Corriere d’informazione, 25 agosto 1948
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Le avventure dei russi in Azerbaijan
TABRIZ, agosto – «Vede – diceva l’ostandar sorridendo dalla sua solenne poltrona di velluto tra un biancheggiare di stucchi e specchiere e il rosseggiante piano fiorito di un tappeto locale – questo lei lo può constatare da sè. In Azerbaijan regna la calma. La popolazione è tranquilla e fedele». I governatori di provincie, gli ostandar, sono delle persone molto gentili, di una gentilezza premurosa e astratta come ben si conviene a rappresentanti di famiglie facoltose con una buona percentuale di fumatori d’oppio. Di solito i governatori di provincia sono un po’ troppo ottimisti in materia, ma nel caso specifico della calma in Azerbaijan non si poteva dire che l’ostandàr avesse torto.
Pisciavari, il capo della cosiddetta repubblica democratica al soldo dei Russi, con il crollo del suo Governo è fuggito nel Caucaso e il Governo sovietico ne ha annunciato quest’anno la morte a ben tre riprese in seguito ad un incidente automobilistico. Qazi Mohamed, il capo della «democratica» repubblica curda di Mohabad, è stato impiccato dai Persiani; solo Mullah Mustafà Barzani, l’altro capo curdo ribelle d’oltre frontiera, dà segni di vita con schermaglie e scaramucce.
La buona propaganda spiega il crollo del regime Pisciavari col fatto che attraverso il comunismo, aveva tentato di sopprimere due sentimenti fortemente radicati nell’animo del popolo: il sentimento religioso e il sentimento nazionalistico. Praticamente – dicono – se Pisciavari non avesse tentato di strappare in un colpo solo quell’alimento spirituale atto a tenere in piedi della povera gente che ha appena di che vivere, e non avesse dimostrato di essere prima comunista e poi del proprio Paese – il che è l’errore di tutti i comunisti — avrebbe certo avuto migliori possibilità di riuscita. La seconda considerazione ebbe per conseguenza anche un altro passo falso, o almeno arrischiato. Pisciavari era un uomo pieno di fascino, di zelo e di convinzione: credeva in quello che faceva e lottava per il progresso di un Paese le cui condizioni economiche e sociali non sono certo molto avanzate. Per il progresso del Paese organizzò dei servizi del lavoro, mise gli Azerbaijani sotto il torchio di una discipl’na che non aveva nulla da invidiare a quella delle SS e dimenticò completamente che i Persiani, anche se dell’Azerbaijan, preferiscono morire di I fame nei loro giardini fioriti declamando versi di Hafiz piuttosto che vivere più o meno bene in un’implacabile vita meccanizzata. Nel suo zelo fece però anche delle cose giuste: furono asfaltate strade e costruiti ponti. Divise le terre tra i contadini, il che in un Paese dove il settanta per cento delle terre coltivate appartiene ai latifondisti, doveva avere un effetto portentoso. Purtroppo, però, le divise irrazionalmente senza dare ai contadini le sementi o sussidiare l’irrigazione – cose a cui di solito provvede il padrone – e i contadini, poveri in canna, possessori di quelle terre non seppero che cosa farsene. Naturalmente, non appena seppe che in Azerbaijan le terre erano state divise, Qavvam Saltanè promise la stessa ’cosa a tutti i contadini dell’ Iran – una promessa che è andata a finire dove vanno a finire tutte le promesse di Qavvam Saltanè – organizzò dei sindacati, continuò a montare il partito Tudeh, e invitò Pisciavarì a Teheran per discutere delle elezioni per l’autonomia della nuova repubblica democratica Azerbaijana. Pisciavarì, ospite di un famoso capitalista di Teheran, un certo Arbab Melidi, venne letteralmente soffocato da una serie di ricevimenti nei quali non si faceva altro che mangiare e scambiarsi complimentose frasi di ammirazione, e non riuscì a concludere niente di positivo. Ritornato a Tabriz con al suo attivo una sola sorridente affermazione di Qavvam Saltanè: «Rientrate, riunite i consigli provinciali e parlamentari e quindi vedremo», si accorse della figura che ci aveva fatto, e finalmente proclamò un Governo e un Parlamento autonomi. Proprio in quel momento scoppiò la rivolta delle tribù Qasqai nel Sud, intorno a Shiraz. Anche i qasqai chiedevano la loro autonomia. «Con il cuore spezzato bisogna adoperare la maniera forte — dichiarò Qavvam Saltanè allo stato maggiore – altrimenti tutto il Paese ci va in pezzi». Truppe rogolari partirono a domare i ribelli e ogni giorno bollettini di guerra informavano il Paese dell’esito di sanguinose battaglie. In verità non vi furono in tutto che tre morti e alcuni sacchi di zucchero bruciati, ma nel frattempo le elezioni in Azerbaijan non poterono aver luogo, ed era proprio quello che Qavvam Saltanè voleva. I qasqai rappresentavano un’altra delle sue pedine, come e peggio dei tudeh. Ma i Russi non volevano passare troppo per ingenui. In piena forma ufficiale, Sadchikov, ambasciatore dei Sovietici presso il Governo di Teheran, dichiarò allora che un nuovo rinvio delle elezioni avrebbe significato una infrazione piena agli accordi di Mosca. In Parlamento ne perorava la causa una cinquantina di deputati su centotrenta, imposti dai Russi. Qavvam Saltanè sorrise e disse che lui era d’accordo, ma, a salvaguardare l’ordine nel- Paese, bisognava che le elezioni fossero controllate dalle truppe iraniane. Gli Azerbaijani sono iraniani, bastano le truppe che abbiamo, gli fu risposto da parte del Governo democratico di Pisciavarì. Sì, ma i generali debbono venire da Teheran, obiettò Qavvam Saitanè. I generali intanto non giungevano, le discussioni si protraevano per mesi. E la situazione intemazionale mutava. Quando finalmente, nel marzo dolio scorso anno, le truppe iraniane marciarono in Azerbaijan, non trovarono alla difesa del famoso passo di Ghaflam Kuh, che si sarebbe potuto tenere con una mitragliatrice, nemmeno un uomo. Pisciavari e il suo Governo in piena rotta avevano abbandonato il campo. Gli Azerbaijani, nell’intermezzo, per darsi un contegno, spararono tre giorni di seguito ai corvi e ai pali telegrafici, poi accolsero le truppe osannando. La Russia mollava il Governo da lei organizzato. Lo mollava per le stesse ragioni che l’avevano spinta al ritiro delle sue truppe. Forti pressioni dall’esterno in un momento per lei ancora incerto, desiderio — allora – di un accomodamento per reciproche compensazioni con l’America, promessa, direbbero persino, di mano libera in Romania; e infine ciò che prima era un miraggio e ora diveniva una realtà: un atto di concessione per i terreni petroliferi del Nord con tanto di firma di Qavvam Saltanè. Si sa che cosa rappresentasse poi questa realtà al momento opportuno. Qavvam Saltanè, ben arricchito e condannato per truffa, partiva per Parigi con la sua nipotini e il Paramento dichiarava non valido un atto deciso e firmato da un uomo deposto e non ratificato dai membri di un organo costituzionale. Così finiva l’avventura della Russia in Azerbaijan.