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 1979  dicembre 03 Lunedì calendario

Le parti mancanti dell’intervista a Gheddafi di Oriana Fallaci

Neanche due ore dopo l’incendio dell’ambasciata degli Stati Uniti a Tripoli un diplomatico americano mi ha telefonato chiedendo se ritenevo che esistesse un rapporto tra l’episodio e l’intervista (appena pubblicata dal Corriere della Sera) che avevo ottenuto da Gheddafi. Intervista con la quale egli professava un aperto filosovietismo e si scagliava con inaspettata violenza contro gli Stati Uniti e dichiarava che: 1) nelle basi militari americane d’Europa c’era movimento di truppe e se Jim Carter avesse attaccato l’Iran, la Libia non sarebbe rimasta neutrale; 2) il saccheggio delle ambasciate americane in Turchia, in India, nel Bangladesh, in Pakistan dove sei degli impiegati erano morti e il fatto stesso che l’ambasciata di Teheran fosse stata minata dimostrava come fosse in atto una «rivoluzione internazionale contro l’America»; 3) al fine di impedire che il conflitto si allargasse bisognava sì intervenire presso Komeini pregandolo di rilasciare gli ostaggi, ma il loro sequestro riguardava esclusivamente l’Iran ed egli era molto contento che la rivoluzione iraniana fosse riuscita due volte: una volta cacciando lo scià e una volta cacciando gli americani; 4) gli americani avevano torto a prendersela tanto per quel sequestro perché quando le ambasciate o alcuni membri di esse interferiscono negli affari interni del paese che le ospita, quel paese non può garantirne l’immunità diplomatica. (Osservazione con cui Gheddafi sposa in pieno la tesi di Komeini secondo il qualche l’ambasciata USA di Teheran sarebbe stata una centrale di spionaggio). 5) la sostituzione del dollaro con altre monete pregiate era allo studio dei paesi dell’OPEC: oltre all’Iran, l’Iraq, l’Algeria, anche la Libia stava esaminando seriamente la faccenda. E così l’Arabia Saudita, il Kuwait, gli Emirati. Era allo studio dei paesi arabi anche la decisione di ritirare i loro depositi dalle banche americane e se queste avessero congelato il denaro, gli arabi avrebbero reagito di brutto; 6) indiscutibilmente si stava andando verso l’uso del petrolio come arma politica, e questo includeva il possibile rifiuto di vendere il petrolio agli Stti Uniti nonché ai paesi europei che si sarebbero schierati con gli Stati Uniti; 7) se le cose avessero raggiunto un punto critico, la Libia avrebbe attuato la minaccia di diventare membro del Patto di Varsavia. Inoltre Gheddafi elencava i paesi arabi «nemici della nazione araba» e metteva l’Egitto al primo posto della lista nera. Al secondo, il Sudan, la Somalia e l’Oman.
Subito dopo la chiamata del diplomatico americano, numerosi giornalisti stranieri mi hanno telefonato ponendomi lo stesso quesito e, da Washington, la France Presse ha trasmesso un dispaccio nel quale si diceva che le autorità americane non avevano ancora stabilito se esistesse un legame fra l’attacco avvenuto domenica mattina alla loro ambasciata di Tripoli e la quasi contemporanea pubblicazione della mia intervista a Gheddafi. Ebbene, la domanda che mi viene posta è esattamente la stessa che io mi pongo. Ritengo utile, quindi, fornire gli elementi che possono aiutarci a trovare una risposta.
Giunsi a Tripoli domenica 18 novembre, proveniente da Nuova York via Roma, dopo aver richiesto e fissato l’intervista attraverso il rappresentante della Libia all’ONU. La data dell’incontro non era stabilita sebbene mi fosse stato fatto capire che probabilmente avrei visto Gheddafi a metà settimana, verso mercoledì o giovedì. In nessuno di quei due giorni l’incontro avvenne perché, mi spiegò il suo segretario personale, Ibraim Ngiad, il colonnello era oppresso da «moltissimi impegni». Anzitutto, la visita del ministro degli esteri e del rappresentante dell’ufficio politico dello Yemen del Sud (lo Yemen comunista), poi la visita del presidente dello Yemen del Nord, infine una serie di incontri e di comizi con le associazioni degli studenti libici, coi congressi popolari, con gruppi di miliziani e di soldati.. Informazione questa alla quale non detti molto peso e di cui colgo soltanto ora l’importanza: l’attacco all’ambasciata americana di Tripoli è partito infatti dagli studenti e ad esso hanno partecipato anche numerosi miliziani in uniforme e soldati.
Nelle prime ore del pomeriggio di venerdì 23 novembre venni informata che l’incontro con Gheddafi sarebbe avvenuto verso le diciotto, e infatti alle diciassette venni prelevata al mio albergo insieme al fotografo del Corriere Giuseppe Colombo. Alle diciassette e mezzo, dopo essere stata accuratamente perquisita, ero nell’ufficio di Gheddafi che però si presentò soltanto alle ventuno e quindici dicendo che aveva dovuto ricevere nuovamente per alcune ore il presidente dello Yemen del Nord. L’intervista, registrata su nastro da me e da lui, durò fino a mezzanotte meno venti quando fissai un secondo incontro per l’indomani. L’indomani pomeriggio, sabato 24 novembre, venni prelevata come il giorno prima e condotta nella tenda che Gheddafi tiene all’interno del campo militare in cui abita.
Stavolta l’intervista incominciò verso le diciotto e durò fin verso le venti e quindici. Il filosovietismo e l’antiamericanismo di Gheddafi si espressero in questo secondo incontro con raddoppiata virulenza estendendosi all’Occidente e giungendo a difendere Amin e Bokassa, da lui visti come vittime dell’imperialismo sionista. Non chiesi a Gheddafi (la domanda mi è stata rivolta dall’agenzia Reuter) se anche in Libia l’ambasciata americana e le ambasciate occidentali rischiavano attacchi come quelli avvenuti in Iran, in Pakistan, in India, in Turchia, nel Bangladesh. Non glielo chiesi perché mi parve ingenuo sollecitare una risposta cui nessun capo politico con un po’ di cervello avrebbe reagito in termini affermativi. Come risulta dalle parole di Gheddafi non è di prima qualità, ma dinanzi a certo quesiti sa barcamenarsi con prudenza e a volte addirittura con abilità. È furbo, insomma. Però, ecco il punto interessante, prima di congedarsi il suo segretario mi chiese quando avrei pubblicato l’intervista. Ed io risposi: «Domenica 2 dicembre sul Corriere della Sera, subito dopo sul New York Times e sugli altri quotidiani e settimanali che pubblicano le mie interviste negli Stati Uniti, in Europa, nell’America Latina e in Asia». Se Gheddafi voleva materializzare con un esempio tutto ciò che mi aveva detto e magari far questo contemporaneamente alla pubblicazione ell’intervista, il tempo necessario ad organizzare la cosa non gli è mancato.
Perché non tutte le frasi di un’intervista vengono utilizzate per la pubblicazione (scriverla significa anche scegliere le parti più importanti ed interessanti), e poiché la trascrizione del dialogo registrato era un po’ più lunga del testo da me dato al Corriere della Sera, m’è parso opportuno ricercare quel che avevo scartato. E ora mi sembra giusto riportarlo. Ecco.
ORIANA FALLACI. Colonnello Gheddafi, all’ultima conferenza dei Paesi non allineati, a Cuba, vi sono state due prese di posizione: quella di Fidel Castro, filosovietica, e quella del maresciallo Tito: veramente non allineata. Quale delle due approva?
MUAMMAR GHEDDAFI. «Io non sono andato a Cuba, io non c’ero a Cuba».
Ma cosa importa se a Cuba lei personalmente c’era o non c’era! Le sto chiedendo se lei approva il discorso di Castro, oppure quella di Tito!

«Entrambi i due discorsi hanno espresso una realtà».
Colonnello, qual è la «sua» realtà?
«Io sono diverso da loro. Comprendo e rispetto Castro perché parla della sua realtà…Però comprendo e rispetto anche Tito che parla della sua. La domanda che mi ha posto non è legittima».
È legittima eccome, colonnello: sia da un punto di vista giornalistico che politico e storico. Mi risponda, per favore.
«Le ho detto che a Cuba io non c’ero».
(Ride)
Colonnello, non c’è nulla da ridere, Mi risponda, per favore.
«Le ho già risposto».
Colonnello, lei è scoraggiante. E a questo punto mi sembra superfluo chiederle se condivide i sospetti di chi vede l’unione Sovietica dietro gli avvenimenti iraniani.
«Sì. Certo, lo escludo».
Colonnello, è un fatto che i rapporti diplomatici tra la Libia e l’Iran sono ripresi dolo l’invasione dell’ambasciata americana a Teheran e la cattura dei diplomatici ora tenuti in ostaggio.
«Dopo la rivoluzione (N.d.R.) cioè prima che la Libia e l’Iran riaprissero le rispettive ambasciate i nostri rapporti con Teheran sono stati qualcosa di più che quelli consentiti da una rappresentanza diplomatica».
Che significa?
«Quello che ho detto».
Colonnello, lei vuole farmi credere che la sua amicizia con l’Iran fosse ripresa da molto tempo. Però a me risulta il contrario. A metà settembre, quando ero a Teheran, c’era molta ostilità verso di lei e verso la Libia in genere. E sa bene perché: a causa della scomparsa dell’imam libanese Moussa Sadr. Gli iraniani la accusavano di averlo fatto ammazzare qui a Tripoli e respingevano in pieno la sua tesi cioè quella secondo la quale Mussa Sadr sarebbe scomparso dopo aver lasciato la Libia in aereo: diretto in Italia.
(Gheddafi tace)
Nel corso della mia intervista con l’allora primo ministro Medi Bazargan, parlai abbastanza di questo. Ed ecco quel che mi disse Bazargan. (Mi alzo, vado accanto a Gheddafi che siede sulla poltrona di fronte, e gli leggo il brano dell’intervista in inglese: cioè il testo pubblicato dal New York Times). Mi disse: «Sì, la misteriosa scomparsa di Moussa Sadr è un fattore molto importante nella nostra mancanza di relazioni con la Libia: egli aveva un grosso posto nel cuore dei persiani. E il governo italiano ha ragione a sostenere che egli non giunse mai in Italia. Io lo confermo. Infatti abbiamo chiesto alla Libia di accogliere una nostra commissione di inchiesta e di collaborare con noi nella ricerca di Moussa Sadr. Né stabiliremo relazioni con quel Paese finchè non faranno ciò che abbiamo chiesto». E quando gli feci notare che Sheik Mohammad Montazeri, il figlio dell’ayatollah Montazeri, si era fatto fotografare a Tripoli con lei e con Arafat, poi aveva detto che Moussa Sadr era stato ucciso dai sionisti, infine che Gheddafi si sarebbe recato presto in Iran, invitato da Khomeini per studiare una strategia comune sul trionfo dell’Islam, Bazargan si irritò. Rispose: “Il signor Sheik Montazeri è un anormale che ha bisogno d’essere curato da un medico e tutto ciò che gli dice o che fa riguarda lui e basta”.
(Gheddafi continua a tacere)
Colonnello, non mi risponde nulla?
«Le rispondo che in ogni modo il rapporto tra le due rivoluzioni, quella libica e quella iraniana, è stato ben più profondo di quello che esiste tra due rappresentanze diplomatiche. Questo specialmente dopo la cacciata dello Sciaà e il successo della rivoluzione. L’accordo per la riapertura delle relazioni diplomatiche non è stato che l’atto conclusivo di quel rapporto, il riassunto inevitabile di una amicizia già esistente, e si è sintetizzato il 2 novembre scorso».
Cioè due giorni prima che venisse occupata l’ambasciata americana a Teheran.
«Sì, il 2 novembre: in seguito all’incontro ad Algeri con l’allora ministro degli Esteri Yazdi che aveva chiesto di cedermi. Fu lo stesso Yazdi a dare la notizia alla stampa italiana».
A Algeri dove Yadzi e Bazargan s’erano incontrati con Brzezinski: interessante. Ma perché ha detto «specialmente dopo la cacciato dello Scià e il successo della rivoluzione»? Questo significa forse che ha lei aiutato la rivoluzione iraniana?
«Sì».
In che senso?
(Gheddafi sorride e tace).
Non vuole spiegarsi meglio?
(Gheddafi continua a sorridere e a tacere).
Il fatto è che, a parte il suo odio viscerale per gli americani, verrebbe spontaneo chiedersi: ma che cosa ha in comune Gheddafi con Khomeini? Gheddafi è un giovane militare che non pone nessuna enfasi nella religione, Khomeini è un vecchio prete che vuol imporre a tutti l’osservanza della religione…
«Eh! Vi sono molti uomini come me nella rivoluzione iraniana. Molti. Ed è provato che i rivoluzionari sanno usare l’esercito per aprire la strada alle masse».
Colonnello, lei deve capire l’importanza che do al suo giudizio sui fatti di Teheran. Tempo fa, in un’altra intervista a un giornalista italiano, lei disse che esisteva un unico modo per trattare con gli americani: il fucile. E…
«Io parlavo dei popoli colonizzati come i palestinesi».
I palestinesi non sono colonizzati dagli americani, colonnello!
«Sì, che lo sono. Indirettamente, come molti altri popoli».

Per esempio?

«L’Italia è un paese capitalista, classista, e colonizzato dagli americani».
Colonizzato dagli americani?!?
«Non ci sono basi sovietiche in Italia. Non avete basi sovietiche».
Grazie a Dio. Ci mancherebbero anche quelle!
«Però avete basi americane. E questo è colonialismo».
E avere basi sovietiche è colonialismo o no?
«Io dico che voi avete basi americane, non sovietiche».
Abbiamo anche il più grosso partito comunista occidentale, colonnello.
«Quelli sono comunisti italiani, non sovietici».