La Stampa, 11 marzo 2017
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La strada per Menfi e Tebe passa da Schiaparelli
«Signor Professore, ho l’onore di informarla che il Comitato di Egittologia ha accordato l’autorizzazione da lei richiesta per scavare a Eliopoli e nella Valle delle Regine». A scrivere è Gaston Maspero, l’egittologo francese che da vent’anni ricopre l’incarico di direttore generale delle Antichità al Cairo. Destinatario Ernesto Schiaparelli, mitico direttore del Museo Egizio di Torino nel primo scorcio del ’900. La lettera è del 20 aprile 1902. Un dettaglio importante, perché a quella data i soldi per la missione italiana ancora non c’erano, i ministeri romani traccheggiavano e insomma su tutta l’impresa gravava un gigantesco punto interrogativo. Eppure Schiaparelli si era già portato avanti per ottenere la concessione.
C’è, in questo modo di procedere, tutto il pragmatismo e la risolutezza di quella ruvida razza di piemontesi che qualche decennio avanti avevano fatto l’Italia. Unita all’abilità manovriera di un Cavour. Incassata la risposta positiva di Maspero – che, per inciso, era stato suo professore alla Sorbona, prima di diventare amico – Schiaparelli torna alla carica con i ministeri, sventolando l’irripetibile «proposta» ricevuta dall’Egitto, finché la Pubblica Istruzione delibera un finanziamento annuo di 4000 lire. Nel frattempo però il direttore si era dato da fare anche più in alto, aveva incontrato Vittorio Emanuele III riuscendo a strappargli un contributo di 15.000 lire l’anno, per quattro anni, da parte della Real Casa.
E così, nel 1903, nasce la M.A.I., Missione Archeologica Italiana. A questa e al suo indefesso demiurgo è dedicata la rassegna che si apre oggi al Museo Egizio, «Missione Egitto 1903-1920», a cura di Paolo Del Vesco e Beppe Moiso. Non una mostra archeologica – anche se qua e là alcuni reperti sono esposti – bensì una mostra documentaria che attraverso lettere ufficiali e private (ci sarebbe da passare ore a leggersele tutte), quaderni di scavo, attrezzature e ambientazioni d’epoca, gigantografie e una straordinaria quantità di foto e filmati originali fa rivivere le difficoltà, l’organizzazione, le emozioni delle campagne di scavo di un secolo fa. Con un riferimento costante alla Torino di allora, ai suoi scorci, alle fabbriche, al primo cinema, alle prime automobili, all’Expo del 1911, anche alla Stampa, che in due edizioni successive, il 17 e 18 ottobre 1924, dà ampio risalto alla visita del Re nel Museo.
1903 e 1920 sono gli estremi temporali delle dodici campagne condotte da Schiaparelli in undici siti dell’antico Egitto, da Giza a Eliopoli, da Assiut a Gebelein, da Deir el-Medina a Assuan alla Valle delle Regine. Spedizioni coronate da scoperte straordinarie, come la tomba di Nefertari, la Grande Sposa Reale di Ramesse II, o quella dell’architetto Kha, che è oggi una delle maggiori attrattive del museo torinese.
Nato nel 1856 a Occhieppo Inferiore, vicino a Biella, Schiaparelli aveva lavorato dall’81 al Museo archeologico di Firenze come direttore della sezione egizia, e già in questa veste aveva compiuto un paio di viaggi lungo il Nilo per acquistare reperti. Una terza spedizione di questo tipo l’aveva affrontata nel 1901 come direttore dell’Egizio di Torino, dove era approdato nel ’94 (e dove sarebbe rimasto fino alla morte, nel 1928). Ma le campagne di acquisto avevano limiti di cui Schiaparelli era ben consapevole: dal vecchio collezionismo di oggetti decontestualizzati bisognava passare alla ricerca condotta con metodo scientifico.
Il direttore – dal 1907 anche soprintendente alle Antichità di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta – porta con sé disegnatori, fotografi, restauratori, in seguito anche un antropologo: si chiama Giovanni Marro, ed è uno dei coprotagonisti che la mostra estrae dall’oblio. Gli altri (entrambi morti prematuramente, all’inizio degli Anni 10) sono Francesco Ballerini, grande egittologo e disegnatore provetto (ma anche marito un po’ lamentoso nelle lettere alla moglie lontana), e il giovane, scrupoloso Virginio Rosa, che relaziona quotidianamente il Professore. Per i reperti riportati alla luce vige il sistema del «partage» (poi revocato dal 1923-24), ossia della divisione in parti all’incirca uguali tra gli scopritori e gli egiziani, cui spetta però la priorità nella scelta.
Nella mostra si vedono immagini dell’Egitto di allora: quello dei turisti che si aggirano nei templi e fanno picnic nelle antiche tombe, quello delle imprese italiane che costruiscono la nuova sede del Museo Egizio di piazza Tahrir, disseminando di palazzi Il Cairo e Alessandria. E quello degli operai – fellahin, contadini arruolati dalle missioni tra fine dicembre e primi di maggio – che lavorano cantando, e dei bambini che sostano sulle alture a ridosso delle sepolture reali, esattamente come oggi, pronti a calare sui turisti per chiedere il bakshish, mentre altri si aggirano numerosi nello scavo, addetti a portare via la sabbia e i detriti («ti raccomando di impedire che si battano i lavoranti», scrive Schiaparelli a un caposquadra, «e tanto meno i bambini»). Si vedono le brande comprate sul posto, i moschetti e le tende militari coniche fatte arrivare dall’Italia. Gli archeologi si spostano a dorso d’asino, i reperti vengono imballati in casse di legno e caricati sui dromedari, poi trasportati sulle feluche nei centri di raccolta. Colpisce un’immagine in cui una quantità di preziosi sarcofagi è ammucchiata su un pendio sotto il sole.
Di Schiaparelli è documentata anche l’attività filantropica: cattolicissimo (incontra due volte il papa Leone XIII, nelle campagne di scavo fa celebrare la messa tutte le domeniche), fonda l’Ansmi, Associazione Nazionale per Soccorrere i Missionari Italiani, che dall’Egitto alla Cina apre scuole e ospedali, quindi l’Opera Bonomelli, per aiutare gli emigranti italiani in Europa, e l’Italica Gens, per quelli in America. Ma – peculiarità rivelatrice del genio organizzativo – nel suo universo sinergico tutto si tiene: il personale dell’Ansmi è spesso impiegato in funzioni di assistenza alla missione archeologica, ai francescani di Luxor sono affidati in deposito i reperti, uno di loro, padre Zaccaria Berti, addirittura scava per lui nell’11 a Assiut. Tutto intorno, una folla di personaggi secondari, ma preziosissimi, come il rais Califa di Luxor «che sa sempre con occhio sicuro dove si celi una tomba» (Ballerini dixit), Bolos Ghattas, il fiduciario di Schiaparelli in Egitto, il fotografo locale Atallah, il falegname Morcos che fabbrica le casse per trasportare i reperti.
Quando chiuderà a Torino, il 10 settembre, la mostra farà tappa a Catania, e sarà un antipasto della prevista apertura di una succursale siciliana dell’Egizio, con circa 300 pezzi presi dagli strabordanti depositi. A chi oggi protesta per il «depauperamento» del museo si potrebbe opporre una lettera (esposta) inviata a Schiaparelli dal ministero della Pubblica Istruzione il 25 agosto 1907: «... lo Stato ha sostenuto fino ad ora ingenti spese per gli scavi in Egitto, e la suppellettile raccolta è già tanto copiosa che si può cedere una parte agli altri Musei». Non è accaduto, non accadrà. Meglio informarsi, prima di strapparsi le vesti.