la Repubblica, 11 aprile 2017
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Bisanzio, Europa. Quando il tramonto dell’Impero ottomano riaccese l’idea di libertà incarnata dalla Polis
Nel 1913 un giovane viaggiatore francese arrivò a Costantinopoli a bordo dell’Orient Express. Aveva venticinque anni e da pochi mesi era entrato nel corpo diplomatico, dopo essersi classificato primo al concorso del Quai d’Orsay. Si chiamava Paul Morand e sarebbe diventato, oltre che un grande viaggiatore, un eccellente scrittore dal lucido sguardo politico. Già in quel suo primo viaggio, che narrerà nel libro Adieu à l’Orient Express, la situazione dello scacchiere mediterraneo gli era ben chiara. E con nettezza vedeva risorgere, negli anni della caduta dell’impero ottomano, l’esprit bizantino. Un altro ventenne, uno svizzero francese, era approdato nella Polis tre anni prima, nel 1910. Anche lui era destinato a un luminoso futuro e dotato di un occhio particolare per il presente, e per quel passato che la storia presente ciclicamente, quando gli eventi lo reclamano, rirappresenta. Anche lui, Charles-Edouard Jeanneret- Gris, che assumerà lo pseudonimo di Le Corbusier, più che dal decadere del mondo ottomano era stato colpito dal risorgere di quello bizantino e della sua estetica, che, nelle pagine stambuliote del suo Voyage d’Orient, emerge con l’immediatezza della visione e con la forza del sogno.
Negli anni 10 del Novecento un terzo ventenne, un poeta russo, Iosip Mandel’ štam, aveva sognato Bisanzio. Dall’estremo lembo dei secoli e dell’impero degli ultimi cesari, gli csar, la sua sfida poetica si misurava con la prosodia bizantina di Paolo Silenziario e ne emergeva vittoriosa. Mandel’štam non vide mai Santa Sofia, descritta in absentia ma in essenza in questi versi visionari pubblicati nel 1913. La vide invece uno scrittore francese, allora deputato conservatore nella repubblica patriottica di Poincaré, che visitò Costantinopoli l’anno dopo per un’indagine sulla condizione delle scuole finanziate dal suo governo nell’impero ottomano. Maurice Barrès esplicitò nel suo diario di viaggio, pubblicato nove anni dopo, la nostalgia per Bisanzio suscitata dalla visione di Santa Sofia.
Nello stesso anno in cui Barrès vide in Santa Sofia una “casa di morte” dell’ellenismo, abitata tuttavia dalla speranza del suo risorgere, e una “casa-madre del divino orientale-occidentale”, contemplandovi il sincretismo di una tradizione mistica in cui paganesimo e cristianesimo confluivano e si fondevano e ancora intatti attendevano di essere liberati dalla memoria di sangue e dalla “mano di calce” dell’usurpazione ottomana, e solo un anno dopo il semionirico, sapientemente ermetico ma non meno preciso incunearsi degli stessi temi nella visione poetica di Mandel’ štam, un altro giovane russo, Pavel Florenskij, consegnò quella che possiamo considerarne la visione o re-visione teologica al suo capolavoro, La colonna e il fondamento della verità.
Potremmo fornire altri esempi dell’impennarsi, nel ritrarsi e prosciugarsi del dominio ottomano, e peraltro proprio alla vigilia della rivoluzione russa, di una nuova ondata di spiritualità bizantina, sospinta, a volte inquinata, da un afflato nazionalistico e patriottico panortodosso. Ma non è questo che vogliamo evidenziare, bensì il fenomeno più alto e vasto e genericamente culturale, legato cioè non alle locali emergenze ideologiche dell’uno o dell’altro angolo dello scacchiere politico erede dell’impero multietnico di Bisanzio – storicamente suddiviso fin dal XV secolo nei due tronconi russo e ottomano – bensì allo Zeitgeist còlto dal giovane Morand: negli anni di cui ci occupiamo, e che coincidono con gli estremi cronologici entro cui convenzionalmente collochiamo la caduta dell’impero ottomano, tra il 1912 e il 1922, lo spirito “rivoluzionario” di Bisanzio stava slittando in primo piano, decalcandosi sull’immagine percepita di Costantinopoli, scolorendone i tratti ottomani, imponendone una nuova percezione estetica, poetica, spirituale e religiosa, avvertita dai giovani intellettuali del tempo anzitutto a livello fantastico, visionario, quasi ipnotico: una fantasmatica phantasia della capitale sultaniale, una Seconda Roma che affrancata da quasi cinque secoli di tradizione islamica si manifestava di nuovo bizantina nella percezione della sua facies monumentale e urbanistica così come del suo antevita religioso; dove il riaffermarsi della religione cristiana ortodossa su quella musulmana veniva presentito e vagheggiato nel richiamo alla tradizione giustinianea e visualizzato anzitutto nella sua Grande Chiesa, che pure era più che attiva come moschea.
Nella percezione dei molti letterati attratti in questa fase storica dalla capitale turca il processo di emersione della Costantinopoli bizantina (e cristiana) si era avviato già prima, all’inizio del secolo. La protofemminista Marie Léra, visitando due volte Costantinopoli, nel 1901 e nel 1903, e raccontandola nei suoi Souvenirs de Rhamazan, rimase rapita dalla visita alla Karyie Camii, l’antica chiesa del monastero di San Salvatore in Chora, e particolarmente colpita proprio dalla pervicace resistenza alla tradizione islamica di quella cristiano-bizantina. «Agli albori della potenza islamica», osserva peraltro Marie Léra, «non sembra che il Profeta e i primi conquistatori siano stati mossi da un fanatismo tanto feroce quanto quello di alcuni dei loro successori»: la prossimità di Bisanzio è garanzia di tolleranza, coesistenza, pluralità; l’impero ottomano è storicamente tanto più decaduto quanto più se ne è distaccato.
La rivalutazione dell’eredità bizantina della capitale ottomana era cominciata in realtà nella seconda metà dell’Ottocento, dopo che la guerra di Crimea aveva privato i turchi del dominio sul Mar Nero togliendo loro, con la conquista di Sebastopoli nel 1855, il controllo delle sue sponde settentrionali, ma soprattutto dopo il processo di deottomanizzazione avviato dalla guerra russo-turca e dalle rivolte balcaniche, che tra il 1876 e il 1878 avevano portato al distacco dall’impero dei suoi residui possedimenti e protettorati occidentali (Bosnia e Erzegovina, Bulgaria, Serbia, Romania e Montenegro), e terminato con l’occupazione inglese dell’Egitto nel 1882. Non a caso si situa allora, tra il 1875 e il 1885, l’atto di nascita della bizantinistica, segnato dai viaggi dei due fondatori della scuola france- se e tedesca: Gustave Schlumberger e Karl Krumbacher.
È alla vigilia della fine, all’indomani del trattato di Sèvres e dell’insediamento del governo provvisorio della Grande Assemblea Nazionale Turca, che a bordo dell’Orient Express raggiunge Costantinopoli un eccentrico venticinquenne americano, John Dos Passos, trovandola occupata dagli alleati e brulicante di spie. Nel racconto del suo soggiorno, che intitola Pera Palace come l’albergo in cui alloggia e la cui hall, una sera del ‘21, vede «inondata del sangue di un diplomatico levantino che vi è appena stato assassinato», le strade di Pera sono «piene zeppe di rifugiati russi bianchi, macilenti, senza casa, disperati», la Città è «percorsa da tutti gli Alleati» e «inglesi, francesi e italiani rivaleggiano in idiozia militare» mentre «i turchi hanno rinunciato e quel poco di organizzazione loro rimasta è nelle mani dei greci locali». Al di là del Corno d’Oro divenuto “color acciaio”, la Polis bizantina è cosparsa ovunque di cupole e minareti lucenti «come pedoni d’avorio su una scacchiera». Meno di due anni dopo, il 12 gennaio del ’23, nell’infittirsi degli intrighi e nel precipitare degli eventi all’indomani della deposizione di Mehmet VI, sempre a bordo dell’Orient Express arrivò a Costantinopoli, e come Dos Passos scese al Pera Palas, uno scrittore francese incaricato di corrispondenze per il quotidiano Le Journal ma anche di missioni confidenziali da parte di Ahmet Ferid Tek, allora capo della delegazione diplomatica insediata a Parigi dal governo provvisorio di Ankara. Di giorno, sul Corno d’Oro, il futuro accademico di Francia Pierre Benoît intervistava i composti leader ottomani. Di notte, nei caffè fumosi di Galata, abbordava ufficiali e fuorusciti. Percorrendo la città sotto assedio, l’agente segreto dilettante descrisse quel crinale della geografia e della storia sul cui ciglio passeggiava: «Costantinopoli non esiste più. Costantinopoli è morta».
L’anno dopo, l’aristocratico, stravagante ventunenne scozzese Steven Runciman, futuro agente di Sua Maestà britannica su quelle rive, futuro bizantinista avventuroso e geniale, potrà osservare: «I turchi pretendono che la chiamiamo Istanbul, un nome che deriva dalla corruzione dell’espressione greca medievale stin polin, “in città”, che ricorda la consuetudine inglese di dire going to town quando ci si riferisce a una visita a Londra. I greci, invece, pretendono che la chiamiamo Costantinopoli, una parola mai usata dai loro antenati bizantini, e che invece era stata adottata dai loro nemici arabi e dallo stesso Profeta, nella forma Konstantiniye, e anche dagli odiati latini. Questa forma, peraltro, compare nella titolatura ufficiale del Patriarca Ecumenico, “Patriarca e Vescovo della Nuova Roma ossia Costantinopoli” e, ogni tanto, anche in autori bizantini particolarmente estrosi, benché gli scrittori preferissero comunque il termine Basileousa, Città Imperiale».