Corriere della Sera, 17 gennaio 2017
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Variazioni su Pinocchio
Quante cose è Pinocchio. Quanta ambiguità in quel personaggio e in quel libro. Non si finirebbe mai di leggerlo e di interpretarlo. Pinocchio è in fuga da noi lettori che continuiamo a inseguirlo senza mai acchiapparlo una volta per tutte: è creatura vitale e inanimata, di legno e di carne, un essere mai nato davvero o nato da sempre (ben prima che arrivasse Geppetto), emerso da origini misteriose, certamente non procreato. Che razza di favola è se vi troviamo le radici toscane (anche linguistiche) del suo tempo? Che razza di novella è se il protagonista è un burattino che si muove per forza propria e se nel suo cammino intervengono creature magiche, la fata e gli animali che parlano? Che razza di libro è un libro scritto in parte dal suo autore (fino al capitolo XV), e in parte dai lettori che alla parola «Fine» protestarono al punto da suggerire la rinascita del burattino salvato dalla Bambina dai capelli turchini.
Pinocchio è per bambini, per ragazzi e per adulti. Anzi, secondo Antonio Tabucchi, trattandosi di «uno dei libri più inquietanti che la letteratura ci abbia lasciato», la sua lettura andrebbe consigliata solo a un pubblico maturo: «Bisognerebbe leggere Pinocchio da adulti, perché questo libro partecipa dello spirito della tragedia e del mito, il suo soggetto immediato è la vita stessa. La sgraziata figura di legno è destinata a essere sempre l’ altro, l’altro Io che ognuno di noi porta con sé, l’ altro rispetto alla norma; sta per il desiderio perduto, l’ambiguità dell’apparenza, l’illusione, il fantasma – in breve: Pinocchio è il rovescio del nostro Io, la sua altra dimensione».
Pinocchio è una superba allegoria della vitalità esuberante ma anche un «sistema metafisico virtuale» che si radica nella passione di Cristo: la morte del burattino appeso alla quercia è stata intesa come una metafora della morte sulla Croce. L’arcivescovo di Bologna Giacomo Biffi lo interpret ò come un capolavoro teologico, una storia sacra esemplare. Italo Calvino ne parlò come di un classico tra picaresco e noir. Delinquente credulone, narcisista irriducibile, psicopatico ipercinetico, attaccabrighe dispettoso fino alla crudeltà e all’autodistruzione? Un po’ tutto e un po’ niente di tutto ciò, tant’è vero che Carlo Fruttero preferì definirlo un Dr. Jekyll e Mr. Hyde italiano. Chi privilegiò il versante del ribelle contro i modelli pedagogici tradizionali (la famosa introduzione dello psichiatra Giovanni Jervis), chi lo immaginò come una sorta di mostro mitologico da epopea omerica (Pietro Citati). Altri si sono spinti decisamente oltre: chi lo accusa di razzismo (per la sua parodia dei portatori di disabilità: la Volpe zoppa e il Gatto cieco), chi lo vorrebbe omosessuale (e qualcuno ha suggerito un’interpretazione «queer»).
Chi, come Raffaele La Capria, lo considera semplicemente un soggetto amorale e italianissimo, un corruttore e un corrotto insieme: uno che si lascia inghiottire dalla «psicologia del miracolo» come molti italiani e spera nelle scorciatoie verso la ricchezza al punto da credere che seminando quattro monete spunti un albero tintinnante di zecchini; uno che non mantiene quel che promette e che si lascia attrarre dal paese dei Balocchi. Insomma, una ordinaria (ma straordinaria) vicenda di piccoli burattini e di grandi burattinai. Qualche anno fa l’italianista americana Suzanne Steward-Steinberg scrisse una storia italiana dall’unità al 1922, intitolandola Effetto Pinocchio : secondo lei il personaggio di Collodi è stato cr eato e insieme influenzato dall’alto, pur mantenendo la sua autonomia individualistica, proprio come l’italiano moderno. Un fantoccio senza fili, guidato da decine di fili invisibili. Pinocchio uno e bino è un fondamentale saggio, datato 1975, del critico Emilio Garroni, il quale intravede nella favola di Collodi due romanzi in uno, il primo dei quali (fino al capitolo XV) sarebbe una furibonda «corsa verso la catastrofe», mentre il secondo (il Pinocchio «dilatato») è un romanzo di formazione. Nel 1977 arrivò Giorgio Manganelli, con il suo Pinocchio parallelo (secondo Calvino, la più pertinente esegesi della favola): senza cancellare il testo di Collodi, che è stato uno dei suoi amori letterari incondizionati, Manganelli imbastisce una lettura capitolo per capitolo che parte dal testo collodiano per trascenderlo, imboccando percorsi rigorosamente arbitrari.
La convinzione da cui muove il «parallelista» è che Pinocchio è un’opera ellittica in cui sono disseminate «tracce, orme, indovinelli, burle, fughe». Un libro non finito, che chiede al lettore di essere portato a termine e magari rilanciato in modo inatteso, al punto che Manganelli, al termine del suo racconto «parallelo», si guarda bene dal chiuderlo ma lo rimette in gioco buttando là tre brani da cui ricominciare il cammino.