Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 18 aprile 2004
enciclopedia Zanichelli alla voce eucalipto (eucalyptus): «Genere di piante arboree sempreverdi delle mirtacee, d’origine australiana, introdotte da tempo nella regione mediterranea; dalle foglie aromatiche si estrae un’essenza disinfettante (eucaliptolo), dalla corteccia i tannini usati nella concia delle pelli; il legno è impiegato nell’industria della cellulosa
• enciclopedia Zanichelli alla voce eucalipto (eucalyptus): «Genere di piante arboree sempreverdi delle mirtacee, d’origine australiana, introdotte da tempo nella regione mediterranea; dalle foglie aromatiche si estrae un’essenza disinfettante (eucaliptolo), dalla corteccia i tannini usati nella concia delle pelli; il legno è impiegato nell’industria della cellulosa. Piante a rapido accrescimento, sono adatte al rimboschimento di zone paludose». proprio quest’ultima caratteristica che fece dell’eucalipto la pianta delle bonifiche fasciste. Nell’Agro Pontino, in Puglia, in Campania e anche in Sicilia, dove pure bonificarono poco. Secondo Antonio Pennacchi, che ha scritto a puntate su ”Limes” e poi riunito nel volume ”Viaggio per le città del Duce”, se vedi un eucaliptus stai probabilmente approcciando una delle città costruite durante il Ventennio.
«Quello aveva il mal della pietra», dice di Mussolini lo scrittore di Latina quando si rende conto che la fondazione di città durante il fascismo fu un’attività di tutto rispetto: 130 ne ha trovate tra città e borghi rurali. E probabilmente non è finita qui, basta che qualcuno continui a cercare. Un movimento convulso, che abbraccia il decennio 1932-1943 e tutta l’Italia, dall’Alpi alle Piramidi (ché qualche traccia c’è pure in Africa), dall’Istria alle isole; un’attività seconda solo a quella della Russia bolscevica in cui di centri urbani ne fecero più di duemila.
All’inizio, però, Benito Mussolini non voleva proprio sentir parlare di città e lanciò la parola d’ordine della «ruralizzazione»: gli italiani dovevano andare a vivere in campagna, dove il regime avrebbe creato l’uomo nuovo, la base del suo consenso nei secoli a venire. Poi, in corso d’opera, ci s’accorse che servivano anche i borghi, perché i coloni, da qualche parte, dovevano pure andare per trovare un prete o un dottore, cibo, medicine, vestiti, magari il cinema, una sala da ballo o un’osteria (di queste ultime, il Duce ne fece chiudere 25mila nel 1926, ma dieci anni dopo in ogni borgo dell’Agro Pontino ce n’era almeno una).
Alla fine costruirono pure città vere e proprie, tipo Littoria-Latina, ma quasi per caso. Insomma, il vero ”mal della pietra” è un frutto tardo, degli anni Trenta, e si lega strettamente con un’altra delle molteplici e contraddittorie correnti che percorsero il fascismo: quella che, a stare a Pennacchi, è la Rivoluzione agraria del Ventennio. La realizzazione della promessa fatta ai combattenti della Grande Guerra per indurli a morire più allegramente dentro le trincee: la terra ai contadini. Eccovene tre momenti fondamentali.
• L’agro pontino
All’inizio, la parola d’ordine era la bonifica integrale, lanciata sulla scorta di quelle iniziate già a fine ’800 ma con quel tanto di pomposità in più tipica del regime. La campagna fu affidata al ministero dell’Agricoltura di Giacomo Acerbo e del suo sottosegretario Arrigo Serpieri, che aveva la delega proprio alle bonifiche: due tecnici liberali e nittiani, cooptati dal nascente regime, che sognavano un’Italia moderna e ipercapitalista. Loro s’affidarono - dopo qualche resistenza - ai Consorzi dei proprietari: in buona sostanza, associazioni di latifondisti. Anche la bonifica dell’Agro Pontino, un’opera più volte tentata e fallita nel corso dei secoli, inizialmente era nelle loro mani.
Quando nel 1926 i Consorzi di bonifica si lanciano nell’impresa, la pianura che iniziava a sud dei Castelli Romani era un’acquitrino malarico e improduttivo da un millennio. Non esisteva nemmeno una mappa esauriente della zona: c’erano punti in cui probabilmente non s’era mai visto un essere umano. La gente, a quei tempi, viveva quasi tutta sulle montagne circostanti, dove s’era rifugiata per scappare alla zanzara anofele (l’insetto responsabile della diffusione della malaria), e guardava con scetticismo alla nuova impresa. Pensavano: «Tanto prima o poi torna l’acqua» (pare che qualcuno, sui Lepini, lo pensi ancora). In quel momento non c’è un piano urbanistico: ai Consorzi interessa solo prosciugare, poi i proprietari gestiranno i terreni come meglio credono. Saranno comunque i villaggi operai, costruiti per rendere più spedito il lavoro dei braccianti che devono scavare i canali, a costituire la base dei borghi di cui oggi è disseminato ”l’agro redento” (giusta la definizione d’epoca).
Si va avanti così dal 1926 al ’31, quando il Duce decide di dare la sveglia ai lavori conferendo carta bianca all’Opera nazionale combattenti (Onc) e al suo nuovo capo, il conte Valentino Orsolini Cencelli: la quantità di ore lavorate dagli operai si impenna, le terre (circa 70.000 ettari) vengono tolte ai latifondisti e assegnate ai contadini che cominciano ad arrivare soprattutto dal Veneto, ma anche dal ferrarese e dal Friuli. Inizialmente staranno a mezzadria.
I coloni partivano alla sera dalle loro regioni, riuniti per area di provenienza, tutti sullo stesso treno con armi, bagagli, masserizie e animali. La mattina dopo - a Cisterna, Littoria Scalo o Terracina - trovavano a aspettarli i banconi con caffelatte, polenta e grappa organizzati dal Fascio femminile. Poi venivano caricati sui camion e scaricati nei poderi, dove per ogni famiglia (almeno una quindicina di persone) c’era la terra e un casale completo di tutto: stalla, pozzo, fienili, forno, passi-comodi e locali di abitazione.
Nell’Agro Pontino, tra il ’32 e il ’34, la grandezza media degli appezzamenti era di 15 ettari (da un minimo di 9/10 per i terreni di fertilità medio-buona ai 20 di quelli argillosi o sabbiosi) e i casali erano posti a coppia sulla strada, uno ogni 250 metri circa. Insomma sei famiglie, un centinaio di persone, ogni 500 metri, con buona pace di chi vede nella struttura dell’appoderamento pontino il tentativo di isolare i contadini. E fin da subito si creò una comunità: i coloni si scambiavano giornate di lavoro e favori vari, poi, a sera, si riunivano per il tradizionale filò, dove si chiacchiera e si cuce. Per non parlare dei balli, sull’aia e più tardi nelle sale (Borgo Podgora, per l’abbondanza di luci e locali, lo chiamavano ”la piccola Parigi”).
A un certo punto, però, al conte Cencelli i borghi non bastavano più e gli venne in mente Littoria. Il 30 giugno 1932 invitò Mussolini alla posa della prima pietra, ma il Duce non era contento. Ordinò di non dare risalto alla notizia e mandò un telegramma parecchio infastidito a Cencelli: «Tutta quella rettorica a proposito di Littoria, semplice comune e niente affatto città, Est in assoluto contrasto colla politica antiurbanistica del Regime» etc. Di Littoria, però, lo venne a sapere la stampa estera e fu il putiferio: in Italia costruivano una città! E tutti vollero guardare, perfino i russi. Il progetto era dell’architetto Frezzotti (sui manuali è considerato un minore), l’idea di Cencelli, ma il merito se lo prese tutto Mussolini che sei mesi dopo, il 18 dicembre 1932, andò di persona all’inaugurazione.
A quel punto fondare città divenne cosa buona e giusta e seguirono Sabaudia e Pontinia, e poi, una volta attaccato anche l’agro romano, Aprilia e Pomezia (la prima del ’36, la seconda del ’38, quando il capo dell’Onc era già Araldo di Crollalanza). Anche la pianta delle città era cambiata: nelle prime ci sono tre piazze (centro politico, religioso e economico), nelle ultime una sola. Secondo l’onorevole Pino Romualdi, fascista a Salò e fondatore del Msi, fu proprio il Duce a volere Aprilia con una sola piazza: «La voglio con una piazza sola: adesso m’avete stufato con tutte ste piazze» (ordine eseguito dal gruppo di progettisti guidato dall’architetto Concezio Petrucci, che di città ne fonderà altre tre).
• Carbonia
Dopo la colonizzazione dell’Agro Pontino, il regime si prende una pausa imperiale, e va a conquistare l’Abissinia. La Società delle Nazioni (dalle cui ceneri nascerà l’Onu) non la prende bene e impone sanzioni commerciali all’Italia. il 1935 e il carbone per la neonata industria nazionale non arriva più e bisogna produrselo da soli.
Il primo pensiero va al Sulcis, il corno sud-occidentale della Sardegna, zona inospitale e scarsamente popolata. Non c’era proprio carbone, ma lignite, comunque al Duce andava bene lo stesso. Lo chiamò ”il potente carbone italiano”, fondò l’Acai (l’Azienda carboni italiani, una sorta di Eni) e a dirigerla mise il commendator Guido Segre, un ebreo fascista che sarà esautorato con le leggi razziali. In ogni caso, il commendatore fece sfracelli: dalle 78mila tonnellate di carbone estratte nel 1935, si passò a 160mila l’anno successivo, per crescere fino al milione e 295mila del 1940.
Se si vuole estrarre carbone, però, servono i minatori e le case in cui farli abitare e serve anche qualcuno dei servizi che solo una città può garantire. Carbonia, e relative borgate, nascono così. Vicino ai pozzi per evitare gli spostamenti. La città era stata pensata per 12 mila abitanti, ma si capì subito che era troppo piccola e venne scelta una struttura modulare che avrebbe consentito, volendo, d’arrivare a cinquantamila. A luglio del 1949, con la ripresa dell’attività estrattiva nel dopoguerra, il comune di Carbonia contava 49mila residenti su circa 60mila dimoranti.
«L’epopea di Carbonia, però, non è l’arcadia epico-pastorale - pardon: rurale - di Littoria e dell’Agro Pontino», scrive sempre Pennacchi, in cui a colonizzare la terra redenta arrivarono famiglie intere, dal nonno ai nipotini alle donne. A Carbonia no: di donne non ce n’era neanche a pagarle (o forse solo quelle da pagare). Gli uomini arrivarono a frotte cercando guadagno, a decine morirono nelle gallerie, molti ripartirono, qualcuno si fermò. Ma per lunghi anni, niente donne.
Gli uomini, fra l’altro, non erano neanche dei più a posto: secondo un rapporto di polizia, più del 50 per cento della popolazione era costituito da pregiudicati. Oggi però che la popolazione s’aggira stabilmente oltre i 30mila abitanti, non risulta che la percentuale di reati sia superiore alla media nazionale.
• La rivoluzione agraria
il 1938 quando la - fallita - rivoluzione rurale del fascismo si risveglia dalla pausa dell’Impero (che poi, vedi la colonizzazione della Libia avviata da Balbo, è sempre un fatto contadino). Mussolini fa partire le bonifiche della piana della Capitanata in Puglia e di quella del Volturno, in Campania, e poi proclama l’attacco al latifondo siciliano.
Nei primi due casi, circa 50 mila ettari in tutto, si parte come al solito con gli espropri e il progetto di appoderamento. I frutti più interessanti di questa attività stanno nel foggiano: la Segezia progettata da Petrucci (quello di Aprilia) è del 1942, le altre città di fondazione della zona sono Incoronata, Borgo Cervaro e Giardinetto, ultimate nel 1943 e subito requisite dagli americani (a metà degli anni 30 il Consorzio dei proprietari aveva invece costruito i borghi Mezzanone e Siponto).
Il tutto faceva parte di un piano riguardante una superficie di quasi 450mila ettari che prevedeva, con 103 centri abitati, il popolamento di quell’enorme latifondo che era ed è la piana della Capitanata: città rurali, al massimo di tremila abitanti, articolate attorno alla piazza, che avrebbero dovuto servire una comunità di 10/15 mila agricoltori disseminati nelle campagne. Ci sono tutti gli edifici ritenuti necessari: municipio, chiesa, casa del Fascio, caserma dei carabinieri, scuole, ufficio postale, sede e magazzini dell’azienda agraria Onc, dopolavoro, cinema, botteghe e qualche casa civile per commercianti e artigiani.
Nella Capitanata la storia comincia a correre appunto nel ’38. Fino a quel momento i latifondisti avevano cincischiato e allora Mussolini rimanda di nuovo all’attacco l’Onc, stavolta guidata da Araldo di Crollalanza, più diplomatico ma non meno determinato del conte Cencelli: 29.000 ettari di latifondo vengono espropriati e suddivisi in poderi che vanno da un minimo di 15 per le colture legnose a un massimo di 30 ettari per quelle miste cerealicolo-zootecniche.
Anche in Puglia, come a Littoria, di Crollalanza avrebbe voluto chiamare i coloni da fuori, dalle montagne e dal beneventano, ma la popolazione locale, incitata dai latifondisti, protestò e l’Onc dovette cedere. Le cose si rivelarono difficili: i contadini non volevano abitare nel podere come gli imponeva l’Opera, preferivano farsi venti o trenta chilometri andata e ritorno tutti i giorni, ma restando in paese. Di Crollalanza allora li controllava come in caserma e li faceva sorvegliare notte e giorno.
Poi arrivarono gli alleati e a seguire la Democrazia Cristiana e la riforma agraria degli anni 50: i poderi furono grandi dai 2,5 ai 4 ettari e i coloni se ne tornarono a vivere in paese. Dopo qualche anno gli appezzamenti, ulteriormente divisi dalle eredità, tornarono nelle mani di grandi e medi proprietari.
In Sicilia, il progetto era ancora più ambizioso e riguardava mezzo milione di ettari. Nell’isola ci sono almeno 25 borghi fondati dal fascismo: erano parte integrante dell’«assalto al latifondo siciliano» proclamato da Mussolini il 20 luglio del 1939. I proprietari vengono obbligati per legge a dividere, mettere a coltura e appoderare le loro sterminate tenute: ogni 25 ettari al massimo deve esserci una casa colonica, un podere, un contadino con la famiglia, dotato di bestiame e tutto quel che serve. Lo Stato provvederà a strade, canalizzazioni e a far arrivare l’acqua.
Il progetto parte nel ’40 e sarebbe dovuto durare un decennio: solo nel primo anno vengono costruiti 8 borghi e 2.507 case coloniche. Le abitazioni dovevano diventare 20mila e un centinaio i centri abitati: come una spina dorsale attraverso l’intera Sicilia interna, a prosciugare il bacino del consenso mafioso. Comunque, si continua a costruire fino a 1943 inoltrato, cogli americani già sbarcati grazie ai buoni uffici di Cosa Nostra. Anche in questo caso, come in Puglia, il latifondo si riprenderà tutto.
marco palombi