Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 9 maggio 2004
l 17 febbraio del 1904 debutta alla scala di Milano la Butterfly di Giacomo Puccini
• l 17 febbraio del 1904 debutta alla scala di Milano la Butterfly di Giacomo Puccini. La Prima, attesa con ansia dai melomani, si conclude con una durissima contestazione all’autore da parte dei loggionisti. Le repliche vengono bloccate e i giornali dedicano ampie cronache a quanto accaduto. Puccini, contestato con violenza dal pubblico e dalla critica, è costretto a rimettere mano all’opera. Solo il 28 maggio 1904 la Butterfly torna in scena, modificata, al Teatro Grande di Brescia. È un enorme successo, e la critica rivaluta la Butterfly che in seguito viene considerata uno dei lavori più riusciti del musicista toscano.
• Un’anteprima
’Scrivo alla vigilia dell’avvenimento su cui editore, autore e pubblico fondano le più liete speranze: e non so tacere una prima riflessione sull’inutilità o, meglio, sui danni del mistero, che per volere editoriale circonda l’opera pucciniana. Là infatti ove ogni certezza svanisce quivi più facile s’apre il giuoco alla fantasia. [...]”. ”Ciò che colpisce favorevolmente è l’equilibrio delle innovazioni parziali dell’opera, sia nelle formazioni melodiche dei varii punti, sia nell’armonico sostegno.
Puccini non rinuncerà mai ai suoi accordi di nona o all’abuso di quinte [...]; ma in pari tempo non rinunzia alla visione sicura della scena ed al sicuro alternare degli effetti. Potrà stancarvi certo periodare enfatico, certo ansimare d’accordi: non riuscirà mai inefficace la vellicatura sensuale della frase, la chiusura sicura del pezzo. Inoltre il crescendo dell’interesse musicale e la varietà in Butterfly sono curate con geniale oculatezza”.
Luigi Alberto Villanis
La Stampa, 17/5/1904
• recensioni alla prima
’Un bel teatro è come la verità: pieno d’incanto per un lato, pieno per l’altro di pericoli. E questi ieri sera alla Scala si concretavano nell’attesa impaziente, nelle speranze eccessive, nelle ingenti pretese; mentre l’incanto sfavillava nelle toilettes superbe dei palchi mirabilmente affollati, nella ricca rappresentanza di artisti e letterati; noto fra gli altri i maestri Mascagni, Vidal di Madrid, Messager dell’Opera Comique, Orefice, Cilea, Jensen di Francoforte, tutti i critici dei principali giornali d’Italia; fra i letterati Butti, Traversa, Colautti, Giacosa e molti altri di cui ora mi sfugge il nome. E passo alla cronaca della serata.
Atto primo.
Alle ore 20,45 il teatro leggermente si oscura, un zittio lungamente ripercosso prepara il pubblico all’attenzione rispettosa del lavoro; e i violini attaccano vigorosamente, sotto la guida del Campanini, l’allegro fugato iniziale. Il sipario si leva scoprendo lo scenario suggestivo [...]. Si verifica quanto noteremo tra poco, cioè la freddezza degli ascoltatori, solo pronta a dileguare quando canto l’invito maliardo della passione. [...].
Il silenzio del pubblico, solo interrotto da qualche leggero bisbiglio, continua imperturbato; [...]. Ed eccoci finalmente al duetto d’amore; l’oasi ove il pubblico spera riposare dalle fatiche di una lunga traversata. [...] . Un ultimo scoppio dinamico delle sonorità strumentali e vocali guida alla perorazione finale. Il primo applauso scoppia non senza contrasti. Zittii violenti troncano ogni ulteriore entusiasmo. Il pubblico si riversa tumultuosamente nel foyer, discutendo e commentando insofferente e nervoso. Sono le ore 21,38.
Secondo atto.
[...]. Il pubblico comincia ad essere mal disposto [...], un tentativo di applauso abortisce completamente. [...]
Intermezzo.
[...] Non si sfaccetta impunemente, anche di fronte al mediocre intenditore un vetro, gabellandolo per un brillante. E l’uditore, il quale non trova adeguata la prolissità al valore, ricorda che l’astensione non può surrogare la mancanza di intensione - e al tentativo di applausi risponde con risa e zittii. Oramai un senso profondo di sfiducia, non sempre giustificato, pesa come cappa di piombo sull’intero teatro. Qualcuno invoca persino il suicidio finale di Butterfly come scongiura contro una peggiore catastrofe; e quando il ritorno minaccioso del tema del padre annuncia la fine della sciagurata, un senso di vero sollievo passa in tutti. [...]. Scende la tela. Una severità terribile spegne ogni applauso. Sono le 23,40.
La Musica
[...] L’insistenza monotona di quelle nenie giapponesi, unita all’insistenza enfatica tanto cara alla musa pucciniana, ne accresce forse anche il fascino, ma ne peggiora sempre l’artifizio. Così pure la ricerca dell’originalità, intesa a seguire il carattere di alcuni temi, accresce alla sua volta l’artificio armonico del nostro autore, già tanto artifizioso. [...]”.
Luigi Alberto Villanis
La Stampa, 18/5/1904
• Madame Butterfly, opera nuova di Puccini, cadde iersera alla Scala. L’enorme lunghezza di ambedue gli atti stancò il pubblico. Indispose l’uditorio la ripetizione degli spunti notissimi nelle altre opere di Puccini contrastanti colla vacuità del resto dell’opera. Qualche brano pregevole annegò nella monotonia; l’azione deficiente contribuì all’insuccesso. Fu apprezzatissima la protagonista Rosina Storchio.
L’Avanti, 19/5/1904
[...] Le melodie giapponesi abbondano, specie nel primo atto. [...]. Il suo istinto drammatico non esita mai, né s’inganna. [...]. Il lungo atto - troppo lungo - ascoltato freddamente non è applaudito al chiudersi della scena che da una parte del pubblico. L’altra parte vorrebbe imporre silenzio agli applauditori. Il contrasto dura un po’. Qualche segno di disapprovazione troppo plebeo rinfranca le approvazione e le fa più calde e più fitte.
Dopo una prima chiamata agli esecutori, il maestro Puccini, reggendosi su un bastone, si presenta due volte al proscenio. Il pubblico convenuto nel teatro colla certezza di assistere a una nuova vittoria del suo autore prediletto, è passato senza transazioni dall’eccesso dell’ottimismo a una censura aspra, che condanna senza discutere, che non distingue e non ricorda ciò che nel corso dell’atto gli è pur piaciuto e avrebbe meritato da lui almeno un cenno di riconoscimento.
Accade sempre così. L’ultima impressione cancella le precedenti. La troppo palese affinità melodica della frase che chiude l’atto sviluppandosi in perorazione, con una frase della Bohéme, ha fatto dimenticare ogni cosa. [...] Che questo insistere ostinato del maestro sopra uno stesso effetto melodico sia imprudente, pericoloso ed anche poco piacevole, non si può negare. Ma, d’altra parte, non è tal peccato da meritare lo sdegno del pubblico. [...]. pur anche necessario che al maestro si sia fatta palese la necessità di molte e coraggiose abbreviature. [...].
E veniamo al secondo atto. [...].atteso con impazienza come il migliore. Il libretto stesso lo prometteva più ricco di azione, di passione e di interesse drammatico. Ma l’esito neppure questa volta corrispose all’aspettazione. Colpa tutta dell’autore? O in parte anche del pubblico? Certo gli umori della elegantissima folla erano acri ed ostili. [...]. Anche quest’atto è soverchiamente lungo. Già innanzi l’intermezzo il pubblico appariva stanco. Così molti bellissimi suoi dettagli non furono notati; [...]. L’intermezzo sembra a molti un inutile ritardo.
Oramai si vuol giungere alla fine il più presto possibile. Così i pezzi che seguono sono distrattamente ascoltati; il suicidio di Butterfly non desta commozione alcuna. L’opera dunque non ha superato la prova. [...]. Ciò non ostante io persisto nel credere che l’opera, abbreviata e alleggerita, si riavrà. [...].
C’è in teatro gran parte della Giunta; ci son deputati, senatori, insomma una folla varia, insigne. La serata agitatissima ebbe la sua più caratteristica espressione nell’intervallo tra il primo ed il secondo atto. Il foyer era così stipato di gente che vi si circolava a fatica; ed era riempito di strepito e di fumo. Le discussioni erano calde: assumevano l’asprezza di veri dibattiti. Tutti i dialetti si parlavano nel vasto salone.
Durante il secondo atto l’atrio fu quello che partecipò maggiormente con rumori allo spettacolo. In quel breve spazio lo scambio delle reciproche insolenze era vivissimo e continuo, tra le invocazioni al silenzio degli spettatori più equi che volevano ascoltare con calma per giudicare con rettitudine. Finito lo spettacolo, il pubblico si disperse come fiaccato da una sera di eccessiva tensione nervosa. Ancora uscendo scambiò le ultime scaramuccie. Un signore esprimeva un giudizio assai violento sul maestro Puccini: un amico di questo intervenne con clamorose parole di protesta alle quali i presenti si associarono. [...].
L’incasso fu ieri sera di 20 mila 500. questa cifra va molto aumentata se si pensa al bagarinaggio esercitato su larga scala. Fino all’ultimo momento i bagarini importunavano i passeggieri con le offerte di posti.
Corriere della Sera, 18/5/1904
• Una lettera al corriere
Egregio signor direttore,
Non so s’ella crederà opportuno pubblicare questa mia lettera; tant’è, io la scrivo quasi a mio sfogo personale, a sollievo della irritazione con la quale sono uscito iersera dalla Scala. Io non sono critico, né musicista [...]. Ma c’è una cosa della quale mi sento competente, ed è l’educazione. Ora, mi permetta, iersera sul palcoscenico si avrà avuta un’opera più o meno degna di applausi; in platea però so benissimo che non si è avuta nessuna cortesia. Questo Giacomo Puccini era fino a poche ore prima che si alzasse la tela l’idolo del pubblico; le sue melodie sono facilmente in tutte le orecchie e su tutte le bocche, la sua popolarità è fatta di simpatia. Pure, è bastato che egli abbia dato un’opera nuova, che quest’opera non sia tutta piaciuta, perché il prediletto sia diventato poco meno che un delinquente.
Iersera gli si è data la caccia con un furore selvaggio: si è travolto nel giudizio ogni sorta di elementi estranei e disturbatori per colpire l’opera e l’autore. Perché? Ma tutta questa gente non sbaglia mai? Penso che in teatro ci saranno stati affaristi che prevedono male un affare, avvocati che perdono delle cause, ingegneri che sbagliano dei calcoli. Se a ogni errore di costoro sorgesse una consimile ira punitrice? [...] la storia del teatro è così piena di sentenze sbagliate, rettificate poi dal tempo, che a me sembra che ognuno di noi recandosi a dar giudizio di un’opera nuova dovrebbe proporsi per onestà e per un senso di gentile solidarietà umana, una calma, una intensità di attenzione austerissime.
Iersera niente di tutto ciò. È bastato che si gonfiasse un poco nel camminare la veste della signorina Storchio perché scoppiasse un urlo. E quest’urlo, che mi permetto di chiamare stupido, contribuiva a scaldare di malevolenza e di astio la sala. Di astio, sì. Io ero nell’atrio in fondo alla sala, e ho assistito a scene disgustose. C’era della gente che a ogni tentativo di applauso aveva sulla faccia una espressione di atroce sofferenza.
Ah, quel piccolo atrio sordo e ardente in fondo al teatro, che sentina di rancori! Là non si ascolta l’opera: si dice male a priori, si rugge continuamente, e poi si salta addosso con i denti all’applauso. [...] Perché non lo tengono vuoto quell’atrio scortesissimo almeno nelle première? Dovrebbe servire per chi va nelle poltrone, invece vi si addensa tanta prepotenza che chi passa per recarsi al suo posto è fatto segno a sgarbatezze continue. [...].
Corriere della Sera, 18/5/1904
• l’intervista a Puccini
Ci siamo recati a salutare Giacomo Puccini nella sua casa di via Giuseppe Verdi, 4. L’abbiamo trovato circondato da molti amici. Era tranquillo, sebbene un po’ amareggiato. C’era la Storchio, c’era Tito Ricordi. Nelle parole di tutti era una protesta per il contegno del pubblico.
Il maestro ci disse: «Domandi a Ricordi. Prima della Manon, prima della Bohème, prima della Tosca ero agitatissimo. E quelle opere furono dei successi. Questa volta mi sentivo tanto tranquillo! L’opera mi commuoveva sempre, quando la eseguivo al pianoforte.[...] Le prove confortarono la mia fede. Tutti ci si appassionavano, dagli artisti ai più modesti lavoratori delle scene e delle soffitte. Io vedevo i miei ascoltatori, pochi e dispersi nella gran sala della Scala, partecipare con pieno cuore alle vicende. Vedevo che anch’essi amavano la mia giapponesina come l’amavo e come l’amo. Finché scrivevo la musica, io me la vedevo la piccola donna, dolce e malinconica, la seguivo nella sua vita, la immaginavo seduta sul ciglione d’una collina, la testa reclinata, ad aspettare, ad aspettare. Alla prova generale non cantava la mia brava Storchietta, eppure, anche data così, l’opera ebbe lo stesso effetto. Dopo...»
Dopo...
«Dopo ho sentito dal palcoscenico imperversare la bufera. Ma essa non mi ha abbattuto. Io voglio ancora bene a Butterfly. Ci credo ancora. L’ho scritta con tanta emozione! Io non ascolto mai con piacere le mie opere, tranne forse l’ultimo atto della Bohème. Ma questa sì, tutta, e divertendomi e interessandomene. Ho la coscienza d’aver scritta la più moderna delle mie opere. Sì, la più moderna».
Poi, prendendosi la testa fra le mani:
«Delle esagerazioni no, no, assolutamente no. tutta sincera, tutta sentita».
Poi, con uno scatto:
«Mi hanno accusato di enfasi!»
E dovevano lodarti per la sobrietà, interruppe Tito Ricordi.
E il maestro:
«E capisco anche perché nessuno sia insorto contro tanta fiera ostilità. Perché Butterfly è un’opera di suggestione. Rotta questa suggestione, l’incanto cade. E i tumulti, gli strepiti, hanno infranto quell’atmosfera limpida e dolce di piccolo sogno doloroso che poteva mostrar vive le figure e le passioni. Il pubblico non poté sentire, e quindi non poté giudicare[...]. Adesso daremo l’opera con dei tagli in un ambiente minore, dove non possano infiltrarsi malevolenze preventive».
In ogni modo è assai lieta cosa che ella sia così sereno.
«Sì, sereno, sebbene addolorato, oggi più di ieri». [...]
Corriere della Sera, 19/5/1904