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 2004  giugno 20 Domenica calendario

Settecentocinquanta anni fa, nel 1254 (non sappiamo il giorno e il mese), nasceva a Venezia Marco Polo, mercante che deve in qualche modo la sua fama al carcere

• Settecentocinquanta anni fa, nel 1254 (non sappiamo il giorno e il mese), nasceva a Venezia Marco Polo, mercante che deve in qualche modo la sua fama al carcere. Difatti, se non lo avessero fatto prigioniero durante la battaglia di Curzola (1298) non avrebbe incontrato Rustichello da Pisa, compagno di cella a Genova e modesto narratore di storie cavalleresche cui dettò il racconto della sua missione in Oriente al servizio del Grande Can Qubilai. Unica fonte di prima mano su quelle terre sconosciute, il libro, così ricco di dati antropologici, geografici e merceologici da fugare il dubbio che si tratti di un falso, ebbe immediato successo e fu ricopiato in varie lingue. Tra tutte le versioni, purtroppo quella originale andò persa. Neppure il titolo con cui l’opera è conosciuta, Milione (da Emilione, nome con cui era nota la famiglia Polo), è quello che l’autore scelse da apporre sul manoscritto redatto da Rustichello, se mai ne scelse uno, ma quello che si affermò nella consuetudine. Un lungo lavoro, per fare luce nel groviglio filologico delle copie, fu compiuto da Luigi Foscolo Benedetto. Diviso in 209 capitoli, molti dei quali piuttosto brevi, il Milione inizia con un prologo che riassume la storia del viaggio. In sintesi, Niccolò Polo, padre di Marco, e suo fratello Maffeo, si trovavano a Costantinopoli nel 1250 e decisero di andare in ”Soldania”, emporio veneto della Crimea. Di lì proseguirono fino a giungere a ”Bolgara” (oggi Kazan), dove furono accolti da ”Barca”, un re tartaro il cui regno si estendeva su una parte della Russia e della Siberia. Poi, dopo dopo 18 giorni di viaggio nel ”diserto” arrivarono a Buccara (Uzbekistan), dove dimorarono tre anni.Qui Niccolò e Maffeo incontrarono un ambasciatore che stava tornando da Qubilai, e poiché sapeva che il Grande Can non aveva mai visto un ”latino”, propose loro di incontrarlo. Il papà e lo zio di Marco Polo accettarono ”volentieri”. Il viaggio durò un anno. Al loro arrivo i due furono accolti con festeggiamenti e poi interrogati ”del Papa e de la chiesa di Roma e di tutti i fatti e stati de’ cristiani”. Poi il Grande Can li pregò di recare al Papa un messaggio e mandò con loro un barone di nome Cogotal come scorta. Il messaggio consisteva in un invito. Il pontefice doveva mandare a Qubilai uomini sapienti che sapessero dimostrare ”come la cristiana legge era la migliore”. Inoltre i fratelli Polo dovevano portare al sovrano mongolo olio della lampada che arde al sepolcro di Cristo a Gerusalemme. Infine, il Gran Can diede ai messaggeri una tavola d’oro con la quale potevano ottenere, in tutte le sue terre, quello di cui avevano bisogno. Dopo molti giorni di viaggio, Cogotal cadde malato, non poté più proseguire e si fermò. Con un viaggio di tre anni, Niccolò e Maffeo Polo giunsero a Laiazzo, in Armenia Minore, porto sul golfo di Alessandretta (oggi Iskanderum), tappa obbligata, durante il Medioevo, per chi si inoltrava nella Grande Armenia e Persia. A San Giovanni d’Acri, principale porto per la Terra Santa, i due seppero che il Papa, Clemente IV, era morto. Quando seppero della morte i mercanti andarono dal legato pontificio in Egitto, ”Tedaldo da Piagenza, uomo di grande ottulidade” (autorità), il quale disse loro che il messaggio che recavano era molto importante e di aspettare che fosse fatto un nuovo papa. Nel frattempo, i due tornarono a ”Vinegia”, Venezia, e ”quivi trovò messer Niccolao che la sua moglie era morta, e erane rimaso uno figliuolo di xv anni, ch’aveva nome Marco”. Dopo due anni di attesa, i due fratelli videro che il Papa non si faceva e partirono comunque col ragazzino, Marco, per San Giovanni d’Acri, dove chiesero a Tedaldo il permesso di tornare dal Gran Can Qubilai, passando prima per la Terra Santa a prendere l’olio della lampada del Santo Sepolcro. Compiuta questa missione, tornarono di nuovo a Laiazzo, dove appresero che proprio il legato pontificio era stato fatto Papa col nome di Gregorio X. Questi li convocò a San Giovanni d’Acri dove li ricevette con grandi onori e li rispedì dal Grande Can insieme a ”li più savi uomini di quelle parti”, frate Niccolò da Vicenza e frate Guglielmo da Tripoli. La missione ora era composta da cinque persone, vale a dire Marco Polo, suo padre e suo zio, i due frati. Ma questi ultimi, a Laiazzo, attaccata dal sultano mamelucco Baybars I, ebbero paura di andare oltre. Così i mercanti proseguirono da soli e giunsero al Grande Can, in una città di nome ”Chemeinfu”, che sarebbe K’ai-ping-fu, a nord del fiume Luan, residenza estiva di Qubilai dal 1256. ’Or avvenne che questo Marco, figliuolo di messer Niccolò, poco istando nella corte, aparò (imparò, ndr) li costumi de’ Tartari e loro lingue e loro lettere, e diventò uomo savio oltre misura”. Qubilai lo mandò in una missione che durò sei mesi, che il ragazzo svolse in modo egregio. Tanto egregio che stette col Gran Can per XXVII anni, sempre in viaggio come ambasciatore. E questa ”è la ragione perché messer Marco seppe più di quelle cose che niuno uomo che nascesse anche (mai, ndr)”. Al contrario, probabilmente, il padre e lo zio restarono alla corte di Qubilai. Come avvenne che il Grande Can lasciò tornare i tre a Venezia? Si deve a una questione dinastica. La regina Buluyan, figlia di un funzionario di Hülägü, il sovrano mongolo che mise a ferro e fuoco Bagdad, in punto di morte chiese al marito ”Argon” (Aryun) di prendere un’altra moglie del suo stesso lignaggio, e mandò tre ambasciatori al Gran Can, Oularai, Pusciai e Coia, perché tornassero con una donna con questi requisiti.
• Il fortunoso ritorno Oularai, Pusciai e Coia videro i Polo, tra cui Marco appena tornato da una missione in India, e chiesero a Qubilai che li lasciasse andare con loro. Il Gran Can, molto malvolentieri, disse di sì fornendo tre tavole d’oro e un certo numero di navi ciascuna con quattro alberi. Dopo tre mesi di navigazione, la spedizione giunse a Giava ma intanto Argon era morto. Così, i tre fratelli presero la via di Venezia, passando per Trebisonda, sul Mar Nero, Costantinopoli e Negroponte, scalo della Calcidica. Questa la sintesi del lungo soggiorno della famiglia Polo in Oriente, cui segue, nei successivi capitoli del libro, una narrazione più approfondita delle tappe più importanti o dei luoghi che i mercanti conobbero direttamente o per sentito dire. Bagdad e i saracini Di Baudac, che sarebbe Bagdad, ”una grande cittade, ov’è lo califfo di tutti li Saracini del mondo, così come a Roma il papa di tutti li cristiani”, Marco Polo racconta che è attraversata da un fiume molto grande per il quale si può raggiungere il ”mare d’India” (Oceano indiano) come fanno molti mercanti. Lungo il corso del fiume, che poi è il Tigri, c’è una città di nome Bascra (Bassora) intorno alla quale nascono ”i migliori dattari del mondo”. Il califfo di Bagdad (al-Musta’sim, ultimo degli abbasidi), secondo Marco Polo, custodiva in una torre il maggior tesoro in oro, argento e pietre preziose che mai fosse stato posseduto. Ma nonostante questo, non provvide a difendere la città dalle armate di Alau (Hülägü). Il fratello di Qubilai, dopo la conquista di Bagdad, avvenuta nel 1252, per punirlo lo fece rinchiudere nella torre, con tutte le sue ricchezze, ma senza alcun cibo. Dopo quattro giorni, al-Musta’sim fu trovato morto e mai più a Bagdad risiedette un califfo.
• Il signore dei signori La parte più lunga del Milione è dedicata al Grande Can, titolo che in lingua tartara vuol dire ”lo signore degli signori”. Quando detta il libro nel 1298, Marco Polo non sa che Qubilai è morto da quattro anni. Fisicamente, scrive Rustichello, ”è di bella grandezza, né piccolo né grande, ma è di mezzana fatta”. Inoltre ”è carnuto di bella maniera”, ”troppo bene tagliato di tutte le membre”, ha ”lo suo viso bianco e vermiglio come rosa, gli occhi neri e begli, lo naso bene fatto”. Ha quattro femmine che tiene ”come moglie” e il figlio maggiore di costoro deve ”essere per ragione signore de lo ’mperio”. Ma ha anche ”molte amiche” scelte nella tribù Ongrac. La città in cui Qubilai dimora a dicembre, gennaio e febbraio è Canbalu, altrimenti detta Pechino, in un palazzo le cui sale e camere sono tutte coperte di oro e argento e scolpite di ”istorie di cavalieri e di donne”. Le mura che lo proteggono sono circondate da prati e alberi, dove si trovano molte bestie selvatiche, come cervi bianchi, caprioli, daini, ermellini e altro ancora. Molti pesci si trovano in un lago dove entra e esce un fiume attraverso una rete metallica in modo che non possa scappare nessun pesce. Sorvegliato a vista da dodici cavalieri, ma non perché corra qualche pericolo, Qubilai a corte siede a un tavolo più alto degli altri, il volto rivolto a mezzodì, insieme ai famigliari, mogli, figli, nipoti. Coloro che si occupano delle vettovaglie del Can, sono baroni e hanno una fascia di seta e oro sul naso e sulla bocca in modo che ”il loro fiato non andasse nelle vivande del signore”. Amante della caccia, oltre che delle libagioni, che pratica con leoni, uccelli rapaci e così via, festeggiato in particolare nel giorno della sua nascita, Qubilai fa battere una moneta prodotta con la corteccia di gelso, albero le cui foglie mangiano i bachi da seta. In realtà non si tratta di tutta la corteccia ma di una buccia sottile che è attaccata alla corteccia. Con essa si fanno carte nere, di vari formati e valore, accettate ovunque come pagamento. Chi le rifiuta rischia la pena capitale. Nel Catai, che corrisponde alla Cina del Nord, soggetta in quel periodo alla dominazione mongola, scrive Marco Polo che si beve un vino fatto col riso e spezie, ”chiaro e bello”" e che inebria ”più tosto” perché ”è molto caldo”. A proposito di calore, nel Milione si descrive il carbone, pietre nere che vengono ”cavate” dalle montagne, ardono come corteccia ma più a lungo.
• le scoperte del veneziano Tanti generi merceologici nominati nel libro, in ordine alfabetico: aloe, ambra, andanico (ferro indiano), argento, bambagia, berci (legno rosso usato per tintura), biade, biscotto (di pesce secco), calciadonio, canfora, chemmisi (latte di giumenta), coraglio (corallo), cubebe, diamanti, diaspido (quarzo opaco), ebano, farina d’albori (il sagu, sostanza farinosa contenuta in alcune palme), feltro, ferro, fiele, galanga (radice aromatica dell’Alpinia galanga), ghele (seta del Geluchelan), merobolani embraci (vari frutti di cui si usa il nocciolo seccato), miglio, moscado (muschio di origine animale), musolin (mussolina), noci d’India, noci moscade, olio di noci, olio di pesce, oppio, orzo, pellicce (di volpi, coccolini, ermellini, zibellini), pepe, pistacchi, poponi, porcellane, rabarbaro, rame, rubini, sale, sandalo, spigo, spodio, topazi, tuzia, zafferano, zenzero e zucchero. Dopo avere detto di alcune province e città del Catai, come Giogui (Cho-chou), Taiamfu (T’ai-yuan-fu), Caitui (forse Chang-chou), Quegianfu (Hsi-an-fu), Cuncum (forse Han-chung), Mangi (Cina del Sud?) e Sardanfu (Chen’g-tu-fu), Marco Polo racconta del Tibet. Dove i viandanti gettano nel fuoco la notte delle canne che producono, al contatto con le fiamme, scoppi che tengono lontani ”li leoni e orsi e altre bestie fiere”. Sulle strade, al passaggio dei mercanti, le vecchie mostrano le loro figliuole e le offrono ai mercanti di passaggio. In cambio, i mercanti donano gioie alle ragazze. Servono per la dote, riferisce Marco Polo. Appunti su tibet e giappone Nella provincia del Tibet, ci sono gli incantatori e gli astrologi più bravi. E grandissimi cani, mastini ”grossi come asini”, capaci di catturare le bestie selvatiche. Poi il racconto riprende con altre province del Catai, come Gaindu, dove ”vino di vigne non ànno”, Caragian, Ardandan, Mien, Gangala, Caugigu, Aniu, Toloman, Cugiu e altre ancora. Un capitolo è dedicato al Giappone, l’isola di Zipangu. Colà le genti sono ”bianche, di bella maniera e belli”. Il palazzo del signore è molto grande e ”coperto d’oro”. Un rivestimento presente anche nelle camere, sale e finestre. I giapponesi hanno ”perle assai” e sono ”rosse e tonde e grosse”. Per mettere le mani su queste ricchezze il Grande Can mandò una flotta che però fu distrutta da un vento fortissimo, detto dai giapponesi ”Kamikaze”, vento divino, e considerato un aiuto del cielo. Quanto alla religione, gli ”idoli di queste isole e quelle del Catai son tutte d’una maniera”. Usanza giapponese certamente non vera, riferita da Marco Polo, è quella di mangiare i prigionieri per i quali non ci sia nessuno in grado di pagare il riscatto.
• Malcometto a mogadiscio Il toponimo Madegascar indicherebbe, secondo quanto convengono gli studiosi, non il Madagascar ma Mogadiscio. Dove abitano ”saracini” che adorano ”Malcometto”. Dove nascono ”più leofanti” che in altra ”parte del mondo” i cui denti si comprano e si vendono in quantità pari solo a quella di Zanzibar. Qui non si mangia altra carne che di cammello e si dice che sia la più sana e buona al mondo. Al contrario nell’isola di Zanzibar, la gente è idolatra, pagana, e così grossa di fattezze che dovrebbe essere più alta per avere proporzioni umane. E ”sono tutti neri e vanno ignudi”. E hanno ”gli capegli tutti ricciuti”. Sul finire troviamo anche una descrizione della Russia, in pratica una entità statuale appena nata. I russi sono cristiani alla maniera dei greci, spiega Polo, ortodossi diremmo oggi. Non sono soggetti a nessuno se non al re dei Tartari. E poi ”la gente si è molto bella, i maschi e le femine, e sono bianchi e biondi”. ’D’una gran battaglia”. Questo è il titolo dell’ultimo capitolo. Sui fatti d’arme che oppongono tartari di ponente a tartari di levante, per il dominio su una provincia, si chiude il Milione. Barga, ovvero Berke, e Alau, sarebbe a dire Hülägü, entrambi della schiatta di Cinghy Cane (Gengis Can), si scontrano in un combattimento iniziato al suono dei naccheri cui segue una pioggia di saette. Dopo le frecce, i contendenti diedero mano alle spade ”ché gli cavagli andavano nel sangue insino a mezza gamba”. Alla ”perfine”, Barga, sconfitto, lasciò il campo. Tutti i morti furono arsi, usanza di molte delle terre visitate da Polo. Qualcuno considera questo racconto bellico troppo breve e conclude che il Milione potrebbe non essere finito. Oppure che il libro si è concluso improvvisamente per il mutare delle fortuite circostanze carcerarie che avevano fatto incontrare Polo e Rustichello. Fortuite sono anche le circostanze grazie alle quali i tre mercanti veneziani poterono accomiatarsi dal Grande Can per tornare nella loro patria. Un tema già menzionato nel prologo e ribadito nelle righe conclusive. Se non ci fosse stata la missione della regina Bolgara, Niccolò, Maffeo e Marco non avrebbero mai fatto ritorno. E non avrebbe potuto, quest’ultimo, raccontare quanto vide nel suo cercare per il mondo che non ha eguale in nessun uomo, ”né cristiano né saracino né tartero né pagano”. Antonio Armano