2 gennaio 1980
Il dinaro in calo, piccola crisi a Trieste
«TRIESTE — Ufficialmente la Banca centrale di Belgrado non ha svalutato il dinaro. Ma la moneta jugoslava ha subito ugualmente un brusco scivolone. Una decina di giorni fa veniva cambiata a 36-37 lire, ieri dalle 30 alle 33 lire. E sull’onda delle voci che danno per imminente una svalutazione ufficiale nessuno si azzarda a fare previsioni su quanto potrà valere oggi o la prossima settimana. Il dinaro, infatti, è una moneta a circolazione locale, negoziata prevalentemente nei Paesi direttamente interessati agli scambi commerciali con la Jugoslavia. Ciò significa che non ha oscillazioni stabili, che il cambio (contrariamente alla lira, legata al serpente monetario europeo) è determinato soltanto dalla domanda e dall’offerta. A quanto pare, in questi ultimi giorni la Banca centrale jugoslava non è intervenuta sul mercato per sostenere la moneta. Cosi le quotazioni sono cadute. All’Ufficio cambi della stazione ferroviaria triestina, per esemplo, è stato valutato 31 lire, alla Banca nazionale del lavoro 30, alla Commerciale 32, alla Cassa di Risparmio 33. Le quotazioni degli istituti di credito sono, comunque, soltanto indicative, le vere quotazioni del dinaro le fa il mercato di piazza Ponte Rosso. È qui, in questa piazzetta nel cuore di Trieste, davanti alla Banca nazionale del lavoro, che ormai da anni sorge il vero centro dell’interscambio italo-jugoslavo. All’apparenza sembra un normale mercato rionale: una quarantina di bancarelle, stipate di vestiti a basso i prezzo, una folla rumorosa in perenne movimento. Si espone, si contratta, si vende e, soprattutto, si cambia. I clienti fissi sono nella stragrande maggioranza jugoslavi; ma non mancano i turchi, gli africani che studiano nelle università slave, i bulgari. Tutti, solitamente, contrattano in dinari, comprano jeans, giubbotti, maglioni, gonne, stivaletti. E poi bambole dalle parrucche bionde e dai vestiti di tulle rosa, souvenlrs veneziani (una gondola con luci e rifrangenti, 120 dinari), ombrelli coloratissimi, animali di pelouche» (leggi qui l’articolo di Giuseppe D’Adda)