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 2006  maggio 01 Lunedì calendario

E apparve la divina greta Garbo, la Repubblica, giovedì 23 marzo 2006 Giulio Einaudi

• E apparve la divina greta Garbo, la Repubblica, giovedì 23 marzo 2006 Giulio Einaudi. Si insiste nel rievocarlo bisbetico e dispotico, verso i dipendenti poco stipendiati e malpagati. Come del resto Luchino Visconti, prepotente con gli attori e non già con le contesse. Però, chi abitava bambino a Voghera, sede dei più importanti reggimenti di cavalleria, uscendo da scuola (prima della guerra) era abituato a vedere decine di "tenentini" tipo Giulio Einaudi, altezzosi verso la cittadinanza, dalla soglia delle pasticcerie, col "vermuttino" in mano. Quel loro birignao da "scuola di guerra a Pinerolo" venne poi portato da Gianni Agnelli a quote di macchiettismo internazionale (mentre a livello di sketch nelle riviste "Zabum" lo canzonavano De Sica e Melnati e Viarisio). E quei falsetti più acuti e bercianti erano i medesimi di Edgardo Sogno, sempre a Torino. A Roma, no. Quando facevo delle bicchierate in casa, Giulio Einaudi era perfettamente "bien" davanti a Balthus, a Mimì Pecci-Blunt, a Gianni Morandi. Niente "vassallate con gli inferiori". Come d´altronde Luchino: feudale con le comparse della Morelli-Stoppa, ma sull´attenti davanti agli emissari di Togliatti ai tempi delle repressioni staliniste contro i "culattoni" e i "signori".
• Greta Garbo. Un´apparizione al Grande-Bretagne di Atene, con la sua vecchia amica Rothschild. Era domenica, forse non c´era il portiere. Dunque Cécile vigilava i bagagli sul marciapiede, mentre la Divina si spingeva in strada per fermare un tassì col gesto familiare in Fifth Avenue. Chissà perché (forse erano fuori servizio) non si fermavano. Quindi il gesto del braccio venne ripetuto più volte, come in un provino cinematografico di routine, con le rughine del viso che cambiavano impercettibilmente di impazienze, sotto gli occhialoni fatali neri. Ma tutta l´allure e il carisma erano tali che ci si riferiva molto naturalmente (anche a causa del copricapo) alle dee del vicino Museo Archeologico. "Non si vedrà mai più un ciak simile", fu detto.
• Leo Longanesi. Dava giudizi trancianti in tono triste - "E´ un mio amico!", "E´ un cretino!" - sui più noti personaggi milanesi del dopoguerra. Ma un titolo come "Ci salveranno le vecchie zie?" rimane fresco di giornata, come il "Signore mie" di Pirandello (Così è, se vi pare) poi ripreso da Federico Zeri, da par suo. Non per niente, di fronte a nomi longanesiani come "Scalfarotto", le "madeleines" più casarecce rinviano appunto alle zie delle zie delle "casalinghe di Voghera", che sferruzzavano instancabili a maglia con grosse lane gli "scalfarotti": spessi calzettoni talvolta pungenti, da infilare sopra le calze nei giorni rigidi. "Mettete gli scalfarotti, siamo sottozero!". Longanesi certamente le vedrebbe come patronesse o vicemadri in un convitto d´arti e mestieri dabbene. Là dove le orfanelle scarsamente nutrite protestavano: "Sacco vuoto non sta in piedi, reverenda madre!". Oggi, però, piuttosto, "chi ci salverà dalle vecchie zie?", da quando sono ritornate col Politically Correct?
• Thomas Mann. "La Germania esiste dove mi trovo io". Era un suo detto che per noi piccini - indottrinati dal "civis romanus sum" di Scipione l´Africano e di Italo Balbo - suscitava facili battute per l´affinità autoreferenziale con "L´tat c´est moi" del Re Sole e De Gaulle. E magari con "Le style est l´homme même" di Buffon. Non lo dicevano Hesse o Brecht, certo, e tanto meno Rilke o Kafka si sarebbero sognati di far sapere che la letteratura tedesca andava avanti ovunque si posasse il loro pennino. Solo Mann poteva proclamarlo a Hollywood, accanto a Bing Crosby, Bob Hope, Dorothy Lamour. Però, da bambini studiosi e seri, lo si assolveva senza tante storie, perché allora gli autori che non si proteggevano con l´ambita e temibile "egemonia" secondo Stalin e Gramsci venivano malamente sputtanati nel "brago del decadentismo" dagli sbirri di Lukàcs e degli ex -Littoriali. In seguito, ci si è deliziati percorrendo non solo Beverly Hills (in memoria del Doktor Faustus ivi composto, con Greta e Marlene e Schönberg e Adorno e Chaplin a portata di mano), ma i grandi alberghi a cinque stelle ove Mann abitava in Svizzera: il Dolder a Zurigo, il Waldhaus a Sils-Maria, la leggendaria St-Moritz che diventava Italia o Austria o Iran o Grecia o Germania "in residence" a seconda che vi arrivassero gli Agnelli, o Karajan, o lo Scià, o i Niarchos, o i Thyssen, o Günter Sachs. Patrie non complessate da accuse di Formalismo o Astrazione, e con room service 24 ore. Così anche le più autorevoli biografie manniane si dilungano sui camerieri bellocci e tonti per cui l´insigne autore era uno dei tanti vecchi froci che gli facevano dei birignao al breakfast o in ascensore. E poi, nelle fototessere, i più vagheggiati somigliano magari a dei Peter Lorre adolescenti. Per il "quarto d´ora del buonumore accademico" i più birichini sussurravano invece che Adorno - così autoritario e intollerante in cattedra - nei corridoi e sugli ascensori tastava continuamente il sedere a tutte le segretarie come i "pomicioni in tram" delle vignette umoristiche. Ma secondo Anna Magnani, nel dopoguerra neorealistico faceva così anche il suo padrone di casa, un vecchio principe romano che andava su e giù apposta per tutto il giorno con l´ascensorino dello storico palazzo. Né Mann né Adorno, però, nelle loro fantasie apocalittiche alle spalle del silenzio creativo di Schönberg in California, ci spiegavano invece la straordinaria nascita di una musica "tipicamente americana" ad opera di geni tutti originari di ghetti e shtetl ashkenaziti nell´Europa orientale più povera: Gershwin, Weill, Copland, Bernstein, i migliori compositori di Broadway e Hollywood, i massimi violinisti e pianisti del Novecento. E ovviamente anche Dvoràk trasse ispirazioni eccellenti da un soggiorno nel Nuovo Mondo. Però niente veniva da Roma, benché piena di tradizioni musicali antiche e illustri, sia ebraiche sia cattoliche, da Palestrina in giù. In gita a Palestrina, si ricordava piuttosto che appunto lì appare al protagonista del Doktor Faustus non un Barberini signore del luogo bensì un distinto signore da teatro borghese che è poi il solito Diavolo sempre a caccia di uomini. Come quei sistematici dei pisciatoi che abitualmente allungavano le mani sulle anime belle. E di lì, via con le solenni peripezie patologiche e culturali che finiranno per l´attribuire una catastrofica "Apocalisse" più tedesca di Dürer a un compositore ebreo come Schönberg, affaccendato su personaggi quali Mosé e Aronne, e rientrato nella fede atavica col patronato di Marc Chagall. Mentre in una Palestrina simile forse alle cittadine toscane di E. M. Forster, si cantano tutt´altre musiche - opere italiane smandrappate - nella Piccola città di Heinrich Mann, fratello. In tutto questo, neanche una menzione di Palestrina, l´opera di Hans Pfitzner sul compositore omonimo: Giovanni Pierluigi. Eppure - prima dell´incompatibilità politica - ispirò decine di pagine entusiastiche a Thomas Mann, durante la Grande Guerra. Saggi e discorsi nelle Considerazioni di un impolitico, e per i cinquant´anni del compositore, iniziative per una società musicale a lui intitolata, consensi in seguito rimossi... Però, benché l´opera sia grandiosa e si svolga per due atti a Roma, e in un altro vi sia addirittura il Concilio di Trento, con papi e cardinali e tutto, nemmeno a Roma è mai stata eseguita. E nelle biografie appare pochissimo. Né si sa cosa Mann eventualmente opinò di una sensazionale gaffe politica di Richard Strauss: l´opera più pacifista mai composta, Friedenstag ("Giorno di pace") su libretto di Stefan Zweig, nel 1938 hitleriano! (C´è in un meraviglioso cd registrato da Giuseppe Sinopoli a Dresda, giustamente: il massimo del pacifismo col massimo del wagnerismo e del Kitsch).
• Alberto Moravia. Quindicesimo anno dalla morte. Quando compì settant´anni, giacché diventava sempre più elegante e più bello, con una civetteria per i "cache-col" colorati, gliene regalai sette, da una camiceria di Place Vendôme che lui e Goffredo Parise apprezzavano. Ribatté, con piacere: "Sette strangolini!". E poi: "E´ un buon augurio?". Ora lo ricorda puntualmente Goffedo Fofi: "Il suo modo di lavorare, così regolare e "impiegatizio" sapeva di esorcismo, il suo "impegno" e le sue prese di posizioni pubbliche sembravano dettate dal dovere più che dalla simpatia, da una adesione reale". Poi, però: "Ma averne, oggi, di Moravia!". Facendo un flashback generazionale, si può soprattutto rammentare che le titubanze crescevano man mano che i suoi romanzi si moltiplicavano, in epoche ormai di Proust e Musil e Joyce, e non più di Balzac o Zola. Anzi, ricordando che Brahms ha composto solo quattro sinfonie, e Sibelius e Nielsen sei o sette, dove forse hanno detto e ripetuto tutto ciò che avevano, ci si domandava semmai "come recepire" venti o più sinfonie di un compositore del secondo Novecento. Un altro tema della pre-modernità. Allora si parlava di "romanzi da aeroporto", circa la facilità e traducibilità narrativa per un pubblico internazionale usa-e-getta. Oggi si discorre piuttosto di fruibilità nell´ambito della Comunità Europea allargata, a proposito dell´adozione delle griffes multinazionali al posto dei termini dialettali e locali, per mettere i testi alla portata dei giovani e dei pensionati e dei detenuti di Oslo o Sarajevo o Breslavia o Bilbao. Però intanto si insiste parecchio su tutti i sapori più etnici, in ogni campo, dalla cucina al rock. Dunque, quante comitive giovani prenoterebbero adesso una cena in un "ristorante internazionale Moravia", senza tocchi meticci o nomadi o alternativi o trasgressivi e neanche minimal di confine? Ma del resto, ai convegni correnti che si chiedono come e perché Calvino e Morante e Pasolini diventano "cult", o meno, ci si potrebbe anche domandare perché Tina Pica e Wanda Osiris nel tempo lo diventano, e Moravia o Ungaretti invece no.