Corriere della Sera, 23 gennaio 1955
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Montanelli intervista Nasser
IL CAIRO – Alcuni giorni or sono Gamal Abdel Nàsser, il successore di Neguib, andò all’Ospedale Italiano a trovare un suo vecchio amico, il generale Aziz El Masri, che ogni tanto vi si rinchiude per un mese, un po’ per cura e più ancora per riposo. Informato dell’arrivo di un sì cospicuo personaggio, il chirurgo primario Cerqua gli si precipitò incontro per fargli gli onori di casa. E Nasser, vedendolo in tight, invece che in camice, gli domandò scherzando s’era in quella uniforme che usava sventrare i suoi pazienti. Cerqua gli spiegò ch’era vestito cosi perché doveva accompagnare all’altare sua figlia che proprio quella mattina sposava. «Bene – fece il Primo ministro battendogli la mano sulla spalla – vengo anch’io». E andò. Assistè alla funzione in chiesa, come un invitato qualsiasi, chiacchierò affabilmente con tutti, fece un brindisi alla giovane coppia, scherzò con i nostri connazionali presenti alla cerimonia, e non guardò mai l’orologio.
Con la stessa semplicità e la medesima indifferenza all’orario, il Capo del Governo egiziano ha ricevuto me, e mi ha trattenuto in colloquio da mezzogiorno e mezzo alle quattro. Quando fa colazione, Nasser? Non ho osato chiederglielo. Io, che la faccio all’una, l’ho saltata; ma non lo rimpiango. Per settimane mi sono affaticato, prima di presentarmi a lui e di por mano al primo articolo sulla situazione egiziana, a documentarmi, a chiedere informazioni sugli uomini, sui fatti, e sui loro retroscena. Potevo benissimo farne a meno, e limitarmi ad aspettare che Gamal Abdel Nasser trovasse quelle quattr’ore da dedicarmi. Perché tutto quel che volevo sapere sull’Egitto e i suoi uomini me l’ha detto lui, spesso senza esservi neanche sollecitato dalle mie domande: con una franchezza, con una sincerità, con un’innocenza che mai mi era capitato di trovare in un uomo di Stato, con la sola eccezione, forse, di Syngman Rhee.
Le molte fotografie che di lui hanno pubblicalo i giornali, anche in Italia, mi esimono dal descriverlo fisicamente. Ha trentasette anni. Veste una divisa di lana cachi coi gradi di tenente-colonnello di fanteria. Le sue mani massicce e pesanti denunziano l’origine contadina. Quando ride (e ride spesso), mette in mostra due file di denti bianchi e sani. E parla un inglese abbastanza fluido.
È stato in questo fluido inglese ch’egli mi ha raccontato come si svolsero le faccende, sin dal principio; e credo che sia la prima volta che lo fa. Io non ho avuto che da interromperlo ogni tanto per il chiarimento di qualche particolare o per farmi suggerire l’esatta grafia di un nome. Solo per darmi il tempo di prendere un appunto egli faceva pausa, poi mi offriva una sigaretta, ne accendeva una per sè, e riprendeva il filo del discorso.
«...Sì, è vero, la storia della nostra rivoluzione ancora non è stata scritta; e anche dei pochi che l’hanno fatto, non tutti ne conoscono alcuni particolari. Si crede per esempio che la prima idea sia nata durante la campagna contro Israele. Non è vero. Quando ci arruolammo per quella guerra, la congiura aveva già cinque o sei anni di vita. Era nata nel ’42, come conseguenza dell’ultima umiliazione inflitta all’Egitto dagl’Inglesi, che avevano imposto a Faruk di richiamare al Governo Nahas Pascià. Fino a quel momento, noialtri eravamo stati soltanto dei giovani patrioti egiziani delusi, che aspiravano vagamente a ripulire il Paese dalle cricche che lo sfruttavano e a liberarlo dalle inframettenze straniere. Ma non avevamo alcuna idea precisa di come lo si potesse fare. Un giorno mi trovai a discutere con Abdel Hakim Amer, che oggi è generale e comandante supremo delle Forze armate, ma allora era un piccolo tenente come me. Fu l’inizio del complotto? Non potrei giurarlo. Forse, nelle caserme sparse per tutto l’Egitto, c’erano in quel momento altri giovani subalterni che pensavano allo stesso modo e tenevano fra loro identici discorsi. Solo il caso fece di me il pianeta intorno a cui vennero a poco a poco a gravitare gli altri satelliti, perché proprio quell’anno ebbi la nomina a istruttore nel collegio militare. Mi trovai così a contatto immediato con centinaia di cadetti, destinati a formare i nuovi quadri, e fra essi cominciai a reclutare quelli che mi sembravano i meglio orientati come idee e i più sicuri come carattere.
«Sapevo benissimo che un errore avrebbe potuto costarmi caro, perché sarebbe bastata una delazione per condurmi dinanzi alla Corte marziale. E se questo errore non lo commisi, il merito non va tanto alla mia lungimiranza, quanto alla lealtà di quei ragazzi, cui il tradimento avrebbe fruttato certamente una brillante carriera. Tuttavia, per ridurre i rischi al minimo necessario, decisi, con i miei compagni, di organizzare la cospirazione per cellule, in modo che ognuno dei partecipanti non conoscesse che il nome di un altro o di altri due al massimo. Questo criterio vige tuttora. Anche oggi, a vittoria raggiunta, i Liberi ufficiali, come si chiamano gli aderenti alla Rivoluzione, formano una specie di sètta, di cui sono noti solo pochi membri: quelli che, per necessità di cose, hanno dovuto qualificarsi il 23 luglio del 1952. Ma si tratta di una piccolissima minoranza. Tutti gli altri sono anonimi, e non si conoscono nemmeno tra loro. Gli unici che ne sappiamo il nome siamo io e Abdel Hakim Amer. Essi sono i nostri occhi sparsi in tutte le guarnigioni dell’Egitto...
«Epurazioni, dite? Certo che ce ne sono. Ce ne sono sempre state. Cominciarono, si può dire, il giorno stesso in cui ebbe inizio la congiura vera e propria, cioè al nostro ritorno dalla guerra d’Israele, quando qualcuno cominciò a pensare che la nostra era un’utopia e che l’unico successo cui si poteva aspirare era quello di entrare nelle buone grazie del re per rimetterlo sulla buona strada. Era assurdo, visto che proprio dal re cominciava la corruzione, in questo Paese. Capii che costoro nelle intenzioni avevano già tradito, e badai solo a mettere al riparo me e i miei amici dalle conseguenze. Dissi che nemmeno noi intendevamo più complottare e che preferivamo ritirarci ciascuno sotto la propria tenda senza più occuparci di quelle altrui. Ma, invece, ordinai a uno dei più sicuri fra i nostri di unirsi al gruppo dei deviazionisti, di controllarli e di riferirne a noi. Così venimmo a sapere che, partiti alla conquista di Faruk, essi ne furono presto conquistati e, anzi, ne divennero la cosiddetta «guardia di ferro». Il re finse, infatti, di aderire alle loro idee; ma in realtà li corruppe con favori e bakcisc. con pranzi e donnine allegre. Finché, per comprometterli definitivamente, ordinò loro di uccidere un deputato, suo vecchio nemico.
«Fra coloro che dovevano sparare c’era anche il nostro uomo, che venne a dircelo e a chiederci come doveva comportarsi. Gli ordinammo di recitare la commedia sino in fondo e di sparare con gli altri, al momento opportuno, ma fuori bersaglio. Il deputato fu letteralmente crivellato di colpi, ma per fortuna sopravvisse. E anche noi sopravvivemmo.
«Secondo i nostri calcoli, l’organizzazione dei Liberi ufficiali, se avesse funzionato a dovere, avrebbe avuto il controllo delle Forze armate nel 1955 o nel 1956. Ma avevamo fatto i conti senza l’oste, cioè senza Faruk che, con le sue impudenze e prepotenze, suscitò in tutti un tale disgusto da spingere masse sempre più compatte di subalterni nelle file del movimento: per cui il problema più grave, da allora in poi, non fu quello del proselitismo, ma quello della selezione. Con esso, un altro se ne imponeva: quello del capo. Non lo avevamo, perché nessuno di noi lo era. In vetta a quella piramide di cellule sparse nelle varie guarnigioni, c’eravamo noi: un gruppo di nove amici, quelli che oggi compongono il «Consiglio della Rivoluzione», senza gerarchia. Ci eravamo impegnati a lavorare insieme e a non prendere decisioni che a maggioranza di voti. È un impegno che tuttora vale: io, Primo ministro, non rappresento che un voto in quel Consiglio, dove spesso vengo battuto. Ma questo va bene per uso interno soltanto. Alla vigilia di una insurrezione la cui necessità si faceva sempre più urgente, occorreva un uomo di già affermato prestigio che le desse un nome e un volto «La ricerca fu lunga, perché dei vecchi capi militari di passato abbastanza illustre, non ce n’era uno che fornisse garanzie rivoluzionarie. Pensammo dapprima ad Aziz El Masri, colui che sono andato a visitare all’Ospedale Italiano. È un bel soldato e un grande galantuomo. Ma aveva già ottant’anni, e le sue idee politiche si riassumono in questa frase, poco incoraggiante, ch’egli continuamente ripete: «A me la testa di un uomo comincia a interessare solo quando una sciabola l’ha spiccicala dal collo». Ma noi non facevamo la rivoluzione per spiccicare a sciabolate teste dal collo. «C’era un altro nel quale avevamo riposto qualche speranza: Fuad Sadek... E Salali Salem s’incaricò di consultarlo. Si mostrò subito entusiasta e disse ch’era pronto a prendere ogni responsabilità. Ma proprio mentre si svolgeva il colloquio, il telefono lo chiamò. Era un consigliere di Faruk che gli proponeva di assumere il Ministero della Guerra. Quando posò il ricevitore, aveva già cambiato idea. Disse che la Rivoluzione era un tradimento contro la patria e il re; e che lui, appena diventato ministro, avrebbe trascinato i congiurati dinanzi alla Corte marziale. Fu dapprima, per noi, un’amara sorpresa, eppoi una grande angoscia. Salali Salem non aveva detto tutto a Fuad Sadek. Ma gli aveva rivelato quanto bastava per provocare una repressione che ci avrebbe colto tutti di contropiede. Per fortuna Sadek, quando arrivò a Corte, fu informato che Faruk aveva già cambiato avviso. E al Ministero della Guerra non ci andò. Ora è in carcere.
«Non restava che Mohamed Neguib. Era informato della congiura, ma solo vagamente, e non ne faceva parte. Però era un brav’uomo, un soldato d’onore, e non aveva mai mostrato ambizioni politiche. Per di più in quel momento si trovava in crisi, perché il re gli aveva tolto il comando delle Guardie di frontiera. Fu soprattutto questa coincidenza, credo, a fargli accettare la proposta che io personalmente gli avanzai. E a questo punto vorrei non essere parte in causa per decidere con maggiore obbiettività se fui io a ingannarmi su di lui, quel giorno, sia pure in piena buona fede; o se fu lui a ingannarsi su di noi. con altrettanta buona fede».
A questo punto Abdel Nasser interpola una lunga pausa, soffia sul tavolo della scrivania come per ripulire anche quella da ogni residuo di rancore. Poi, con la sua voce grave e lenta, e, in un accento di profonda, indiscutibile onestà, riprende: «Neguib era, è un uomo di non comuni qualità. Gli mancava quella del rivoluzionario, e lo sapevamo. Forse commettemmo un errore noi quando si pensò che, anche senza qualità rivoluzionarie, egli avrebbe potuto rappresentare la bandiera della rivoluzione. Forse commise un errore lui, quando pensò che di questa rivoluzione, alla quale non apparteneva, toccava a lui il comando. Da un punto di vista psicologico, io credo di capire ciò che avvenne nell’animo di Neguib, quando si trovò stretto fra un «Consiglio della Rivoluzione» che molto spesso bocciava le sue proposte, come ogni tanto boccia anche quelle mie, e una piazza che invece applaudiva con entusiasmo ogni suo gesto. Quello che so, quello che posso dire in tutta onestà e sincerità è che, per tutti i primi mesi, noi non solo non facemmo nulla per impedire che Neguib ottenesse il più grande successo di popolarità, ma anzi facemmo tutto il possibile perché l’ottenesse. Ci confinammo volontariamente nei nostri gabinetti di lavoro ed evitammo scrupolosamente che venisse fatto perfino il nostro nome, mentre Neguib passava da una città all’altra, da una cerimonia all’altra polarizzando sulla sua persona l’interesse generale e il generale entusiasmo. Sapeva suscitarli, e noi ne eravamo felici. Neguib ha il dono della simpatia. Porta scritta in viso la sua semplicità di buon padre di famiglia. È un asso, per esempio, nel bacio e nelle carezze ai bambini, nella manata sulle spalle al vecchio contadino, nella buona parola alla vedova... E lo dico, badate, con ammirazione. Son qualità necessarie, per chi fa certi mestieri.
«Le cose naturalmente cambiavano in sede di Consiglio: unico angolo, di tutto l’Egitto, in cui i baci, le carezze e le manate sulle spalle non avevano effetto. Noi siamo una Giunta Esecutiva che deve rispondere dei suoi gesti ai duemila Ufficiali della Rivoluzione. Neguib non tenne conto di questa forza, a cui noi stessi dovevamo rendere ragione. La crisi maturò non su un episodio, ma su una lunga serie di fatti. Egli commise anche molte imprudenze: quella, per esempio, di rimettersi in contatto con alcuni capi dei partiti disciolti, i quali naturalmente lo spinsero a sbarazzarsi di noi. A un certo momento avemmo la prova di un suo complotto con gli ufficiali di cavalleria e di artiglieria. Perché Neguib era talmente estraneo alla Rivoluzione, che ignorava perfino l’esistenza dei giovani Ufficiali che, dislocati in tutte le caserme, vi controllavano quel che succedeva. Il resto lo sapete. Lo deponemmo una prima volta, poi lo reimbarcammo per non provocare rotture nel Paese, e con la speranza che la lezione gli avesse servito. Complottò di nuovo, con la complicità di uno dei nostri, Khaled Mohieddin, oggi dimissionario all’estero. E dovemmo finirla. Ora siamo soli di fronte alle nostre responsabilità, come lo siamo stati fino al 23 luglio del 1952. E credo che abbiamo una coscienza precisa dei compiti che ci aspettano e della loro difficoltà. Timori di una controrivoluzione non ne abbiamo più. Vi dirò in stretta confidenza che, senza farne apparire la notizia sui giornali, ne abbiamo represse sei, in questi mesi. I problemi più urgenti sono risolti. Ora ce ne restano due per i quali occorrono lunghi anni: la lotta contro il feudalesimo da una parte, e quella contro la corruzione dall’altra. Il successo dell’una dipende da quello dell’altra. Noi abbiamo eliminato con spicciativi castighi le mance e le concussioni dalla vita del Paese, ma non abbiamo ancora debellato le cause di questo malcostume: la miseria della gran massa in confronto alla ricchezza dei pochi. Stiamo camminando su questa strada e niente ci fermerà.
«Abbiamo anche un altro problema, organizzativo, da risolvere: la trasformazione del movimento dei Liberi Ufficiali in un grande partito politico...». «Ahi!...» mi scappa detto a questo punto. Abdel Nasser si interrompe a quel mio singhiozzo e me ne chiede la ragione. Cerco di rimangiarmi le obbiezioni che me l’avevano ispirato, ma il Primo ministro insiste. E allora gli spiego che, avendo vissuto l’esperienza fascista, nutro qualche diffidenza per i partiti che. da ristrette aristocrazie rivoluzionarie, cercano di diventare «di massa», e quasi sempre perdono in questo passaggio il loro slancio e s’impaludano nei compromessi.
Devo aver toccato con queste parole un punto molto sensibile, perché il Primo ministro insiste nell’esigere chiarimenti e spiegazioni. Mentre glieli fornisco, la porta si apre ed entra un signore egiziano seguito da un nugolo di fotografi. È un benefattore che viene a portare mille sterline per gli aiuti ai sinistrati di Kéna. E io penso che sia scoccata per me l’ora di sgomberare. Ma Nasser mi ferma con un gesto; ritira, sotto i lampi al magnesio, lo chèque dalle mani del filantropo, gliele stringe con gratitudine; e, dopo averlo congedato, mi fa segno di riprendere il mio posto e il mio discorso. Nasser non sa molto del fascismo, che cadde quando egli era ancora un piccolo subalterno, estraneo alla politica. E glielo devo raccontare tutto daccapo. È una faccenda lunga, come ben potete immaginare, ma lui non se ne stanca affatto. E anche in quest’ansia di sapere, in questa umiltà di fronte alle esperienze altrui, c’è una profonda onestà.
«Insomma – riassume, dopo aver ben bene meditato le mie parole, che sono state molte —, voi dite che per lavorare bene per la maggioranza, bisogna restare una minoranza...». «Per lo meno queste son le conclusioni cui son arrivato con la mia esperienza di fascista». «Non sono conclusioni molto democratiche...». «V’interessa molto la democrazia. Eccellenza?». Abdel Nasser aspira una lunga boccata di fumo, alza gli occhi al soffitto, ed è chiaro che sta facendo un rapido calcolo. «Sì, ma meno di quanto m’interessi l’Egitto...». Segue un’altra pausa, poi chiedo: «E un Presidente, a questa Repubblica, quando vi decidete a darglielo?». «È una parola.’... Occorre trovarne uno che poi non diventi un nuovo Neguib...». «Perché non Voi, Eccellenza?». Abdel Nasser mi guarda, poi risponde serio serio, con stupefacente candore: «Oh, a me piace lavorare!...».
«Io vi ho impedito di farlo per quattr’ore. Eccellenza» dico guardando l’orologio e alzandomi. Nasser si alza a sua volta e mi stringe la mano fra le sue, massicce e pesanti. «Vi faccio osservare – aggiungo – che Neguib. a questo punto, mi abbraccerebbe e bacerebbe...». Nasser ride nello sfavillio dei suoi bianchissimi denti, e risponde con una sfumatura di mortificazione nella voce: «Oh, lui queste cose le sapeva fare!...».