Corriere della Sera, 29 marzo 1957
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Un piano di sette anni per modernizzare l’Iran, un paese in cui è impossibile arrivare in treno
Il personaggio più «busy», più occupato di tutto l’Iran si chiama Abd Hassan Ebtehagy. un uomo imperioso e sconcertante. Per avvicinarlo bisogna disporre di potenti maniglie, perché Ebtehagy non ha il tempo per nessuno, salvo che per lo Scià. Nella gerarchia dello Stato conta più di un ministro in carica, e non è affatto un’eminenza grigia: è potente, e ci tiene a mostrarlo. Proviene dal ramo bancario. È un connotat che gli si legge in faccia subito, al primo contatto. Ha una taccia florida e arida, sormontata dalia cupola di una testa che pensa in cifre. Prima di sedere alla scrivania da cui s’è alzalo per venirmi incontro (la occupa da due anni), è stato direttore della Rauca Melli i nazionale), ambasciatore a Parigi, rappresentante dell’Iran nel Fondo monetario Internazionule a Nuova York. A 52 anni, un’età da pivello per la mentalità orientale, è l’uomo più autoritario e più malvisto del suo Paese.
Perché questo Paese che lo ammira e lo odia egli ha in animo di trasformarlo dalle radici. È una guerra che col benestare dello Scià egli ha dichiarato al suo popolo di contadini e di pastori, una guerra di sette anni per rigenerarli, per farli diventare cittadini di uno Stato elettrificato, asfaltato, motorizzato, moderno insomma. Dario il Grande certo gli sorride dall’impressionante bassorilievo del museo archeologico di Teheran, se mai egli c’è stato perché non ha mai tempo. «Sasemané Barnamé», che vuol dire prosaicamente «piano settennale», è il nome di questa guerra contro l’ignavia, il quietismo, il tira a campà dei persiani, simpaticissimi proprio perché convinti assertori del principio che. il lavoro nobilita l’uomo ma lo rende simile alla bestia. Egli è alla testa di questa Cassa del Mezzogiorno iraniana, con la differenza, rispetto a quella di Campilli, che non riguarda un comprensorio regionale, bensì un impero di 1.0 milioni di kmq. (oltre cinque volte l’Italia) e una popolazione di poco più di 20 milioni.
Fu un’udienza brevissima. Egli parlava in siile epigrafico, «Ho un miliardo di dollari da.spendere, non posso concentrarli in un settore solo, devo distribuirli su tutto lo scacchiere». Quando non guardava me guardava l’orologio. «Il Paese è grande e i problemi sono molti; abbiamo bisogno di strade, ferrovie, dighe, porti, acquedotti, officine, scuole, ospedali, abitazioni, opere sociali». Aveva dato un’altra occhiata all’orologio. «Perché non ha chiesto di vedermi appena arrivato a Teheran?». Risposi che avevo dovuto orientarmi, vedere alcuni personaggi politici. «Lei doveva chiedere di veder me subito. Io lavoro, qui si lavora. Mi dispiace, anche perché conosco il giornale che lei rappresenta». Premette un bottone invisibile e tosto entrò un funzionario con l’aria di chi è chiamato soltanto per ricever ordini. Era il suo collaboratore più importante. Uscii con lui. Avevo ottenuto di avvicinare Ebtehagy perché mi facesse una sintesi del Barnamè, e ora dovevo risalire da me la china della montagna di progetti, di cifre, di calcoli, dietro la quale traspaiono in filigrana le ossature zincate degli oleodotti e i grattacieli di Wall Street. Cercherò di mettere in fuoco qualche punlo dell’immenso panorama.
Una cosa che si apprende con stupore quando si viene in questa pittoresca capitale ai piedi dell’Elburz è che non esiste possibilità di ripartire in ferrovia. Da Bagdad, facendosi scombussolare per dieci giorni, si può, volendo, raggiungere Milano: da Teheran no. E nessuno dei Paesi con cui la Persia confina; non l’Iraq, non la Turchia, non l’Unione Sovietica, non l’Afghanistan, non il Pakistan. Ferroviariamente è isolata dal mondo. Una linea di somma arditezza, costruita anche col sudore di operai italiani, scavalca la nevosa catena dell’Elburz, alta più di seimila metri, per terminare a Bandar, sul Caspio, però sempre in territorio iraniano. Durante la guerra si credeva che i massicci rifornimenti bellici degli alleati alla Russia da Bassora nel Golfo Persico, dove sbarcavano, proseguissero per rotaia sino a Tabriz e oltre. Invece no: arrivavano in treno soltanto fino a Mianeh, che è nell’Azerbaijan, e di là continuavano per rotabile.
Ora questo isolamento è sul finire. Il tronco ferroviario Teheran-Mianeh sta per essere prolungalo sino a Tabriz (1200 chilometri), mentre da Teheran si prolungherà in direzione opposta, cioè verso est, un altro tronco trasversale di 600 chilometri facente capo a Meshed, quasi alla frontiera col Turkmenistan (Unione Sovietica). I lavori sono in corso. In un secondo tempo si opererà il collegamento da Tabriz alla frontiera turca (mezzo migliaio di chilometri circa), dopo di che l’ Iran, attraverso l’Anatolia, potrà finalmente inserirsi nella rete ferroviaria europea. Di un tronco meridionale, da Teheran al Pakistan via Herman, che è capoluogo di un distretto carbonifero poco sfruttato, si parla molto, ma di positivo non c’è ancora nulla.
Difettosa di strade rotabili la Persia invece non è. Può sorprendere che si sia pensato a queste in un momento in cui altrove si continuava ad avere lo sguardo rivolto alle ferrovie come fondamentale mezzo di trasporto, e il fatto è di per sè curioso, anche perché si riconnette alla conclusione di un lungo, confuso, drammatico periodo di storia. Il 25 aprile 1925 cingeva la corona imperiale lo Scià Reza Pahlavi, padre dell’attuale sovrano, un uomo senza precedenti augusti, che quattro anni prima, alla testa di una formazione di cosacchi persiani, aveva marciato su Teheran, s’era impadronito del potere e aveva deposto la dinastia kagiara che aveva fino allora disastrosamente regnato. Le male lingue dicono che Reza fosse un semianalfabeta. A quarant’anni era ancora sergente. Poi di colpo rimontò tutti i gradi fino a colonnello, che è il gallone-chiave per tutte le ambizioni
All’indomani della prima guerra mondiale, le monarchie avevano ancora presa, e Reza optò per una poltrona di velluto dalla cresta dorata. Egli apparteneva alla categoria dei riformatori. Ataturk dovette essere per qualche tempo il suo modello. Da buon cosacco amava i cavalli, ma da imperatore cominciò ad apprezzare i vantaggi dell’automobile. Se questa ha in pochi anni soppiantato il cammello su gran parte delle carovaniere persiane si deve a lui. che dava carta bianca ai francesi per gli scavi di Persepoli ma non sentiva l’archeologia. Sventrò Teheran, facendole la fisionomia odiernu ch’è di capitale, diede l’avvio al primo nucleo di industrie, prevalentemente tessili. Ora le sue strade non bastano più. Ne occorrono di nuove e moderne per un complesso di 12 mila chilometri, ma il « Barnamé» ne ha preso in considerazione 6 mila, le più urgenti. In corso di lavoro è la ’Transiraniana, dal Golfo Persico (Abadan) al Mar Caspio, un nastro d’asfalto lungo 1300 chilometri e largo sette metri. Interessante è ciò che prevede, per la produzione agraria, il Piano settennale, il quale si articola in quattro capitoli (irrigazìonc e agricoltura, trasporti e comunicazioni, industrie e miniere, servizi sociali). Dagli Stati Uniti, i quali concorrono al finanziamento attraverso un prestito di 75 milioni di dollari della World Bank, è stato fatto venire Lilientlhal, il capo della TVA (Tennessee Valley Authority, che sette Stati americani depressi trasformò in una delle più fertili regioni del mondo). Dopo studi e sopraluoglii egli fermò la sua attenzione sul Kuzistan (zona di Abadan) che offre tutte le prospettive, clima subtropicale, petrolio, pianure irrigabili, foreste ecc. Un’altra fetta di terra promessa è stata ravvisata a nord-ovest di Teheran, dove uno sbarramento sul Sefid Rud (fiume bianco) darà un bacino che invasa cinque volte il Tirso. La sola diga costerà cinque anni di lavoro e parecchi miliardi di rials (un rial, otto lire).
Gli americani sono molto interessati al consolidamento economico e politico dell’ Iran, uno dei baluardi del Patto di Bagdad, perciò non fa meraviglia che esercitino un certo controllo sul modo come vengono spesi i loro denari. La Banca Intenazionale, per esempio, ha nell’organizzazione quattro suoi funzionari; per il settore agricoltura c’è un italiano, il dottor Rotondi, noto per la sua competenza e per la parte avuta nella bonifica sarda. Per ciò che concerne la scelta e l’impiego dei fertilizzanti, Lilienthal ha suggerito la nostra Montecatini; tre funzionari sono già sul posto. Anche qualche ditta italiana si è aggiudicata dei buoni appalti.
Do credito al dottor Rotondi quando mi dice che la Persia ha molti punti di contatto con la Sardegna. Sull’altipiano iranico la vita ha ancora un fondo pastorale. Si contano oltre trenta milioni di pecore da latte, il cui prodotto è utilizzato prevalentemente per usi familiari data la mancanza di strade. Sono tonnellate di formaggio che non cominciano nemmeno a cagliare. Il nomadismo, altra caratteristica in comune con le zone depresse, è tutt’altro che in declino. Vige sempre la transumanza come da noi nell’Italia meridionale. Sono centinaia di famiglie che traslocano in gruppi di tribù, con la tenda e le masserizie sul dorso del cammello. D’estate non piove quasi mai, manca l’erba, le pecore morrebbero se non avessero la coda grassa, che è la loro dispensa per il lungo semestre di digiuno. Noi non abbiamo l’idea di come la vita di queste regioni, che l’uomo ha contribuito a devastare lasciando che i fiumi si incavernassero, che le greggi brucassero i virgulti delle giovani piante, che i boschi venissero rasi al suolo per far carbone, dipenda dalle precipitazioni atmosferiche. Pare che tutte le nuvole formate dal Caspio vengano trattenute dalla catena dell’Elburz,
Ma anche qui, sui tavolieri fulminati dal sole da cui gli eserciti di Dario partirono per la conquista dell’Occidente e il disastro di Maratona, la natura non è così crudele come si suppone. Sotto l’arida crosta gorgoglia il «ghanat». Il ghanat è una falda freatica che scorre parallela alla pendenza del terreno collinoso. Da cinquemila anni i persiani sono usi ad estrarre l’acqua senza pompe, mediante gallerie e fossi scavati a mano nel senso della contropendenza. Su 45 mila villaggi in cui è distribuita la più parte della popolazione, almeno 30 mila irrigano le loro grame colture così. Certo che se avessero più acqua avrebbero mire più vaste, e il reddito nazionale aumenterebbe. La Persia d’oggi spera di trovare sempre più petrolio per venderlo bene e barattarlo con acqua, perché solo l’acqua concede la prosperità frondosa e riposante. E qui, di acqua, ce n’è più che non immagini l’europeo che boccheggia nei mesi torridi, aspettandola dal cielo.