Corriere della Sera, 4 febbraio 1979
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Concordato, cronaca di un giorno (11 febbraio 1929)
Le automobili arrivano verso mezzogiorno, nere, lucide sotto la pioggia. Breve corteo, qualche poliziotto in motocicletta, scarsa pompa. Il tratto di piazza davanti a Palazzo Laterano è tenuto sgombro dai vigili. Una folla fitta ma silenziosa aspetta in piedi, sotto ombrelli gocciolanti. Ci sono donne con la borsa della spesa. Scende per primo Mussolini, agilmente. Indossa uno dei bizzarri abiti che inventa secondo le circostanze (il generale Carboni, nell’unica occasione in cui lo vide sobriamente vestito di grigio, se ne meravigliò assai: di solito, scrisse, veste come un direttore di circo equestre). Stavolta ha una specie di redingote nera, camicia con colletto inamidato a punte rovesciate, cravattone, distintivo del partito all’occhiello. Niente cappotto. Non si addice al «principe della gioventù», quale vuole apparire nell’immagine pubblica di sé. Lo seguono, in fretta, un signore dall’aria austera e due giovanotti un po’ strizzati nei panni di cerimonia. Sono il ministro della giustizia Alfredo Rocco e i sottosegretari agli esteri, Dino Grandi, e agli interni, Francesco Giunta. Salgono di corsa lo scalone, gli tengono dietro funzionari affannati. Nel salone d’onore c’è un tavolo coperto di panno rosso, con i soliti calamai barocchi delle grandi occasioni di Stato. Non se ne serve nessuno. Siedono, fianco a fianco, Mussolini e il cardinale segretario di Stato, Pietro Gasparri, da qualche istante in attesa con il cardinale Pizzardo e con il nunzio Borgoncini Duca, oltre a un borghese secco, deferentisslmo, l’avvocato Francesco Pacelli, fratello del futuro papa Pio XII. Sul tavolo stanno già i documenti, le carte, le mappe. Quando Mussolini e Gasparri firmano, scatta una fotografia rimasta storica. Li mostra chini, il volto tra grave e lieto, alle loro spalle lo zelante avvocato Pacelli con il tampone in mano, a destra Grandi che con un dito tien fermo il cartiglio a Mussolini. La pace tra lo Stato italiano e la Chiesa viene conclusa cosi, dopo sessant’anni. I patti sottoscritti, dal nome del palazzo, si chiameranno Lateranensi.
Fu l’anno del gran gelo, del freddo record. Se ne parla ancora, in termini di paragone apocalittici: il 1929, quando i lastroni di ghiaccio navigavano sul Po, quando a Venezia si pattinava in laguna, quando le fontane sembravano piramidi di cristallo, quando la gente cadeva assiderata per strada... L’undici febbraio, però, a Roma il termometro segna cinque gradi soprazero, nulla di drammatico, solo una giornata uggiosa e grigia sotto una pioggia continua. Ma a Vienna si è a meno trentotto, a Praga a meno trentacinque, a Varsavia a meno cinquantadue, a Berlino a meno trentanove e si è dovuto annullare il viaggio inaugurale del dirigibile Zeppelin. A Mosca le uova si spaccano per il gelo e i soldati distribuiscono nelle strade tè caldo ai passanti. In Italia meno sei a Milano, meno quindici a Brescia, meno dieci a Venezia. Neve dovunque. L’Europa è stretta nella morsa di un freddo che sembra una condanna biblica. L’anno passò alla storia per quell’immenso brivido che lo contraddistinse.
Nel salone fa caldo e i porporati sudano un poco, negli ampi mantelli scarlatti. Per leggere le sue credenziali Gasparri si alza faticosamente. È emozionato, ha settantasette anni e alle spalle una vita densa di esperienze e di prestigio. Mussolini lo prega di rimanere seduto, il cardinale ringrazia e tenta di continuare la lettura: ma la voce gli si rompe e allora prosegue Borgoncini Duca. Dopo la firma Gasparri dona al duce la penna stilografica d’oro che hanno usato, come ricordo. Il papa gli regalerà invece una grande medaglia d’oro commemorativa; ma, venuta la guerra d’Etiopia e l’offerta dell’oro alla patria, il duce la manderà alla Banca d’Italia con tutto il suo medagliere, perché sia fusa. Allora scopriranno, con delusa amarezza, che non era d’oro vero. Una patacca. Mussolini tiene il discorso di circostanza. Parla per quaranta minuti, gli altri lo ascoltano compunti. È intimamente quasi ebbro d’orgoglio, consapevole del successo politico conseguito, tale da colmare d’un solo colpo il fossato apertosi tra il fascismo e il paese dopo il delitto Matteotti. Di fronte a sé ha l’interlocutore ideale, al cui appoggio si deve se i patti sono giunti in porto. Dirà il duce al suo segretario: «Il fatto è che abbiamo entrambi la mentalità del contadino». Gasparri gli è sempre piaciuto. E al cardinale è piaciuto il fascismo, al punto da preferirlo al Partito popolare, da favorire un movimento cattolico filofascista di Egilberto Martire per mettere i bastoni tra le ruote a don Sturzo, da auspicare l’uscita dalla scena politica del sacerdote siciliano. Con Mussolini si è incontrato fin dal 1923, in casa del senatore Santucci, in via del Gesù, entrando ciascuno da un diverso portone del palazzo. Dopo la firma dei Patti, il duce farà avere al cardinale il collare dell’Annunziata che lo rende cugino del re e nel 1933, un anno prima della morte, gli darà la feluca di accademico d’Italia: quasi a compensarlo del licenziamento dalla carica di segretario di Stato di Pio XI, deluso dai rapporti tra Stato e Chiesa proprio in conseguenza di quel Concordato che Gasparri aveva prospettato come una panacea.
Gasparri è un marchigiano, figlio di un pastore di greggi, ultimo di dieci figli. Nasce a Capovallazza di Ussita, provincia di Macerata, diocesi di Norcia. Al censimento del 1951 Capovallazza fa registrare 15 abitanti. Figurarsi quanti dovevano essere nel 1852, quando viene al mondo il futuro cardinale: forse due case, un paio di famiglie, e le bestie. Ha fatto carriera controvoglia, sperava di restar prete. Ma era troppo colto, di arti diplomatiche sottili, e cosi è salito fino al vertice. Con papa Sarto non si «fiutavano»: diversi in tutto. Con Benedetto XV è diventato segretario di Stato. Pio XI lo ha confermato e in conclave anche lui aveva avuto molti voti. È un bell’uomo dal volto pieno e fine, la figura robusta. A trattare con Mussolini si è sempre mostrato disponibile; i contatti veri e propri cominciano l’otto agosto 1926, con un colloquio tra il consigliere di Stato Domenico Barone, napoletano, delegato di Mussolini, e l’avvocato Pacelli, designato da Gasparri. Li ha fatti incontrare un prelato vaticano, monsignor Haver. L’operazione diplomatica è cominciata così.
Quando Mussolini esce dal Laterano, la folla scoppia in applausi lunghi, intensi. Continua a piovere. Le auto partono tra grida di evviva. Nello stesso momento il papa tiene udienza quaresimale in San Pietro ai parroci di Roma: sapranno cos’è avvenuto proprio dalla voce di Pio XI. Per la prima volta l’Osservatore Romano esce senza la frase «Non praevalebunt», non prevarranno, sotto la testata, come avveniva dall’entrata degli Italiani a Roma. E intanto tutta la città si copre di bandiere tricolori e bianco-gialle, un corteo muove verso il Quirinale per una dimostrazione al re che si affaccia al balcone, poi si-dirige in piazza Colonna a invocare Mussolini. Infine un solenne Te Deum di ringraziamento in San Pietro, con gli ufficiali dell’esercito italiano autorizzati ad entrare nel tempio in divisa, segno della rivoluzione compiutasi in un giorno. La sera, sfarzoso ricevimento a palazzo Colonna. Marcantonio Colonna, assistente al soglio, apre i suoi saloni non solo alla nobiltà nera, ma anche a quella sabauda. I valletti accolgono gli ospiti tenendo alte nel buio notturno le fiaccole. Sfilano Gasparri, sorridente, con in petto la croce d’oro e brillanti che gli è stata appena data in premio da Pio XI (a Pizzardo e a Pacelli il papa donerà orologi d’oro), Pizzardo, il cardinale decano Vannutelli, il governatore di Roma principe Boncompagnl Ludovisi.
Non c’è Mussolini. Da casa sta chiamando al telefono la moglie che vive a Milano con i figli, in via Mario Pagano. Quella sera a trovare Rachele e a far festa è accorso un francescano amico, padre Facchinetti, che ha sentito la notizia alla radio. Porta un panettone e due bottiglie di spumante. La moglie del duce sta cucinando una minestra di riso per il piccolo Romano, in attesa sul seggiolone; tra i piedi, scodinzola il gatto di casa, Pippo. Rachele sa e non sa, il marito qualcosa le ha detto, ma non molto. Squilla il telefono, è Mussolini, raggiante, che vuol raccontare alla moglie la storica giornata; poi afferra l’apparecchio il frate e dice: «Siate contento di aver ottenuto questa vittoria in un problema invano affrontato da uomini come Cavour e da santi come Giovanni Bosco». Dall’altro capo del filo, un silenzio soddisfatto.
Gli ultimi contatti per il trattato li ha tenuti Mussolini, personalmente. Il 4 gennaio, a un mese dalla conclusione, Barone è morto. Allora il duce ha deciso di procedere da solo. Stava di casa in via Rasella, in un appartamento del palazzo di proprietà del senatore Tittoni. Liquidato il vecchio cameriere autista Cirillo Tambara, s’era preso una domestica umbra, Cesira Carrocci, poi rimasta a servizio fino agli ultimi giorni di Salò (e sarà lei la Cesira, la sera del 26 luglio, a rivelare all’ignara Rachele il legame di suo marito con la Petacci). Cenava, suonava un po’ il violino. Gli piaceva una languida canzone di moda, «Ramona». Federzoni, una volta che andò in visita, salendo le scale si fermò perplesso, udendo quella musica. Allora non era Haydn, non era Ciaikowsky che suonava, come andava dicendo. Una sera Mussolini aveva a cena una giovane donna che veniva spesso a tenergli compagnia, la nipote Rosetta, sposata da poco, figlia di sua sorella Edvige. Stanno mangiando quando entra la Cesira e informa che di là ci sono «quel signori». Lui si alza di scatto, manda la nipote nella camera accanto, il guardaroba. La richiama un’ora dopo, eccitato, rosso in volto. Le chiede a bruciapelo: «Sai cos’è la questione romana?». Rosetta tenta di rispondere, quasi desse un esame a scuola. Lo zio non ha pazienza di ascoltarla, non si trattiene, rivela il grande segreto: lui, Mussolini da Predappio, è riuscito a risolvere un problema che aveva visto fallire i maggiori statisti italiani, da Cavour in poi. Ed è cosi che la prima a sapere dell’imminente firma del Patti è una giovane donna venuta a mangiare con lui un piatto di «passatelli», perché non passasse la sera da solo.
Nel libro scritto dalla sorella Edvige si legge che, nella solennità del momento, Mussolini disse alla nipote: «I prossimi patti tra lo Stato italiano e la Santa Sede saranno stipulati nel nome della Santissima Trinità. Quando leggerai questo sui giornali, ricordati del segno della Croce che mia madre mi tracciava sul capo ogni sera, mentre io bambino mi addormentavo nella nostra povera casa di Dovia». Sarà vero? La frase non ha l’aria di essere di quelle che gli uscivano di bocca, ma passiamogliela; in quell’occasione è possibile che si sentisse perfino credente. Tuttavia non ci cascava sua moglie che, quando lui le raccontò della sua visita al papa, lo interruppe ironicamente per chiedergli: «Allora, gli hai anche baciato la pantofola?». Certo, di passi per entrare nelle buone grazie del Vaticano ne ha fatti, dopo aver preso il potere. Vuole proporsi come «defensor fidei», conquistarsi i cattolici. Ha rimesso il crocifisso nelle scuole e nei tribunali, ha reso obbligatorio l’insegnamento religioso, ha esonerato i seminaristi dal servizio militare, ha voluto cappellani nell’esercito e nella milizia, ha sciolto la massoneria, ha riconosciuto l’Università cattolica, ha aumentato il contributo dello Stato alla Chiesa. A Roma, città «sacra», ha chiuso 53 bordelli e un centinaio di osterie. Ha fatto di più, una mossa clamorosa: ha sposato in chiesa Rachele, che da buon socialista romagnolo s’era portata in casa d’imperio e amen, senza nemmeno chiedersi se era contenta, perché i proletari dell’epoca non si preoccupavano del femminismo.
Con Gasparri si è inteso fin dal primo istante. Dicono che gli abbia assicurato di far approvare l’eventuale concordato dalla Camera. L’altro avrebbe manifestato qualche perplessità, e lui allora: «Camblerò la Camera». Replicò il cardinale che le cose non sarebbero forse mutate di molto, perché la nuova Camera avrebbe potuto condursi come la prima. E Mussolini, nel suo disprezzo assoluto per la democrazia e i suoi istituti: «Vorrà dire che camblerò la legge elettorale». Insomma, faceva e disfaceva a suo piacere. Infatti (come accadrà anni dopo, quando deciderà l’entrata in guerra dell’Italia senza informare il parlamento) anche adesso si comporta nello stesso modo: dà notizia della firma dei Patti lateranensi al Gran consiglio soltanto il 25 febbraio. Ma l’undici sono tutti contenti. Il papa esce sul balcone di San Pietro e benedice la folla delirante, dopo sessant’annl di volontaria clausura. Il 12 celebra lui stesso una Messa solenne, presenti le autorità italiane, tranne Mussolini; ma vestita di nero, in primissima fila, i grandi occhi cosi simili a quelli del padre, c’è Edda, la figlia prediletta. Il Corriere dà conto dell’avvenimento con una splendida cronaca di Orio Vergani, il suo giornalista principe. Il solerte avvocato Pacelli tiene nota di tutto quanto gli accade durante i giorni memorabili della sua mediazione di delegato papale. Più tardi scrive: «Mi recavo qualche volta nel pomeriggio, più spesso alla sera, nell’abitazione privata del capo del governo a via Rasella. I colloqui iniziavano alle ventuno e talvolta si prolungavano fino all’una di notte. Io guardavo con infinita ammirazione l’uomo che mi stava di fronte, e per il quale né il giorno né la notte portavano mai riposo, ma solo un continuo appassionato lavoro al servizio della nazione ... ».
Il re, laico irriducibile, non è stato tanto d’accordo, ma ha finito con l’accettare i Patti. C’è anche qualcuno che ha mugugnato: i futuristi, i vecchi fascisti massoni come Balbo, Farinacci, Arpinati, il filosofo Gentile e lo storico Volpe, entrambi formati nella tradizione liberale. D’Annunzio, chiuso nel suo eremo di Gardone, si mostra completamente estraneo, la questione non gli interessa. In Senato, al momento della ratifica, ci sono sei no coraggiosi: quelli di Croce, Albertlni, Bergamini, Ruffini, Paternò e Sinibaldi. Nel generale tripudio, le loro sembreranno voci di fantasmi. Non ha appena detto, il papa, che la pace religiosa è stata raggiunta «grazie alla genialità dell’uomo mandato dalla Divina Provvidenza»? Non piovono sull’Italia, da ogni parte del mondo, gli elogi e il compiacimento di amici e avversari? Non vi è, tra i telegrammi gratulatori inviati al duce, anche quello del borgomastro di Colonia, che ha un nome destinato a un grande futuro democratico, Konrad Adenauer? Non è stato il re a chiamare il duce a Villa Savoia per offrirgli qualsiasi riconoscimento, qualsiasi titolo? E non si è sentito rispondere, orgogliosamente, con la frase del maresciallo di Rohan: «Roi ne puis, prince ne daigne, Rohan suis-je», re non posso, principe non mi degno, io sono Rohan? Solo Ernesto Rossi scriverà che i Patti erano «un’alleanza tra il manganello e l’aspersorio».
C’è anche chi non crede che il trattato sia materialmente possibile. Per esemplo Nitti, il quale dichiara il 5 febbraio che «non risponde alle tradizioni del Vaticano entrare in accordi con podestà politiche instabili ... La Chiesa non rinuncerà mai teoricamente a nessuno dei suoi diritti. Figurarsi se vorrà dichiararsi acquiescente ad un fatto che le restituisce il patrimonio di San Pietro nei limiti embrionali di uno staterello, buono tutt’al più per accogliere una bisca alla Montecarlo». Ma il giorno 7 Gasparri, improvvisamente, annuncia l’accordo raggiunto ai diplomatici stranieri: e si frega le mani come se fosse freddoloso, mentre invece non sa trattenere il proprio giubilo. Qualcuno gli domanda come deve essere intesa la notizia, e lui: «Interpretatela come volete. Non ho altro da dire». Insomma, dicono a Bologna, Nitti «non ci ha preso»