Corriere della Sera, 6 febbraio 1955
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Nasser e la Fratellanza musulmana
IL CAIRO – Mentre io scrivo e mentre voi, cari lettori, leggete, il Tribunale del Popolo seguita a processare e a condannare i nemici della Rivoluzione. Cosa sia con precisione questa rivoluzione, ancora non è chiaro nemmeno nella mente di chi la fa, e basta, per accorgersene, leggere la spiegazione che ne ha data il capo ufficiale, Gamal Abdel Nasser, in un suo piccolo «Mein Kampf», pieno più di domande che di risposte. È chiaro soltanto chi sono i suoi avversari. Essi si trovano annidati in quella specie di massoneria clericale che si chiama «Fratellanza Musulmana». Le sentenze, a giudicarle sul metro rivoluzionario, non sono gravi. Ogni tanto ce n’è qualcuna a morte, ma quasi sempre viene commutata in ergastolo. Le altre vanno da un minimo di sei mesi a un massimo di quindici anni. Per quanto instaurato con la violenza, l’attuale regime pratica la moderazione. Molta gente crede che perfino i sei giustiziati del 7 dicembre siano in realtà ancora vivi. I quattro giornalisti – fra i quali era il mio collega Max David – invitati a presenziare l’esecuzione, questa esecuzione non la videro. Videro soltanto i condannati che entravano nella celle della morte e udirono il crac del corpo che cadeva dentro la botola. Ma poteva anche essere un rumore contraffatto.
Son chiacchiere, si capisce, prive di fondamento e di senso, ma che appunto testimoniano non so se una grande fiducia nell’indulgenza di Nasser e compagni, o una grande sfiducia nella loro intransigenza. Di sicuro c’è soltanto questo che al Cairo non s’avvertono quell’aria tesa, quel fiato trattenuto, quei nervi in subbuglio delle capitali in balìa del terrore. In subbuglio ci sono soltanto i marciapiedi, sotto il piccone di squadre di lavoratori, che li stanno finalmente lastricando. E questa è già di per se stessa una rivoluzione, perche i marciapiedi sterrati e motosi del Cairo avevano vittoriosamente resistito ai tentativi di pavimentazione di tutti i regimi.
Capitolano solo ora, sotto l’impeto del nuovo ministro della municipalità, Baghdadi, un giovane ufficiale che li ha presi d’assalto come una trincea nemica. Ha fatto più lui in pochi mesi che tutti i governi degli ultimi trent’anni. Ma i lavori pubblici, si sa. sono sempre il cavallo di battaglia di tutte le rivoluzioni. La resistenza, che oppone e seguiterà a opporre la « Fratellanza Musulmana» è diversa da quella che oppongono i marciapiedi. Ma, contrariamente a quel che m’aspettavo, qui è opinione diffusa che Nasser ce la farà, e che anzi in buona parte ce l’ha già fatta non tanto scardinandone i quadri con l’azione di polizia, quanto screditandola con i processi in cui si son visti quei congiurati, che aureolava una ben accreditata leggenda di mi spezzo ma non mi piego, piegarsi invece, nel tentativo di non spezzarsi, alle più basse reciproche delazioni. Qualcuno di loro, poi, è morto bene; ma la prova dinanzi al Tribunale è stata negativa per tutti.
Il duello con i fratelli è decisivo per una ragione molto semplice: ch’essi sono gli unici che al fanatismo rivoluzionario dei duemila giovani ufficiali guidati da Nasser possano opporre un altro fanatismo non meno rivoluzionario, anche se ispirato a nostalgie teocratiche. I comunisti, almeno per ora, non rappresentano un’alternativa: sono soltanto pochi intellettuali, e hanno cercato di far fronte comune con i «Fratelli» anche perché fra teocrazie ci s’intende sempre, e Marx, con Maometto, ha in comune molte cose: la circoncisione, per esempio, e la pericolosa tendenza a considerare «infedele» chiunque non sia fedele a lui. Ma c’è anche un altro e più i profondo motivo di dissenso fra i giovani ufficiali della rivoluzione e i santoni della controriforma coranica. E lo si capisce analizzando la storia dei reciproci rapporti, che qui devo riassumere.
I «Fratelli Musulmani» hanno quest’ anno ventotto anni di vita. L’organizzazione fu fondata nel 1927 a Ismailia da un maestro elementare, Hassan El Banna, e dapprincipio fu qualcosa di mezzo fra l’opera assistenziale, la società di mutuo soccorso, i boy scouts e una specie di Azione Cattolica maomettana per il ritorno alle fonti, diciamo cosi evangeliche, dell’Islam. Essa si proclamò, e forse in buona fede, apolitica. Ma fra le fonti pure dell’Islam c’è il dichiarato antilaicismo, cioè lo Stato confessionale, che esclude la separazione fra potere spirituale e potere politico, e pretende basare sul Corano anche i rapporti giuridici fra cittadini. Politica infatti i «Fratelli» non ne fecero; si limitarono a impedire che essa venisse fatta da chi non era dei loro o da loro non prendeva gli ordini. E quando un Primo ministro, Nokrashi, tentò di porre un freno al loro baldanzoso proselitismo, lo accopparono. Faruk se ne vendicò subito facendo a sua volta accoppare Hassan El Banna e mettendone fuori legge i seguaci. Ma era tardi. La «Fratellanza», organizzata per cellule, era già uno Stato nello Stato: e forse fu anche per questo che lo Stato si difese così male il 23 luglio del 1952, quando Nasser e compagni decisero di sovvertirlo. Si dice che in quel momento la «Fratellanza» contasse tre milioni di membri. Forse la cifra è esagerata, e ad ogni modo non tiene conto del fatto che molti vi appartenevano solo per comodità, certo, ne facevano parte alcuni fra gli stessi trecento congiurati che ordirono il complotto contro Faruk. Ed è contro costoro che il Tribunale del Popolo, mentre io scrivo e voi, cari lettori, leggete, sta comminando le sue non severe condanne. La decisione di combattere l’organizzazione era grave, e Nasser la prese, controvoglia, solo quando si avvide di non poterne fare proprio a meno: appunto perché era l’unica organizzazione rimasta in piedi dopo lo scioglimento dei partiti, l’unica che avrebbe potuto portare il contributo di un certo numero dì civili al solitario drappello di militari che si accingevano a ricostruire il Paese.
Una prima crisi scoppiò al principio di quest’anno, e precisamente nella notte fra il 13 e il 14 gennaio, quando il Consiglio della Rivoluzione «prese atto di un tentativo della Fratellanza per un accordo con gl’inglesi». Era il momento in cui l’accordo con gl’inglesi lo stava tentando Nasser. che poi infatti riuscì a concluderlo. Ma è significativo il fatto ch’egli lo abbia attribuito ai «Fratelli» sciogliendone la società e imprigionandone il capo, Hassan El Hodeiby.
Seguì un intermezzo interamente occupato dalla lotta fra il Consiglio della Rivoluzione e Neguib che in un primo tempo vittorioso, ottenne il rilascio di Hodeiby e il ritorno a una politica d’intesa con la «Fratellanza». Ma una seconda e decisiva rottura sopravvenne quando, rovesciate le posizioni, Hodeiby e i suoi accoliti si abbandonarono a una sistematica denigrazione dell’accordo che Nasser aveva raggiunto con Londra a proposito del Canale di Suez. Nasser in realtà, inducendo gl’inglesi al ritiro dalle loro basi in Egitto, aveva compiuto un miracolo che a nessuno dei suoi predecessori era riuscito. Ma Hodeiby lo attaccò, con facile demagogia, come un «unconditional surrender» e un tradimento agli ideali patriottici che escludevano un regolamento di conti con gl’inglesi con mezzi diversi dalla bomba e dal pugnale.
Tesi assurda, ma che spiega con eloquenza quale fosse, anzi quale sia la posta in gioco: il monopolio dei sentimenti e dei risentimenti nazionalisti, senza il concime dei quali in questo Paese non si può avviare nessun serio tentativo di riforma strutturale. Un tempo il loro depositario era il Wafd, che infatti era l’unico partito che avesse un seguilo nel Paese. Ma negli ultimi anni, satto la guida di Nahas Pascià, esso era degenerato in una specie di grossa mafia, preoccupata soltanto di distribuire indulgenze e pronta a qualunque compromesso. Del discredito in cui era caduto, aveva approfittato la «Fratellanza» per tagliarsi una grossa fetta della sua eredità. E non c’è dubbio che, senza Nasser e i suoi amici, essa avrebbe finito per imporre il suo giuoco, basato su due briscole irresistibili: la Patria e il Corano. Il Corano l’ha ancora, la Patria, Nasser gliela sta soffiando via, ed è su questo punto che si è scatenata la guerra. Ecco perché i due avversari ricorrono, per combattersi, alla medesima arma: l’accusa di collusione con l’Inghilterra, di complotto con Londra, cioè di atteggiamento antinazionale. No, nessuno sa con esattezza cosa sia questa rivoluzione in nome della quale il Tribunale del Popolo sta pronunciando le sue non severe condanne; ma tutti ormai con esattezza sanno che cosa non vuole essere: lo strumento di una sètta religiosa decisa a trascinare l’Egitto a ritroso nei secoli e a romperne i legami con l’Occidente. Perché questo sarebbe il nazionalismo della « Fratellanza». Lo ha detto chiaro Gamal Salem, quando, in qualità di presidente del Tribunale, aprì i processi che si conclusero con le sei famose condanne a morte del 7 dicembre. Dicono che abbia sollecitato egli stesso quello sgradevole incarico per purgarsi del suo passato di membro di quella setta. Dal suo seggio di magistrato egli si lanciò contro gli imputati in una polemica di cui i giornali non hanno fornito il resoconto. Risulta dalle sue parole, almeno come me le hanno riferite, che tra «Fratelli» e ufficiali ci fu un preciso accordo, alla vigilia dcl 23 luglio 1952; e che questo accordo fu violato dai primi, quando pretesero che nessuna misura del nuovo Governo venisse attuata senza il loro benestare, cioè senza il benestare di Maometto. In che senso i «Fratelli» avrebbero orientato il regime lo si può desumere dall’ultima intervista che il loro capo, Hassan El Hodeiby, diede a un giornalista prima di essere arrestato. Alla domanda cosa pensasse delle banche e delle donne, egli rispose che le banche, certo, erano utili, ma siccome il Corano proibisce il prestito a interesse, bisognava sopprimerle o volgerle a qualche altro scopo. Quanto alle donne, sì, egli riconosceva l’importanza del loro apporto agli sviluppi della vita politica e sociale, purché non uscissero di casa e restassero fedeli al velo. Gamal Salem, nella sua requisitoria, contestò ai « Fratelli» il monopolio, ch’essi si erano arrogati, del sentimento religioso e affermò che per salvare il Corano bisognava impedire che la sua interpretazione fosse lasciata al fanatico zelo e al bigotto formalismo ch’essi pretendevano imporre ai fedeli. Certo, non può parlare diversamente l’esponente di una rivoluzione nazionalista in un Paese in cui Nazione e Dio fanno, per tradizione e per imperativo teologico, tutt’uno. Ma in realtà di Dio questa gente si preoccupa poco, anche se non può ufficialmente dirlo. Essi sanno benissimo che. a voler applicare il Corano, bisogna effettivamente, come diceva Hodeiby, sopprimere le banche e ribadire il velo. Se avranno il coraggio di sopprimere il velo, come fece Kemal in Turchia, non so; ma so che avranno quello di non sopprimere le banche, perché la linea su cui si muovono, anche se non la enunciano, è quella modernista e occidentalista di Atatürk, non quella della controriforma bigotta. Il grande servigio che Nasser sta tentando – ne sia o no cosciente – di rendere all’Egitto è appunto questo: di strapparlo, con un nazionalismo laico, al nazionalismo del Corano, che chiuderebbe la porta di questo Paese all’Europa, all’industria, alle macchine, per farne soltanto una moschea chiusa al mondo moderno, ostile e xenofoba. Naturalmente, per riuscirvi, egli fa quel che si fa sempre in questi casi: la surenchère al radicalismo nazionalista dcll’avversario, cercando di batterlo in intransigenza. Ciò lo ha costrclto, per esempio, a intraprendere una tournée oratoria per «giustificare», agli occhi del popolo, il suo più grosso successo diplomatico: l’accordo con gl’inglesi, che obbliga costoro a ritirarsi dal Canale. E tuttora lo costringe a favorire, e spesso anzi a provocare, quelle rumorose manifestazioni di patriottismo megalomane, che tanta noia danno a tanti osservatori stranieri. Certo, ci vuol poco a far dell’ironia sul nazionalismo egiziano retorico e parolaio. Ma senza questo fertilizzante la rivoluzione di Nasser sarebbe già moria, e al suo posto avremmo quella di Hodelby con un altro nazionalismo tirato avanti a furia di roghi e dì pogrom.