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 2017  maggio 25 Giovedì calendario

Nessun italiano sulla Ducati

Aaa Azienda prestigiosa vendesi. A chi? Esiste un capitalismo italiano? Forse non ci crede più neppure la Confindustria, che arranca senza idee, come dimostra l’assemblea di ieri. Dov’è chi investe? Anche chi lo faceva, andando in giro per il mondo ad acquistare aziende, Leonardo Del Vecchio, ha finito per consegnare la sua creatura, Luxottica, ai francesi di Essilor, leader mondiale nella produzione di lenti oftalmiche.
Intendiamoci, niente di male se nel mondo globalizzato gli stranieri investono in Italia. Anzi, ci lamentiamo quando questo non succede. Il problema è che sono troppo rari gli italiani che vanno all’estero a fare shopping. Non a caso è diventato quasi un eroe Sergio Marchionne che col suo blitz americano è riuscito ad arginare la crisi della Fiat.
Gli economisti ci hanno proposto per anni il mito dei distretti e tra i più in salute vi era quello della ceramica, a Sassuolo, emblema di una media imprenditoria assai vivace. Ebbene, quando nel 2012 la più grande industria italiana di piastrelle, la Marazzi, è entrata in crisi, né uno degli imprenditori del distretto né una loro cordata s’è fatta avanti e così sono arrivati dagli Stati Uniti quelli di Mohawk Industries e adesso sono loro i padroni dell’unica grande azienda del made in Italy ceramico. Non solo. Lo scorso anno gli stessi americani hanno acquistato, poiché nessun imprenditore (neppure quelli che hanno in garage tre Ferrari) ha mostrato interesse, la terza azienda per importanza, l’Emilceramica, e ormai dominano il distretto e il mercato.
Adesso è in vendita un altro gioiello dell’industria italiana, la Ducati. In verità era già finita in mani straniere nel 2012. Andrea Bonomi, a capo della finanziaria Investindustrial, voleva fare cassa e si mise alla ricerca di un compratore. Tastò il polso anche alla Fiat. In Italia, dinieghi e tiraemolla. Dalla Germania sono arrivati, con l’assegno in mano, i capi della Volkswagen. Anche perché la casa tedesca, a pochi passi dalla sede della Ducati, aveva realizzato un business coi fiocchi, acquisendo a prezzi di realizzo la Lamborghini in crisi, ristrutturandola e riportandola nella fascia altissima di mercato, quella che consente più guadagno. Nel 2016 la Lamborghini ha prodotto 3457 vetture (+7%) e fatturato 906 milioni (+4%). Perché non ripetere l’affare? E così è stato.
La Ducati nacque nel 1926 per volontà dell’ingegnere Antonio Cavalieri Ducati per la produzione di tecnologie per le comunicazioni radio. Durante la guerra venne riconvertita a programmi militari e infine prese corpo una divisione meccanica che realizzò prima dei motocicli poi delle moto con soluzione tecnologiche d’avanguardia.
La fuga dei cervelli non è questione solo dei giorni nostri. Uno dei figli del fondatore, Adriano, emigrò negli Stati Uniti dove entrò nel gruppo Plamadyne e contribuì allo sviluppo di motori al plasma per la Nasa.
Oggi la Ducati ha 1.594 dipendenti, una rete commerciale di 783 punti vendita e assistenza, è presente in 90 Paesi, l’export è l’80% del fatturato. Ha conquistato 17 titoli mondiali Superbike e uno in Moto Gp. Il 2016 si è chiuso con 55.451 moto vendute (642 in più rispetto al 2015), un fatturato di 731 milioni di euro (+ 4,1%), un utile di 51 milioni, in linea con quello dell’anno precedente.
Performance positive. Ma la Volkswagen ha un impellente bisogno di fare cassa per tamponare le falle del dieselgate. Perciò ha guardato dentro la sua galassia (marchi Volkswagen, Skoda, Audi, Bentley, Bugatti, Lamborghini, Porsche, Volkswagen Commercial Vehicles, Ducati, Scania e Man) e ha deciso che quelli più lontani dal core business (Ducati che fa moto e Scania e Man che producono autocarri) possono essere ceduti. Il piano è stato svelato da Bloomberg e Reuters. Ha avuto una blanda smentita da parte dei vertici della casa automobilistica, diramata però proprio mentre una delegazione dell’Harley Davidson era in visita agli stabilimenti (e ai conti) della Ducati. Il gruppo americano è interessato al mercato italiano, dal quale è praticamente assente. Aveva tentato nel 2008 acquistando la MV Agusta, di cui si era poi ingloriosamente disfatto. Adesso avrebbe voglia di ritentare, creando un polo delle moto di lusso con appeal in tutto il mondo.
In pista c’è anche un concorrente dell’Harley, l’americana Polaris, che ha appena smesso di produrre il marchio Victory, quello più fashion, e sta cercando cosa affiancare ai modelli Indian. È la più antica fabbrica motoristica Usa, fondata nel 1901 e non vuole alzare bandiera bianca di fronte all’Harley.
Il concorrente più pericoloso arriva però dall’India. Secondo il giornale The Times Of India emissari della Volkswagen hanno preso contatti con il gruppo indiano Eicher Motors, che controlla Royal Enfield, per sondare le possibilità di una cessione di Ducati. Il giornale pubblica anche il laconico commento del Ceo di Eicher Motors, Siddhartha Lal: «Restiamo attenti alle opportunità ma senza farci distrarre dai nostri obiettivi».
L’obiettivo è quello di conquistare la leadership globale nelle medie cilindrate, tra 250 a 750 cc. Ma nei programmi c’è pure l’espansione nelle cilindrate superiori e Ducati potrebbe rappresentare la chiave di volta.
Sempre in India il dossier Ducati è sul tavolo di Bajaj Auto Ltd, sede a Pune, secondo costruttore mondiale di scooter e quarto di motoveicoli (un milione di unità escono ogni anno dai suoi stabilimenti). Ha deciso di spingere l’acceleratore sull’internazionalizzazione e dopo un primo approccio in Austria, con l’ingresso nel capitale di Ktm, sta valutando altre dossier, che la potrebbero portare a Bologna. In gara ci sono pure due fondi d’investimento internazionali, Kkr, ovvero Kohlberg Kravis Roberts & Co, e Blackstone, entrambi con sede a New York.
Chi vuole la Ducati si faccia avanti. Di capitali italiani, per ora, neppure l’ombra.
Del resto brucia ancora la vicenda Parmalat. Il colosso, sull’orlo del baratro, non trovò alcun imprenditore italiano disposto a salvarlo. Non si trattava neppure di una questione di soldi, ma d’intraprendenza e di visione a lungo raggio. Sono arrivati i francesi di Lactalis, che l’hanno pagata coi soldi che Parmalat aveva in cassa e che si sono ritrovati dopo l’acquisto. In pratica è stata regalata.
Questo è il capitalismo senza capitali, senza entusiasmo, senza voglia di rischiare.