Corriere della Sera, 22 marzo 1951
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Il petrolio nel mondo e la crisi iraniana
Gli appelli rivolti stanotte dallo Scià e dal Capo del suo Governo alla Nazione persiana tendono a rafforzare la difesa dello Stato di fronte alla piazza. È un tentativo degli elementi moderati per superare la tempesta che l’agitazione nazionalistica e il terrorismo dei fanatici, abilmente provocati dai comunisti, hanno sollevata.
Al centro di questa rete di intrighi e di violenze stanno gli interessi petroliferi della Persia e di tutto il Medio Oriente, che sono oramai i più importanti dopo quelli del Nord America. È utile perciò riferire le cifre pubblicate stamattina dal Financial Times. La produzione mondiale di petrolio ha superato, nel 1950, i 522 milioni di tonnellate e tende ad aumentare ancora. Il Medio Oriente ha dato un sesto di questo totale, cioè 87 milioni di tonnellate: molto meno degli Stati Uniti (270 milioni) ma un po’ più dell’America Latina (85 milioni) e assai più dell’Unione Sovietica (35 milioni, o 44 aggiungendo il contributo dei satelliti). Tutte le altre zone del mondo rendono molto meno di quelle nominate.
Adesso, nel Medio Oriente, la Persia produce più di tutti, cioè poco meno di 32 milioni di tonnellate, seguita dall’Arabia Saudita, dallo staterello di Kuwait, sul Golfo Persico, e dall’Iraq, che danno, rispettivamente, 27, 17 e 6 milioni. L’espansione produttiva di tutta la regione, dopo la guerra, è stata rapidissima: Arabia Saudita e Kuwait, che hanno concesso lo sfruttamento alle compagnie americane, sono saliti in pochissimi anni da cifre minime alla forte produzione indicata. Si calcola che il quaranta per cento delle riserve mondiali di petrolio sia concentrato nel Medio Oriente. Il 49 per cento di queste riserve del Medio Oriente si trova sotto il controllo americano, e il 45 per cento sotto il controllo anglo-olandese. Viceversa, gli interessi anglo-olandesi prevalgono leggermente su quelli degli Stati Uniti per quanto riguarda lo sfruttamento presente.
La concorrenza tra le compagnie americane e le compagnie inglesi è stata nel passato fortissima, anche se non ha raggiunto la violenza che alcuni romanzieri della politica amavano fantasticare. Oggi una divisione è avvenuta: la Persia è in mano inglese, l’Iraq un condominio, l’Arabia e il Kuwait in mani americane. Gli interessi anglosassoni tendono oramai a diventare solidali per diverse ragioni, politiche ed economiche. I pericoli del nazionalismo locale e del comunismo sono uguali per gli uni e per gli altri: se l’Anglo-Iranian perdesse le sue concessioni, se la Persia cadesse sotto il comunismo o anche sotto il fanatismo nazionalistico, le ripercussioni sui vicini interessi americani sarebbero immediate. Si aggiunga che la Anglo-Iranian ha stipulato un contratto a lunga scadenza con due compagnie americane, alle quali vende all’incirca il 40 per cento della sua colossale produzione.
Tutte le compagnie pagano forti diritti agli Stati, e in qualche caso ai Sovrani, dai quali hanno ottenuto le concessioni. Questi, come succede nell’Arabia Saudita, ottengono fino alla metà dei benefici. Ma in cambio, le compagnie sono diventate veri e propri Stati, e dispongono, per esempio, di flotte grandi quanto quella d’una media potenza marinara (l’Anglo-Iranian ha 146 navi cisterna, stazzanti complessivamente circa 1.700.000 tonnellate). La loro influenza politica ed economica sui Paesi del petrolio è stata finora dominante. Cosi oramai il fronte della Guerra del petrolio si è spostato finendo per diventare un episodio nella lotta tra i due gruppi di Potenze che si contendono il mondo.
Per ora, il Governo inglese segue una condotta molto prudente, non volendo far precipitare la crisi di Teheran. La nazionalizzazione votata dal Parlamento deve essere firmata dallo Scià per diventare valida; ma una pressione aperta e clamorosa sul sovrano potrebbe avere il risultato di aumentare l’agitazione nazionalistica e di indebolire ancora la posizione del Governo. L’eventualità di un ricorso britannico alle Nazioni Unite, prospettata oggi alla Camera dei Pari da lord Vansittart, non è esclusa dal Governo, ma per ora, ha detto il sottosegretario agli Esteri lord Henderson, «bisogna aspettare gli sviluppi della situazione». Ancora più grave della crisi persiana poteva diventare quella del Pakistan, che è stata stroncata giorni fa dal Primo ministro, Liaquat Ali Khan, con l’immediato arresto d’un gruppo di congiurati, organizzato intorno al capo di Stato maggiore dell’esercito. Liaquat Ali Khan ha rivelato stasera davanti al Parlamento l’ispirazione comunista del complotto. Una volta preso il potere a Karachi con un colpo di mano, i congiurati avrebbero invitato «una certa Potenza straniera» a mandare missioni economiche, politiche e costituzionali per cambiare l’organizzazione del Paese. I colpevoli saranno processati tra breve, sebbene, come telegrafa un corrispondente da Karachi, l’opinione pubblica sia favorevole a una immediata fucilazione, senza giudizio formale.
La connessione tra gli avvenimenti del Pakistan e quelli di Teheran è chiara. Dappertutto la Russia agisce contemporaneamente sugli elementi nazionalisti e militaristi e su quelli di estrema sinistra per rovesciare i regimi in qualche modo legati all’Occidente. Ma l’incauta mossa di Karachi, afferma il corrispondente del Daily Telegraph dal Cairo, è un errore gravissimo da parte della Russia e della sua diplomazia sovversiva. La pronta energia di Liaquat Ali Khan, che deve rinfrancare lo Scià, può schiarire di colpo tutta la situazione del Medio Oriente.