Corriere della Sera, 9 dicembre 1979
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Biografia di Giorgio Valerio
Giorgio Valerio, Milano 1904 – Milano 8 dicembre 1979. Il Napoleone di Foro Bonaparte era diventato il pensionato di via Gesù. Esiliato nell’appartamento di dieci stanze, al numero 9, con il salotto di velluto rosso. E le lunghe ore sprofondato nella poltrona dello studio, a leggere opere storiche, l’ultima passione che gli restava. La tormenta dei fondi neri Montedison, le pesanti imputazioni di appropriazione indebita, falso in bilancio, frode, il passaporto ritirato, il processo, lo avevano reso ancora più schivo e solitario. Anche la passeggiata al tramonto apparteneva a una stagione dimenticata. Gli sguardi della gente lo infastidivano, la conversazione dei conoscenti lo annoiava. «Amo stare con me stesso e con la mia famiglia...».
Amici, forse, non ne aveva mai avuti. Neppure la cornice dell’ufficialità riusciva a scuotere il suo isolamento. Affiorano immagini, che fanno parte dell’aneddotica. Era il 1963, e Giorgio Valerio era un potente della Terra. Si cominciava a parlare delle regioni, e la CEE organizzò a Bruxelles un convegno sulle autonomie regionali. Dall’Italia partì una delegazione. Ministri, sottosegretari, capitani d’industria e grossi finanzieri. Una sala sfavillante di luci, auguri, brindisi, strette di mano. Valerio restò in un angolo, a rincorrere i pensieri e a giocare con il regolo che portava sempre in tasca.
Per rispetto verso un ospite illustre, qualcuno gli si avvicinò: un sorriso, una.parola, che non andò oltre la pura cortesia. Si trasferirono tutti a tavola per il pranzo, e il ministro Pastore, sapendo che Valerio era uno sportivo, rispolverò le sue vaghe cognizioni sul calcio e sulla geometria del pallone. Erano gli anni dell’Inter europea e dominatrice. Pastore tentò di aprire una breccia nel muro di silenzio e si rivolse a Valerio: «Fortunati voi che avete una squadra cosi forte e che, pure nello sport, potete contare su un’altra Scala». Valerio, un po’ irritato: «Macché Inter e Inter, io sono del Milan...». Si dice sia l’unica frase che Valerio abbia pronunciato a Bruxelles.
Un’altra volta, era con la moglie Vivian nella villa di Somma Lombardo. Una giovane coppia di sposi andò a far visita al parente importante. Erano ragazzi timidi, imbarazzati di fronte alla tovaglia ricamata e al cameriere in guanti bianchi. Per più di un’ora Valerio non apri bocca, non fece un gesto, né di assenso, né di dissenso. Poi, d’improvviso, preso come da un raptus, tirò fuori la penna e si mise a scrivere sulla tovaglia numeri e operazioni. Vivian si senti in dovere di dare una spiegazione agli sposini, che osservavano sorpresi. «Giorgio non si accorge di nessuno... lui conversa solo con il regolo calcolatore». La precisione era una mania. Raccontano che il giorno più cupo fu quando la guardia di finanza bussò al portone di via Gesù. Nel suo studio privato, cosi come nell’ufficio in Foro Bonaparte, mai un foglio di carta era fuori posto. Scrivanie spolverate, portacenere lucidi, matite affilate, appunti tenuti con la precisione di un archivista. La guardia di finanza frugò nei cassetti, tolse i libri dagli scaffali, aprì la corrispondenza, fece cadere incartamenti che finirono sul tappeto e sotto il divano. Quando i militi andarono via, Valerlo non si preoccupò tanto per quello che avessere trovato, quanto di rimettere tutto in ordine, e subito.
Veniva da una ricca famiglia lombarda. Madre ebrea, istltutrice tedesca, educazione austera, inclinazione a una raffinatezza di stampo anglosassone. Amava il nuoto, la scherma, la caccia, il tennis, ma soprattutto i cavalli, e Loreto era il baio prediletto, dalla falcata sciolta, che lui seguiva con il binocolo dalla tribuna di San Siro. Palco alla Scala, non più di due volte l’anno al cinematografo, odiava il gioco d’azzardo, perché «è irrazionale per una mente logica e matematica». Avaro, ma considerava la sua avarizia quasi prodigalità di fronte all’avarizia di Pirelli. Inflessibile. Gelido. Generoso verso i fedeli e i sottoposti, e verso gli ebrei della Edison che aiutò molto durante le persecuzioni razziali. Chiuso. Riservato. Secondo alcuni, anche ingenuo. Incapace di emozioni. L’unica volta che ebbe un gesto emotivo fu all’inaugurazione della centrale nucleare di Trino Vercellese. Valerio ne fu
paladino e assertore, ma la cerimonia ormai segnava la resa dei privati e la consegna dell’impianto allo Stato. Mentre il sottosegretario Valsecchi pronunciava il discorso, Valerio abbassò gli occhi e fu fra i primi ad allontanarsi.
Laureato al Politecnico, entrò nella Edison a ventidue anni, nel 1926. «Cominciai per caso, il 21 settembre. Me lo ricordo benissimo, perché il giorno prima gli uffici erano chiusi. In quegli anni, il 20 settembre si faceva ancora festa. Avevo ottenuto la laurea in ingegneria elettronica da appena otto giorni e aspettavo di sostenere l’esame di abilitazione a Torino. MI presentai come volontario, e perciò con stipendio ’zero’. Io però volevo andare in America, la mia idea era di lavorare laggiù. Mi diedero da calcolare tutte le tubazioni della supercentrale di Genova, la Concenter. Poi feci l’esame di Stato e mi preparai a varcare l’Atlantico. Ma l’onorevole Giacinto Motta, che era consigliere delegato della Edison, mi disse: ’Che cosa vuole andare a fare in America? Noi stiamo costruendo la centrale più moderna del mondo... ’. E, allora restai».
Il suo orgoglio è stato di aver sempre lavorato per la Edison. «In tutta la vita, una sola società». Una carriera folgorante, dal gradino più basso al vertice. Vicedirettore commerciale, direttore amministrativo, direttore generale a trentotto anni, amministratore delegato, presidente. Ambizioso, tenace, grande manovratore nell’aggregazione e nella disaggregazione di capitali, finanziere di indubbie capacità, più che imprenditore in grado di capire i tempi e di guardare al domani. Erano gli anni in cui le azioni della Edison erano la «rendita ambrosiana». Dividendi puntuali, sicuri, la Edison era come una banca. Non c’erano rivendicazioni e non c’era tensione nel mondo del lavoro. Valerio interpretò un ruolo di leader autocrate, si identificò nella società e la società ebbe in lui il custode di ogni segreto. La Edison era Giorgio Valerlo, che decideva, convocava, premiava e puniva, senza che nessuno, o quasi nessuno, sapesse niente.
Conservatore convinto, rimproverò a Valletta il «sinistrismo» della Stampa, il giornale della Fiat. Scrisse a Valletta: «La linea del tuo giornale è uguale a quella dell’Unità.» E Valletta: «Non hai capito nulla. Desidero che la Stampa sia cosi perché la leggano i miei operai, i quali, altrimenti, leggerebbero l’Unità». Ci fu la nazionalizzazione dell’energia elettrica, che Valerio definì «una calamità». Ma
giunse il massimo della potenza proprio con il trasferimento delle centrali allo Stato. Nelle casse della Edison arrivarono indennizzi per cinquecento miliardi, che dovevano essere investiti. Valerio puntò ai settori più diversi: dagli alimentari, all’abbigliamento, dai grandi magazzini al cemento, dai garages alle navi, dall’edilizia agli autogrill, dalle miniere ai farmaceutici. E fu in questa stagione che venne chiamato il Napoleone di Foro Bonaparte. Poi la fusione con la Montecatini, la lotta con Carlo Faina, le congiure di palazzo. E Valerio che piegò gli avversari e fu presidente della Montedlson.
Le nuove dimensioni della società, però, portarono contestazione, fronde, faide e manovre di clan. Era uno scontro di metodi, di strategie, e anche di mentalità. Contro Valerio si schierarono i rappresentanti della mano pubblica – IRI ed ENI – e quelli delle imprese private (Pirelli, Bastogi, Fiat, Mediobanca), che entrarono nella Montedlson. E si dellnearono varie opposizioni di piccoli azionisti. In una notte di lunghi coltelli, Cefis dette l’ultimatum a Valerio: «Ha dieci minuti di tempo per dimettersi...» Valerio si chiuse nel suo ufficio, con i quadri d’autore e i lampadari neoclassici. Si abbandonò sulla sedia a dondolo di pelle nera, strinse nelle mani il regolo e poi uscì per sempre da Foro Bonaparte. Era il 21 aprile 1970.
Il successore fu Cesare Merzagora, ex presidente del Senato. E Valerio gli chiese un colloquio riservato. Si presentò nell’appartamento che Merzagora aveva all’hotel Gallia, con quattro sacchetti di carta in mano. Uno grande, tre piccoli. Dentro, le matrici degli assegni e i libretti dei fondi neri. Nomi fantasiosi: Fagiano, Stellina, Luccio, Scricciolo, Filiberto. Nascondevano i volti dei politici che, per quattordici anni, dal 1958 al 1970, avevano preso oboli, buste e tangenti. «C’erano tutti i partiti, tranne il PCI», raccontò Valerlo al magistrato. E senza reticenza, rivelò dettagli e consegnò pacchi di documenti. Una vendetta? Un modo di essere onesto anche nella violazione della legge? Fu un giro di decine di miliardi, e fu la prima volta che l’opinione pubblica senti parlare di fondi neri, e di subordinazione del potere politico al potere economico. Le tangenti dell’Italcasse, di Sindona, dei petrolieri e della Lockheed verranno più tardi, il primo grosso scandalo è legato alla Montedlson e al suo ex presidente, Giorgio «Napoleone» Valerio.