupando di questo argomento con grande fervore, sulle responsabilità che essi si sono assunti organizzando il convegno di Bologna ed infine sulle «colpe» dei partiti italiani della sinistra «ufficiale», è così irrimediabilmente schematico, da far dubitare addirittura della serietà di chi lo propone.
Vorrei esaminare partitamente alcune proposizioni dell’intervista di Guattari da noi pubblicata ieri. Esse costituiscono infatti un bell’esempio della confusione mentale – che si traduce poi in confusione di comportamenti pratici – della sinistra «autonoma» di cui Guattari fa parte.
La prima proposizione riguarda gli obiettivi che Guattari spera di raggiungere con il convegno. Egli dice: «Sarei molto soddisfatto se si ottenesse la liberazione dei detenuti, soprattutto di quelli che sono stati incarcerati per ragioni politiche, e se si arrivasse ad un chiarimento sull’insieme dei detenuti politici italiani, di quelli di sinistra in particolare, perché di quelli di destra io non mi preoccupo. Ma anche dei non politici. Bisognerebbe arrivare insomma ad una amnistia generale. Questo chiarirebbe la situazione».
Che vuol dire? La permissività che la sinistra «autonoma» ci propone vuole significare che ciascuno deve fare quel che vuole e che non ci dev’essere più sanzione per chi ferisce e soverchia il diritto altrui? La nozione di contratto sociale dev’essere annullata?
Capirei una tesi di questo genere fatta in nome dell’anarchismo. Ma l’anarchismo non chiederebbe poi – come fa invece Guattari – che lo Stato e il Comune di Bologna si dessero carico dei bisogni delle migliaia di giovani che affluiranno al convegno. L’anarchismo provvederebbe da solo, con la spontaneità volontaria dei compagni, a soddisfare quei bisogni, ne farebbe anzi un punto d’onore e di vanto. Guattari vuole invece uno Stato efficiente, un Comune provvido, su di essi lancia fin d’ora – con una pregiudizialità alquanto sospetta – la responsabilità di quanto potrebbe accadere se l’intera macchina organizzativa non funzionasse come un orologio, ma alza contemporaneamente la bandiera della rivoluzione non contro questa società, ma contro il concetto stesso di contratto sociale. O si spiega male o c’è una profonda incoerenza in quanto pensa e dice.
C’è repressione in Italia più che in Francia o in Germania? – gli abbiamo chiesto. Ha risposto: «Se c’era da fare solo un incontro sulla repressione avremmo avuto esempi in Francia e in Germania almeno comparabili se non più gravi. Ma quello che è più importante per noi è di studiare le nuove forme di lotta e d’intervento delle masse in Italia».
Bene. Ciascuno fa le sue scelte. Certo sarebbe stato forse più utile se Guattari avesse chiesto alla magistratura svizzera di visitare Petra Krause nelle prigioni di Zurigo o a quella francese di discutere sulla pena della ghigliottina ancora recentemente applicata. Che bel convegno potremmo fare a Parigi sulla ghigliottina, caro Guattari. Ma si preferisce studiare le nuove forme di lotta e di creatività delle masse italiane: arriva l’illustre entomologo per esaminare i coleotteri. Se si tratta di entomologia, mi permetterei di suggerire un convegno sulle fogne di Palermo o sui bassi di Napoli; sarebbe assai più istruttivo anche dal punto di vista della creatività delle masse.
Ad ogni modo, non ho assolutamente nulla da ridire su queste preferenze. Ma poiché il linguaggio ha le sue leggi che non possono essere violate impunemente, allora bisogna che il convegno di Bologna sia intitolato alle nuove forme di lotta di massa e non già alla repressione. Altrimenti sorge il fondato sospetto che Guattari e i suoi compagni francesi vengano in Italia perché qui sanno di trovare una platea alquanto affollata. Una buona passerella fa sempre gola a chiunque.
Dice Guattari che «dei detenuti di destra non si preoccupa». Ah, che errore, egregio professore. I casi sono due (mi perdoni): o non esiste mai delitto perché la causa del delitto è sempre della società, e allora lei deve preoccuparsi con lo stesso fervore dei detenuti di sinistra, di destra, di centro, politici, comuni e via enumerando. Oppure per i detenuti di destra la colpa non è della società, ma della loro prava natura. C’è dunque chi nasce cattivo e chi buono? Chi è stato baciato dalla grazia una volta per tutte e chi si porta addosso il peccato originale? Guattari non sarà un nuovo filosofo, ma sotto a questa tesi c’è una gran puzza di sacrestia. Ciò m’impensierisce assai.
Un’altra proposizione riguarda la non responsabilità di Guattari nell’organizzazione del convegno di Bologna. «Nessuno lo ha organizzato» ha detto. A noi risulta in verità il contrario. Risulta per esempio da un comunicato emesso dal movimento studentesco di quella città che i giornalisti che vogliano avere notizie sull’andamento dei lavori dovranno «tassativamente far capo all’apposito centro d’informazioni del movimento. Qualora non rispettassero quest’indicazione, saranno essi (i giornalisti) responsabili di danni eventuali a cose e persone».
In buon italiano, ciò vuol dire che se un giornalista pretenderà di fare liberamente il proprio mestiere, scavalcando il centro d’informazione ufficiale del movimento, si esporrà a rischi «fisici». Il professor Guattari è al corrente di questo comunicato? Lo approva? Non gli sembra un comunicato alquanto repressivo? Una risposta sarebbe utile per orientarci sul suo pensiero.
Ma la colpa di tutto sta nel fatto che «il Pci ha scelto male le sue alleanze e invece di dar vita ad un arco rivoluzionario ha dato vita a un arco costituzionale. Di qui terrorismo, ecc... ».
Si può scrivere una biblioteca su quest’argomento. Anzi è già stata scritta ed ogni opinione è rispettabile. Noi, per esempio, su questo punto, siamo del parere che la scomparsa d’una ferma opposizione di sinistra abbia contribuito a lasciare lo spazio alle brigate della P 38. Può essere stata cioè una delle condizioni che hanno permesso il fenomeno, non la causa che lo ha determinato. Ma quand’anche: che farete? Sparerete alle gambe di Berlinguer? Ecco un comportamento sicuramente repressivo del diritto di Berlinguer di decidere a modo suo.
Immagino che Guattari risponderà che i rivoluzionari non possono guardare al sottile. Ebbene, la rivoluzione si può e si deve fare quando le forze produttive sono cresciute in modi tali che le istituzioni esistenti non le contengono più. Ove manchi questa condizione, non c’è rivoluzione, ma c’è, tutt’al più, guerriglia.
È una cosa molto seria, la guerriglia, specie nei paesi industriali. La storia insegna che i suoi sbocchi sono stati invariabilmente la dittatura di destra.
Ho la sensazione che Guattari non apprezzi molto la storia e coltivi altre discipline. Forse è questo che ci divide.