la Repubblica, 15 gennaio 2017
Tags : Anno 1901. Raggruppati per paesi. Olanda
La signora dei Van Gogh
È stata la moglie di Theo e la cognata di Vincent: è solo a lei che si deve la fama del grande pittore da tutti considerato pazzo Un libro ora ne racconta la storia
Minuta, bruna, graziosissima, Johanna Bonger è stata la moglie di Theo e la cognata di Vincent.
Con Theo ha vissuto solo due anni. Con Vincent ha parlato solo tre volte. Eppure è a lei che si deve tutto: la notorietà del pittore, la pubblicazione delle sue lettere, le prime informazioni raccolte per i biografi. Un bel romanzo dell’argentino Camilo Sánchez, La vedova Van Gogh (Marcos y Marcos), la riporta alla luce, raccontando con delicatezza il momento in cui tutto il peso della storia è caduto sulle spalle di questa giovane vedova con un bambino di pochi mesi e nessuna fonte di reddito, ma la casa piena di quadri che nessuno voleva perché considerati l’opera di un pazzo.
È il 27 luglio del 1890 quando Theo viene chiamato ad Auvers-sur-Oise al capezzale del fratello, che si è sparato un colpo di pistola. “Non ti voglio scrivere i dettagli, sono troppo tristi”, spiega in una lettera la sera stessa.
Dopo aver assistito all’agonia del fratello e averlo sotterrato, Theo torna a casa, si mette a letto e inizia lentamente a scomparire.
Johanna cerca di costringerlo a tornare a lavorare, lo porta dai medici migliori, in Francia e poi in Olanda, ma non riesce a salvarlo. Theo muore a Utrecht, tra le sue braccia, sei mesi dopo, il 25 gennaio del 1891, affidandole il compito che lui non può più realizzare: occuparsi dell’opera di Vincent, fare in modo che il mondo riconosca il genio di questo suo fratello maggiore, squilibrato, cacciato di casa dai genitori e diventato un vagabondo dell’arte.
Per far questo Johanna ha a disposizione trecento quadri e quattrocentocinquanta disegni, ancora ammassati nella casa di Parigi, e più di seicento lettere. I quadri li conosce da sempre, la casa ne era piena perché Vincent produceva tantissimo e mandava tutto al fratello, che lo manteneva versandogli una parte del suo stipendio.
Alcuni erano appesi alle pareti, gli altri arrotolati e ammassati ovunque: “Sotto il letto, sotto il divano, sotto gli armadi”, scriverà Johanna in un testo su Vincent.
Le lettere invece inizia a leggerle solo dopo essere rimasta vedova. In quelle carte cerca il marito perduto – “Mio tesoro, mio caro, caro Theo”, scrive nel diario, “a ogni parola, a ogni riga, penso a te” – e scopre il cognato, figura ingombrante che le ha rubato Theo e ha funestato ogni momento felice della loro vita comune con una delle sue pazzie.
La prima grande crisi psicotica di Vincent avviene infatti all’annuncio del loro fidanzamento, e lo stesso succede, con crisi successive, il giorno delle nozze e il giorno della nascita del figlio, che pure Theo battezza con il suo nome, Vincent.
Attraverso l’epistolario Johanna impara a conoscere meglio quel cognato che ha incontrato solo in tre occasioni, poco prima che morisse. La prima è il 17 maggio del 1890, quando Vincent torna dal Sud della Francia e – sulla strada di Auvers-sur-Oise, il rifugio nella campagna a nord di Parigi che Theo ha trovato per lui – fa una pausa per tre giorni a casa loro. Johanna lo descrive chino sulla culla di legno dove dorme il nipotino: “Si girò con un sorriso verso di me e disse, indicando la copertina lavorata all’uncinetto: Non coprirlo troppo di pizzi, sorellina”.
La seconda è il 10 giugno, quando con Theo e il figlio va a trascorrere la domenica a Auvers-sur-Oise. Vincent è ad aspettarli alla stazione con in tasca un nido, dono per il nipotino. “Insistette per portare lui in braccio il bambino e volle mostrargli tutti gli animali della fattoria. Quando un grosso gallo fece spaventare il bambino, che diventò tutto rosso e iniziò a piangere, Vincent scoppiò a ridere divertito”.
L’ultimo incontro è più cupo e avviene a Parigi poche settimane prima del suicidio. Il bambino è malato. In casa ci sono problemi di soldi.
Vincent si aggira per l’appartamento di cattivo umore, lamentandosi di come sono stati accostati i suoi quadri.
Dopo la morte di Theo, Johanna torna a vivere in Olanda ma non vuole restare a lungo a casa dei genitori.
Convince il padre a finanziare l’acquisto di una grande casa a Bussum, nella campagna vicino ad Amsterdam, e la trasforma in una locanda che diventa presto anche un museo informale dell’opera di Van Gogh. All’infuori di Theo, nessuno in famiglia ha mai creduto nel genio di Vincent. Quando il figlio è partito di casa, la madre ha dimenticato nel magazzino di un falegname tutte le sue tele, che sono state poi vendute ai rigattieri.
Johanna al contrario le espone con orgoglio: sul caminetto, nelle stanze degli ospiti, nei corridoi. Riempie la casa di bellezza e scrive nel diario: “Sono sola e abbandonata ma ho un compito nella vita”.
Continua a lavorare sulle lettere, che sempre di più le appaiono come un grande romanzo epistolare: “Le ho lette e rilette, finché ho visto la figura di Vincent finalmente chiara davanti ai miei occhi”.
Per mantenersi traduce racconti dall’inglese e dal francese per una rivista letteraria. Intanto lavora per organizzare la prima mostra di disegni di Vincent, all’Aja.
Con il ricavato della vendita di alcuni disegni paga le cornici per i quadri che sta preparando per le mostre future. È attenta a ogni dettaglio. Per la tela dei Mangiatori di patate, che segna l’esordio di Vincent come pittore, segue le sue indicazioni riportate in una lettera e cerca una cornice gialla, nelle “tonalità profonde del grano maturo”. La sua locanda piena di girasoli e campi ventosi attira l’attenzione dei visitatori e degli intellettuali di Amsterdam, che la visitano sempre più spesso.
Tutto Van Gogh è lì, in quella pensioncina di provincia: la sua ricerca pazza compressa in una decina di anni, i carboncini, gli acquarelli, gli olii, le stampe giapponesi. La stampa comincia a interessarsi a Van Gogh. Le gallerie si fanno più disponibili.
Sempre in movimento tra la villa e la stazione, intenta a spedire o ritirare i quadri, Johanna organizza sei mostre in meno di un anno, rilascia le prime interviste, cura la prima edizione commentata delle lettere, lavora a un libro sul cognato.
“Sono stata felice tutto il giorno”, scrive nel diario dopo una mostra che è stata un vero successo. “Quando tornavo in treno con il bambino a Bussum il cielo era meraviglioso – il sole d’oro affacciato sulle nuvole bianche e vaporose”.
Ai mercanti d’arte che iniziano a bussare alla sua porta per comprare i quadri risponde sempre allo stesso modo: “Non sono in vendita”. Anche in questo segue le indicazioni delle lettere Vincent: esporre il più possibile, vendere solo quello che serve per finanziare altre mostre, non disperdere l’opera.
Della sua vita – conclusasi nel 1925 – non sappiamo molto altro e dobbiamo accontentarci di quello che ha raccontato il figlio. Nel 1901 sposa in seconde nozze un pittore olandese molto più giovane, nel 1903 si trasferisce ad Amsterdam, dove continua il suo lavoro di curatrice dell’opera del cognato. Rimasta di nuovo vedova nel 1912, trascorre gli anni della prima guerra mondiale a New York, per tradurre in inglese l’epistolario.
Ma prima di lasciare l’Europa fa trasferire i resti del marito nel cimitero di Auvers-sur-Oise, accanto alla tomba di Vincent. Sa che è stato lui il grande amore di suo marito.