Corriere della Sera, 11 febbraio 1979
Tags : Criminalità organizzata • Cronaca • Girolamo Piromalli • ’Ndrangheta
Biografia di Girolamo Piromalli
Con lui se n’è andato forse il boss dei boss. «La vecchia ’ndrangheta sta morendo», dicono a Reggio Calabria. «Con don Momo è un’altra tessera dell’antico mosaico che sparisce». Don Momo è Girolamo Piromalli, 61 anni, sposato, due figli, da tempo considerato il capo indiscusso della piana di Gioia Tauro. Qualunque affare doveva avere il suo imprimatur, anche se a concluderlo era un altro «pezzo da novanta» della mafia calabrese. Si racconta, ad esemplo, che quando nel 1975 due agenti, camuffati da contrabbandieri, riuscirono a prendere contatti con un notissimo boss – il famigerato Saverio Mammoliti – questi gli rispose: «Prima di impegnarmi e vendervi la droga, debbo sentire il mio padrone, don Momo Piromalli». Sebbene malato da oltre due anni, ricoverato a Messina per una gravissima forma di cirrosi epatica, Piromalli rimaneva il padrino a cui bisognava ubbidire ciecamente. Dal suo letto sistemato in una corsia dell’ospedale Piemonte dettava ordini, riceveva i fedelissimi, componeva liti sorte fra le varie cosche. Non si muoveva paglia senza il suo beneplacito. Appalti, sub-appalti, armi, contrabbando, droga: don Momo non era rimasto al palo come i coetanei. Si era assuefatto ai tempi, aveva capito al volo che il mondo cambiava e con il progresso doveva mutare anche il volto della mafia. A Gioia Tauro, il «pacchetto Colombo» aveva deciso nel 1970 di costruire il quinto centro siderurgico: un affare di decine di miliardi a cui la ’ndrangheta non doveva rinunciare. Le mani dei mafiosi si affondarono prepotentemente nel giro degli appalti. Non si spostava un pietra senza il parere positivo dei potentati. Chi c’era alle spalle di costoro? «Don Momo», rispondono sicuri gli esperti. «A Gioia Tauro, Il padrone assoluto era lui. Se qualcuno aveva da protestare, poteva cominciare a contare i giorni che gli restavano da vivere».
Don Momo, insomma, si era adeguato anche ai nuovi mezzi dei «picciotti»: se loro erano violenti, perché desiderosi di far carriera in fretta, lui rispondeva raddoppiando il cinismo, la crudeltà, la freddezza. Il tribunale della mafia emetteva la sentenza di condanna e in un «amen» il contestatore moriva dinanzi a decine di testimoni. Di modo che gli altri potessero pensarci due volte prima di recriminare.
Era nato commerciante d’agrumi: una vita grama, fatta di stenti, simile a quella di altre decine di migliaia di persone che vivono in questo lembo di terra. Don Momo aveva idee diverse: ricchezza e benessere, ecco il suo traguardo. La «vecchia e onorata società» sembrava fatta apposta per lui. Voleva emergere, non gli importava come e con quali mezzi. Coraggio ne aveva da vendere. Lo dimostrò il 27 dicembre del 1950 quando, ferito da un rivale, riuscì ad estrarre la pistola ed ad ucciderlo in mezzo alla strada.
Dieci anni di galera, otto di soggiorno obbligato. Malgrado queste restrizioni, don Momo non si era «ritirato». Lo accusarono anche di essere il mandante del rapimento di Paul Getty junior, o capo dell’Anonima sequestri. Si difese, la magistratura gli dette ragione. «Con i sequestri, io non c’entro. Mi fanno schifo i responsabili», esclamò un giorno. Negava tutto, anche l’esistenza della mafia. «Io non lo sono, va bene? E sfido chiunque a dimostrarmi il contrario», diceva ai giornalisti. «Sapete qual è la verità? La povera gente che ho sempre aiutato, mi vuole bene. Ed allora, nascono le invidie e le maldicenze». Ed ora? Il regno è vacante, si è aperta la successione. Nasceranno conflitti, ci saranno omicidi a catena per ottenere il primato? Probabilmente no. Perché l’erede era già stato nominato ancor prima che don Momo spirasse. È il fratello Giuseppe, che si nasconde da tempo nel mille misteriosi anfratti dell’Aspromonte. È furbo, violento. Senz’altro più cinico e più spietato dell’ex boss del boss.