Corriere d’informazione, 26 ottobre 1948
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La religione impedisce lo sviluppo della Persia
A Sciahrud i mullah si erano messi a predicare contro coloro che ascoltavano la «scatola delle parole». Essa favoriva le opere del diavolo, dicevano, e divulgava idee tali da distrarre i fedeli musulmani dalla preghiera e dalla meditazione. E così, senza la «scatola delle preghiera, cioè la radio, si veniva a spezzare l’unico legame tra il mondo e una massa di persone disperse per grandi lontananze, spesso analfabete, per le quali i giornali non esistevano. Sciahrud è un paese delle Provincie del Caspio, non molto lontano dalla frontiera russa. La paura che segretamente lavora nel cuore dei mullah, la paura di una propaganda comunista importata con la cultura e le nuove idee, voleva in tal modo sopprimere un veleno, senza considerare invece che più pericolosamente aboliva anche il contravveleno, lasciando le genti nella ignoranza più assoluta e rendendole vulnerabili alla prima voce che fosse loro giunta, non importa quale nè in che modo. Questo dissi allo Scià nel corso di un mio colloquio e lo Scià sospirò e rispose : «Sono gli elementi perfidi del mio Paese». Una bella affermazione e piena di coraggio anche se espressa in un colloquio a quattr’occhi, dove, in caso di smentita da parte della Corte, tra un giornalista e lo Scià il giornalista non ha mai ragione. Nel caso particolare, però, i rapporti tra Corte e clero musulmano non erano un mistero: per nessuno. Con la stessa convinzione, ma con minore energia e scarso risultato, il giovane scià, pur parlando a quattr’occhi della potenza di Allah e di visioni celesti, combatte adesso la stessa battaglia iniziata e proseguita dal vecchio Reza Khan. Reza Khan, quale discepolo di Ataturk, considerava il clero musulmano come il più grande ostacolo allo sviluppo sociale e alla occidentalizzazione del Paese; la lotta contro il velo alle donne prese perciò l’aspetto di una vera e propria rivoluzione. La sua inimicizia contro i mujitahed, l’alto clero, non conobbe misericordia. Giunse persino a far mitragliare nella inviolabile moschea di Mesced i perseguitati politici che vi si erano rifugiati e a frustare di persona nell’altra inviolabile moschea di Qum il Gran Mullah che aveva mosso obiezioni all’imperatrice senza velo.
Una rigida osservanza della fede sciita portava all’isolamento dagli altri Paesi circostanti musulmani di fede sunnita, con conseguenze diplomatiche e politiche non trascurabili. I musulmani sciiti considerano tutta la discendenza dei califfi dopo Maometto come usurpatori, con la sola eccezione di Ali suo cugino e genero e dei figli di Ali, fatti assassinare da Oman, il califfo sunnita. Uno scisma, come si vede, generato da un fatto di sangue, che rende le due sette musulmane ostili l’una all’altra quanto due religioni diverse. La Persia è l’unico Paese di religione musulmana in cui fatti di Palestina siano seguiti dall’opinione pubblica con sovrana indifferenza. Anzi, sia vero o no, Mass’ud, il direttore del quotidiano Mard-i Imruz (L’uomo di oggi), trovato misteriosamente ucciso la scorsa primavera per aver pubblicato nel suo giornale troppe rivelazioni esplosive, scrisse addirittura che a Teheran, a Hamadan e a Kermansciah esistevano centri dell’Haganah, e lo stesso Primo ministro Qavvam Sultanè, previ lauti sottomani, aveva firmato passaporti falsi d’immigrazione agli ebrei.
Anche l’insuccesso del patto di Saadabad ha parte delle sue radici nel fattore religioso. I rapporti di buona vicinanza con l’Iraq sono continuamente scossi dalla questione dei luoghi santi – Najaf, Kérbela, Samarrà e Kazimaìn, santuari sciiti in terra sunnita – dove tutti i mujitahed e gli emigrati politici persiani finiscono per rifugiarsi e buttare olio sul fuoco. La posizione persiana di baluardo del panislamismo contro l’invadenza del califfato turco, sostenuta per due secoli dai sovrani saffavidi, si era trasformata nel tempo in un danno. Perciò il matrimonio dell’erede al trono con una principessa egiziana di rito sunnita fu considerato un successo inimmaginabile, un colpo di incredibile audacia che nessuno si sarebbe mai sognato fino a pochi anni prima.
Dopo la morte di Reza Scià, si è fatto un passo indietro. La principessa sunnita, imperatrice di Persia, abbandonato il sovrano tetto coniugale se ne è tornata in Egitto dal fratello. Qum, la sacra città che esporta mullah e importa morti (tutti i fedeli musulmani che pagano fior di quattrini per farsi seppellire lì e volare dritti in Paradiso), gode di abbondante prosperità, popolata di dervisci biancovestiti dal viso grigio di cenere e dalla barba rossa di henne e di una discendenza incredibilmente numerosa della famiglia di Maometto in turbante verde o nero. Girare senza velo per una donna a Qum o a Mesced è un azzardo. Al tempo della caduta dell’ultimo Gabinetto, il Gran Mullah Qasciani, in segno di protesta, ebbe l’autorità di far chiudere il bazar per tre giorni, paralizzando cosi la vita economica della capitale. Dietro i mullah, susurra l’opinione pubblica, sono gli Inglesi che trovano molto più maneggevole un popolo in uno stato di ignoranza. Vi sono, però, molto meno nell’ombra, anche i ricchi proprietari per i quali il Corano, con le sue ben definite leggi a protezione della proprietà privata, rappresenta la più sicura difesa contro il comunismo. Migliori alleati il clero non potrebbe trovare.
In ogni modo si fa un po’ troppo assegnamento su questo scudo. Il fatto che finora non sia scoppiata una rivoluzione è dovuto esclusivamente all’indole del popolo persiano e alla mancanza di organizzazione. Nel Turchestan sovietico, non molto lontano da Sciahrud, dove i mullah proibivano le «scatole delle parole», i turcomanni dimostrano come si possa essere fedeli musulmani e paladini del bolscevismo. Al tempo dei Tudeh, un mullah del Caspio, Lankaranì, andava in giro pagato dal partito a dimostrare sul versetti del Corano come religione e marxismo potessero coincidere. Nello stesso tempo – era la fine del 1945 – un gruppo di mullah dell’Asia Centrale sovietica, diretti in pellegrinaggio alla Mecca, si recò in pompa magna a rendere omaggio ai dignitari sciiti dell’Iran. La via della religione per giungere all’intrigo politico è sempre quella più battuta in Paesi come questi.
Le divisioni confessionali sono ancora più evidenti nelle regioni dell’estremo nord, tra armeni, assiro-caldei, ebrei e musulmani. Non si tratta di vera e propria intolleranza religiosa, nè di spirito nazionalistico, perchè la religione sciita ormai non si identifica più con lo Stato; ma del fatto che gli appartenenti alle differenti religioni agiscono e pensano come esseri completamente estranei l’uno all’altro. E siccome è ovvio che lì dove l’Inghilterra si mette ad appoggiare i musulmani, la Russia dà mano forte ai cristiani e agli ebrei, in tutti i periodi di maggiore torbido alla frontiera, si è avuta una suddivisione quasi automatica dei militanti: e alla fine di ogni guerra mondiale, per queste stesse ragioni, è avvenuto un massacro di cristiani, nella gran maggioranza assiri: nel 1920 come nel 1946.
L’accusa mossa a costoro era di carattere politico; religiose però erano le lontane cause di tali violenze. Perciò la recente visita dello Scià al Papa, la prima che si registri nella storia, e la susseguente promozione del rappresentante del Vaticano a Teheran da incaricato di affari a delegato apostolico hanno un valore più vasto di quanto possa apparire a chi guardi dal di fuori.