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 2001  dicembre 12 Mercoledì calendario

Il 19 ottobre del ’44, come racconta nel suo Vento divino Rikhei Inoguchi, uno dei padri dei ”samurai del cielo”, l’ammiraglio Takijiro Onishi, comandante della Prima Flotta Aerea della Marina Imperiale, plana sull’isola di Luzon, arcipelago delle Filippine

• Il 19 ottobre del ’44, come racconta nel suo Vento divino Rikhei Inoguchi, uno dei padri dei ”samurai del cielo”, l’ammiraglio Takijiro Onishi, comandante della Prima Flotta Aerea della Marina Imperiale, plana sull’isola di Luzon, arcipelago delle Filippine. E dà il via ai preparativi per la costituzione, in seno al 201° Stormo, di un Corpo Speciale di Attacco. Un’unità di ”piloti-a-perdere” che dovrà, con missioni suicide, distruggere le navi nemiche nelle acque delle Filippine, di Formosa e del Giappone. L’idea era venuta al colonnello Eiichiro Jyo, comandante della portaerei Ciyoda, che nel luglio dello stesso anno, disse: «Non c’è più tempo per sperare di distruggere con mezzi ordinari le portaerei avversarie, numericamente troppo superiori. Prego dunque di formare al più presto un corpo aereo speciale i cui piloti saranno destinati a gettarsi direttamente contro le navi nemiche». L’ammiraglio Onishi ne affidò il comando al capitano Yukio Seki. Il colonnello, Rikhei Inoguchi, chiamò il reparto ”kamikaze” (vento divino). Una leggenda racconta infatti che nel 1274 e nel 1281 i samurai riuscirono a respingere gli assalti delle flotte mongole di Qubilai Khan con l’aiuto provvidenziale di tremende burrasche mandate dal Cielo.
• La rinascita dei kamikaze si deve all’inaccettabile senso di umiliazione che aveva preso gli Alti Comandi nipponici. «Non poter tenere il passo della macchina da guerra americana, meglio preparata, meglio equipaggiata, forte sui mari e soprattutto padrona dei cieli del Sol Levante!» Fecero la loro parte le incomprensioni tra Marina e Aviazione. Ecco allora riemergere dal passato, come un fantasma nella frustrazione, i samurai e il loro severissimo codice di comportamento, il Bushido. La classe guerriera giapponese è stata soggetto di ritratti differenti. Quello classico nipponico, romantico-agiografico, tracciato nel celebre saggio L’Anima del Giappone di Inazo Nitobe. Quello sprezzante dei Cavalieri del Bushido di Lord Russel da Liverpool, che ne mette in evidenza i lati crudeli e necrofili, non a caso fatti propri dall’estrema destra occidentale. E se tutti ricordano l’harakiri del popolarissimo scrittore Yukio Mishima, pochi sanno di emuli minori, come il giovane attore che si scagliò col suo monoplano su una casa dei sobborghi di Tokyo nell’intento di uccidere il nemico giurato, rivale professionale e in amore. Intento fallito. Come sottolinea sarcasticamente Russel, l’inutilità contrassegna spesso questi atti di disprezzo per la vita
• Secondo Raymond Lamont-Brown, autore di Japan’s Suicide Samurai, ”strategie kamikaze” si sono succedute a partire dal 1931. Già nel settembre di quell’anno, truppe giapponesi erano sospettate di aver compiuto missioni suicide contro l’esercito cinese in Manciuria e poi forse anche nell’assalto a Pearl Harbor. Per certo viene dato l’utilizzo di mini-sommergibili scagliati contro le chiglie delle navi britanniche di stanza nel Madagascar, nel ’42, e condotti da ”samurai-subacquei” Nelle ultime fasi della seconda Guerra Mondiale, sono gli stessi piloti, senza ricevere ordini precisi, che si vanno a schiantare contro i nemici. Due gli episodi che divengono leggendari: quello del maresciallo Yoscima Nagakaua, che abbatte un bombardiere B24 americano col suo minuscolo Gekko, e quello del capitano Naosci Kanno, che sperona un B24 australiano mandandolo a inabissarsi.
• Oltre che di una consistente scorta di pasticche d’anfetamina, come si ipotizza nel libro Droghe di guerra, il 201° Stormo Reparto Kamikaze è dotato di velivoli da caccia Zero, a elica. Questi aerei serbano in pancia un’unica bomba, ma da 250 chilogrammi. Scortati da altri caccia, hanno il compito di centrare possibilmente le portaerei. Le istruzioni sono precise: avvicinarsi seguendo una rotta a bassissima quota, 10-15 metri. Oppure ad altissima quota, su su fino a 6.000 metri. Nel primo caso procedere a volo radente sull’acqua. Una volta nei pressi dell’imbarcazione fare una violenta impennata, portarsi a 4-500 metri di quota e poi scendere in picchiata senza pietà per se stessi. Se si sceglie l’avvicinamento ad alta quota, una volta individuato l’obiettivo iniziare la picchiata. Ma non a perpendicolo sulla nave, per evitare il rischio di perdere il controllo del mezzo.
• Colpire preferibilmente gli ascensori delle portaerei o il ponte di comando. Per quanto riguarda le altre navi, mirare alle sovrastrutture centrali. Gli ordini sono precisi, ma gli addestramenti lasciano a desiderare. L’esigenza di portare gli attacchi il più rapidamente possibile, fa sì che il terribile tirocinio duri non più di una settimana-dieci giorni. Materie di corso: Rudimenti di Decollo. Volo in Pattuglia. Attacco Finale al Bersaglio. I volontari sono moltissimi. Molti di più degli aerei disponibili, sfornati a singhiozzo dalle industrie nipponiche. Dunque, numero chiuso e liti per entrare e per le graduatorie. In un paese dove la morale del dovere è rigidissima e dove l’individuo, come spiega Montanelli, non esita a immolarsi per l’onore, senza neppure aspettarsi una pensione per la vedova.
• Riportano le cronache di guerra che la prima missione ha luogo il 25 ottobre 1944, ai danni di una nave americana. Da quel giorno, fino 15 agosto 1945, data dell’ultima missione, i piloti del Sol Levante ne portano a termine oltre 2.000. Il tasso di successo è del 20 per cento. Statistica non proprio lusinghiera e forse gonfiata dalle cifre propagandistiche sul numero degli attacchi: le navi statunitensi colpite risultano 300 e alcune di queste sono solo danneggiate. La lotta alla fine e sempre tra balene e moscerini.