Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 15 marzo 2004
la Repubblica, mercoledì 10 marzo Silicon Valley: il bersaglio gigante»
• la Repubblica, mercoledì 10 marzo
Silicon Valley: il bersaglio gigante». è il titolo-shock con cui ”The San Francisco Chronicle” apre un’edizione speciale sulla nuova emergenza californiana. Job-offshoring: è l’epidemia di licenziamenti di massa decisi dalle aziende che chiudono qui per assumere in Cina e in India. Colpisce al cuore la Silicon Valley - il centro mondiale delle tecnologie avanzate - perché la nuova onda d’urto della delocalizzazione non investe più solo la produzione e i lavori operai; ha superato i lavori impiegatizi più umili come gli addetti ai call-center che danno assistenza telefonica 24 ore su 24 per le prenotazioni aeree o alberghiere. Qui ormai si licenziano a migliaia gli ingegneri e i bancari, i commercialisti e i programmatori di software. La classe politica è in allarme, l’America si sente vittima della globalizzazione e reagisce coi nervi a pezzi: si moltiplicano misure protezionistiche pesanti, come l’esclusione da tutte le commesse pubbliche per le aziende colte in flagrante offshoring.
Il ”San Francisco Chronicle” dà voce a una Silicon Valley angosciata e stremata. C’è il bollettino di guerra dei posti fuggiti sull’altra sponda del Pacifico, azienda per azienda: Hewlett-Packard, 8.000 assunzioni in India, 20.000 licenziamenti qui. Oracle, 4.200 posti in India. Intel 1.400. PeopleSoft 1.000. Cisco 600. E avanti con la lista fino a citare piccole e medie aziende di software: delocalizzano le poche decine di posti che hanno.
• Ci sono pagine intere di testimonianze, i drammi umani dei professionisti licenziati. Come la signora Shelley Ewing, 53enne di Los Gatos, ex programmatrice e project manager da Apple Computer: la sua mansione è stata trasferita a Bangalore, nella Silicon Valley indiana. Racconta la sua via crucis, 18 mesi in cerca di lavoro, «175 risposte alle inserzioni, telefonate alle aziende, interviste coi capi del personale, e la ricerca di aiuti e raccomandazioni tra gli amici, i vicini, gli amici degli amici, gli ex-colleghi, le conoscenze occasionali fatte al supermercato».
La mappa dei 37 lavori più a rischio è redatta sul campo dagli studiosi dell’università di Berkeley Dwight Jaffee e Cynthia Kroll. A fianco ai programmatori di software, agli ingegneri informatici, spuntano mansioni insospettate. Gli impiegati delle assicurazioni che curano le pratiche dei rimborsi. I medici che interpretano le radiografie. Gli esperti fiscali che fanno dichiarazioni dei redditi per le aziende e i loro dipendenti. I legali che preparano contratti. I contabili e i revisori dei conti. Nessuno è al riparo se le sue competenze si possono imparare all’estero, se le sue prestazioni possono viaggiare su Internet, se lavora usando l’inglese come centinaia di milioni di indiani e di asiatici. Da anni le università indiane e cinesi sfornano l’élite mondiale dei laureati, lo sanno le aziende della Silicon Valley che ne hanno reclutati decine di migliaia per farli venire qui.
• Ma impiegarli nel loro Paese offre un vantaggio competitivo inestimabile. Ecco le cifre ufficiali dello U.S. Bureau of Labor Statistics: un programmatore di software a San Jose, nella Silicon Valley, guadagna 77.690 dollari all’anno più l’assicurazione sanitaria e i versamenti sul fondo pensione. Con la stessa qualifica e lo stesso incarico, un’azienda americana può assumere un suo collega a Bangalore e pagarlo 10.900 dollari all’anno. L’industria tecnologica, globalizzata da sempre nei suoi linguaggi e metodi di lavoro, è la prima a inseguire questa gigantesca opportunità: negli ultimi due anni 560.000 posti di lavoro sono stati distrutti nello hi-tech americano e in 15 anni ne spariranno altri 3,3 milioni. Ma dietro l’informatica s’ingrossa la fila delle aziende di servizio che imparano a sfruttare l’immenso divario salariale tra le due rive del Pacifico. Dai commercialisti ai broker che trattano gli ordini d’acquisto in Borsa, mestieri antichi e rispettabili del ceto medio urbano-professionale corrono il rischio di vedersi amputare il 33 per cento dei posti di lavoro. La General Electric Capital, ramo finanziario e assicurativo di un colosso che gestisce fondi pensione e polizze vita per milioni di famiglie americane, ha delocalizzato in India il suo centro di analisti dei mercati. Ernst&Young ha decentrato ogni pratica fiscale: per capire una dichiarazione dei redditi Usa non c’è bisogno di stare seduti dietro una scrivania in America.
• Per una crudele ironia, uno degli studiosi più citati sul declino della Silicon Valley è Ashok Deo Bardhan: economista indiano, una laurea a New Delhi e un curriculum che include la Banca centrale indiana e il centro di ricerche nucleari di Bombay. Oggi lavora alla Business School di Berkeley e dipinge uno scenario crudele per la terra che lo ha accolto: «Nell’ondata precedente della globalizzazione, quando toccava agli operai dell’automobile perdere i posti che venivano trasferiti dall’America all’Asia, la ricetta era: riqualificare, riaddestrare i lavoratori per indirizzarli verso le attività del futuro. Ma oggi per cosa li si può riqualificare? Mi guardo attorno e non vedo un’attività del futuro che assuma qui e non in Asia». Michael Anderson, 55enne ingegnere informatico di Berkeley, ex consulente tecnologico dell’Ibm oggi sopravvive con l’assegno di disoccupazione di 600 dollari al mese: «Eccomi, io sono la nuova middle class americana che sta evaporando sotto i vostri occhi».
L’emergenza offshoring irrompe nell’agenda dei politici. La marea del riflusso protezionista sale a vista d’occhio. Ha cominciato dalla periferia: l’Indiana (non è uno scherzo) fu il primo Stato Usa a escludere una società indiana (la Tata) che aveva vinto un appalto pubblico per fornire servizi informatici. L’esempio è stato contagioso: dal Connecticut al New Jersey, dalla Florida alla California, le proposte di legge anti-offshoring dilagano.
• Adesso anche il Congresso e il Senato di Washington si muovono. Defending American Jobs Act, United States Workers Protection Act, Usa Jobs Protection, Jobs for America Act: sono i titoli delle misure che affollano il calendario dei lavori parlamentari. Il Senato ne ha approvato una durissima la scorsa settimana: esclude dalle commesse pubbliche tutte le aziende che abbiano delocalizzato - anche solo 50 posti di lavoro - negli ultimi cinque anni; sono colpite imprese dal milione di dollari di fatturato in su, cioè anche le piccole e medie. Una norma analoga abbassa la soglia a 15 posti di lavoro.
Porta firme importanti: John Kerry, Ted Kennedy, Hillary Clinton, John Edwards. I capi delle multinazionali reagiscono sdegnati, denunciano la tentazione protezionista come una follia: «Aprite gli occhi - avverte Carly Fiorina, la chief executive di Hewlett Packard - nel mondo di oggi nessun posto di lavoro appartiene all’America per diritto divino». Ma perfino la sua California è impaurita, e in un anno di elezioni presidenziali tutto può accadere.
Federico Rampini