il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2017
Le ‘ndrine in Val d’Aosta non sono un romanzo
Nella storia di questa Regione ci sono autobombe, incendi dolosi, omicidi, estorsioni e affiliazioni criminali. Ma qui di mafia non si parla mai.
Non siamo al Sud. Anzi non esiste nulla di più lontano: ad Aosta c’è un freddo ostinato, urticante. Lo stesso che scandisce le giornate di Rocco Schiavone, il poliziotto romano costretto all’esilio in Valle, protagonista dei gialli di Antonio Manzini e della serie tv con Marco Giallini. Schiavone sta diventando un’icona nazionale.
Chi ha letto le sue storie, Aosta la riconosce subito: la calma apparente nelle strade e l’assedio silenzioso, monumentale, delle Alpi; il vento è quello schiaffo gelido che fa incazzare il vicequestore.
Siamo nella capitale della Regione più piccola d’Italia, gelosa della sua storia e dei suoi confini. Di questi luoghi si sa poco e non si scrive quasi mai: nel pensiero comune, la Valle è ricca, civile, pulita e sicura. Ma le cronache – ben oltre la fiction – raccontano che la criminalità organizzata è una presenza silenziosa, ma consolidata e violenta.
La fontina e l’arresto del procuratore capo
I riflettori sulla città si sono accesi improvvisamente all’inizio del mese. Il palazzo di Giustizia che si affaccia su via Festaz è rimasto vuoto: il procuratore capo Pasquale Longarini, che lavora ad Aosta dai primi anni ‘90, è stato arrestato il 31 gennaio per un “maxi ordine di fontina” insieme all’imprenditore Gerardo Cuomo.
Il dettaglio del formaggio può far sorridere, la sostanza delle accuse molto meno: Longarini avrebbe convinto un albergatore di Aosta ad acquistare una fornitura di generi alimentari da 70 mila euro l’anno dal produttore amico. Il proprietario dell’hotel era coinvolto in un inchiesta condotta dallo stesso Longarini per fatture false e frode fiscale. In un’intercettazione, l’albergatore sostiene che il pm si sia impegnato ad aiutarlo in cambio dell’acquisto della fontina del suo amico Cuomo, il quale, a sua volta, era indagato per ‘ndrangheta in un’inchiesta dalla Dda di Torino: non proprio una compagnia opportuna, per il magistrato aostano. I reati che gli contesta la procura di Milano (a cui compete l’indagine) sono induzione indebita e favoreggiamento, mercoledì la gip Giusy Barbara ha confermato gli arresti domiciliari. L’aspetto più inquietante, nella ricostruzione della procura, sono i rapporti tra Cuomo e alcune delle famiglie ‘ndranghetiste della zona, e in particolare con il pluripregiudicato Giuseppe Nirta.
Come nelle altre Regioni del nord, anche in Valle d’Aosta le infiltrazioni mafiose sono oggetto di una rimozione testarda. Ma le parole pronunciate la scorsa settimana dal procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, non ammettono ambiguità: “Non credo che la Valle faccia eccezione rispetto al Piemonte, anche perché l’insediamento di esponenti già conosciuti come appartenenti o vicini alle cosche calabresi in Valle d’Aosta data da molti decenni, non da adesso”. Per il magistrato, è un dato di fatto: “È inutile che diciamo c’è la mafia, certo che c’è la mafia”. Punto.
La lunga scia di bombe e sangue
Prima di comparire nelle carte di procure e tribunali, la presenza del crimine organizzato in Valle lascia l’impronta in un’interminabile scia di delitti iniziata nell’estate del 1977. Nelle notti dell’8, del 9 e del 10 agosto tre esplosioni fanno tremare Aosta. Gli obiettivi sono tutti in pieno centro: una bottiglieria, un negozio d’abbigliamento e un distributore di carburanti Esso. Il responsabile viene individuato in Carmelo Oliverio, nipote di Santo Oliverio, che diversi anni più tardi sarà indicato come capobastone di un “locale” di ‘ndrangheta valdostana – una cellula distaccata dalla casa madre calabrese – dal pentito Salvatore Caruso.
Il 3 settembre 1979 viene ucciso un commerciante di Sarre, Armando Pasquali, titolare di un negozio ad Aosta: la sua auto salta in aria mentre è in viaggio verso Como. Pochi mesi prima Pasquali si era salvato da un incendio doloso appiccato ancora a una sua macchina.
Si tratta di una delle prime autobombe della storia italiana: gli autori restano ignoti, ma il metodo è quello delle organizzazioni criminali.
Ed è ancora la dinamite, il 13 dicembre 1982, a far esplodere l’auto del pretore Giovanni Selis in via Monte Vodice, di nuovo nel centro di Aosta. Mezzo chilo di tritolo collegato all’accensione della sua Fiat 500. Selis si salva per miracolo, e due giorni dopo riesce a evitare un secondo attentato ad opera di due sicari, che poi fuggono a bordo di un’auto francese di grossa cilindrata.
Secondo il pm titolare dell’inchiesta, Corrado Carnevali, “le intercettazioni predisposte fecero aprire un fascicolo su mafia e casinò italiani. C’era di mezzo l’usura e la spartizione fra due cordate di criminalità organizzata per la casa da gioco di Sanremo”.
C’è un altro casinò che compare nelle pieghe della storia valdostana: quello di Saint-Vincent, fiore all’occhiello della Valle. È nel suo ambiente, negli anni 90, che prendono forma gli omicidi di due “prestasoldi”, l’eufemismo con cui si definivano gli usurai. Il 10 dicembre 1998 viene ucciso Franco Formica con due colpi di pistola al petto, poche settimane più tardi – il 6 febbraio 1999 – tocca a Michele Mariano. Dopo il doppio assassinio la quasi tutti i “prestasoldi” scompaiono da St. Vincent.
In mezzo c’era stato anche l’omicidio di Giuseppe Mirabelli (4 giugno 1990) ad Issogne, un piccolo comune a sud est di Aosta; l’ennesimo episodio oltre confine della faida iniziata tra i Mirabelli e i Garofano negli anni ’70 a Petilia Policastro (oggi provincia di Crotone). L’anno successivo, sempre a giugno, tocca a Gaetano Neri, vittima della guerra in corso a Taurianova (Rc) tra la cosca riconducibile alle famiglie Avignone-Zagari-Viola e quella legata alle famiglie Asciutto-Neri-Grimaldi. Ma il conto delle aggressioni, degli attentati e degli innumerevoli incendi dolosi che si ripetono negli anni, fino ai giorni nostri, sarebbe ancora troppo lungo per entrare in queste pagine.
Dalle faide alle Alpi
Il primo tentativo di dimostrare per via giudiziaria la presenza di un’associazione a delinquere di stampo mafioso in Valle risale al 2000. L’anno prima i carabinieri aostani riprendono le immagini di un rito di affiliazione (“la punciuta”) all’interno di un bar della città. Una cerimonia che si svolge attorno a una coperta bianca stesa in terra. Da questo episodio nasce l’“operazione lenzuolo”. La presenza di un “locale” ‘ndranghetista viene rivelata da tre pentiti: Francesco Fonti, Salvatore Caruso e Annunziato Raso. Secondo i rapporti degli inquirenti, il gruppo egemone in Valle d’Aosta è quello dei Facchineri, che possono contare sulla presenza di “parenti e sicuri fiancheggiatori residenti in Valle d’Aosta da molti anni e quindi ben inseriti nella comunità valdostana”. L’indagine fallisce dopo il passaggio di competenza dalla procura di Reggio Calabria a quella di Torino: secondo il pm piemontese Andrea Padalino “gli elementi acquisiti non consentono di ipotizzare la sussistenza di un quadro probatorio sufficiente”. I 16 indagati ottengono l’archiviazione. Ma l’“operazione lenzuolo” è considerata una delle basi di un’altra inchiesta (“Tempus venit”) che aiuta a ricostruire le attività criminali di alcuni gruppi calabresi in Regione (e che stavolta arriva alla sentenza di condanna). I protagonisti sono proprio i Facchineri.
La storia della famiglia, descritta in un’informativa del reparto operativo dei carabinieri aostani, merita un approfondimento: arrivano in Valle da sconfitti, reduci dalla faida con i clan Albanese-Raso-Gullace a Taurinova. Lo scontro è tremendo, lascia sul campo decine e decine di cadaveri, ma le origini sono così lontane – il primo assassinio è del 1964 – che oggi nessuno le ricorda davvero con certezza. Si parla di “contrasti insorti nell’esercizio dell’attività pastorale”, addirittura dello “sconfinamento di alcuni maiali, successivamente rubati, portati al pascolo da una persona vicina ai Facchineri in una zona sotto il controllo degli Albanese”. Da questa offesa, futile e antica, nasce la guerra tra cosche che porterà i Facchineri in Valle d’Aosta.
Uno degli esponenti della famiglia, Giuseppe Facchinieri, è il principale protagonista di “Tempus Venit”. L’indagine si chiude con il suo arresto e la condanna in primo e secondo grado a 6 anni e 8 mesi di carcere per il tentativo di estorsione nei confronti dell’imprenditore edile Giuseppe Tropiano, anch’egli di origine calabrese.
Le minacce iniziano il 2 ottobre 2010, quando il costruttore trova di fronte alla sua azienda una tanica di benzina e un accendino. È laprima di una lunga serie di intimidazioni. Gli autori sono appunto Facchinieri, suo cognato Roberto Raffa e Giuseppe Chemi. L’obiettivo è estorcere un pizzo del 3% su un appalto multimilionario vinto da Tropiano con la Regione. Seguono telefonate anonime e quattro lettere minatorie, firmate con lo pseudonimo “avvocato Siliente”.
In quelle parole c’è un autentico manifesto dei valori e del modus operandi degli ‘ndranghetisti trasferiti in Valle: “Ci rivolgiamo a Lei in prima persona perché la riteniamo sia una persona giudiziosa, coerente (…) In buona sostanza vogliamo i soldi e consigliamo a Lei e soci di non fare l’infame (…) voi vi fate i vostri guadagni con le vostre amicizie politiche locali e anche noi ci guadagniamo qualche cosina, come si suol dire quando ce n’è, ce n’è per tutti, per voi e per noi”.
Prima di denunciare le minacce, Tropiano tenta di fasi aiutare da altri due calabresi, i fratelli Raso (secondo i pm “personaggi di notevole caratura criminale”: Michele sarà condannato a 1 anno e 8 mesi per porto abusivo d’arma, Salvatore invece viene ucciso in un agguato mafioso). La mediazione fallisce, come si legge in una delle lettere di “Siliente”: “Cerchi di non fare lo stronzo o l’infame non dia ascolto a qualcuno dei suoi compari più stretti perchè le stanno dando cattivi consigli, i pallettoni quando arrivano non chiedono permesso a nessuno”.