Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 13 settembre 1999
Pegognaga (Mantova)
• Pegognaga (Mantova). I ragazzi hanno magliette Nike e felpe Robe di Kappa. Stanno lì, in mezzo all’odore dei morti, e saltellano per non sporcare le scarpe. «Adriano, andiamo via, altrimenti dicono che puzziamo di cadavere». «E aspetta un attimo, non capita tutti i giorni». Si chinano, uno fotografa le piante di granoturco maturo, spezzate da un corpo buttato giù da un camion di clandestini. Fotografa anche l’erba della carraia, schiacciata da altri due corpi. L’altro morto era nella soia che è dall’altra parte della carraia – anche questa è pronta, le foglie gialle sono più di quelle verdi – e si vede ancora l’impronta di un corpo. «Massimo, dai, andiamo, che puzziamo davvero».
Li hanno appena portati via, questi quattro morti senza nome. Uomini con camice celeste e guanti gialli li hanno sollevati uno alla volta, messi in un sacco di tela verde, poi su un furgone. Via, presto, verso Modena, dove faranno le autopsie e diranno quando e perché questi uomini giovani sono morti, che una cosa così da queste parti non si era mai vista, tanto che i carabinieri, alla prima telefonata, hanno risposto: «Per favore, lei non scherzi». Solo alla seconda telefonata hanno capito che nessuno scherzava, e che nella carraia che parte dalla provinciale Pegognaga’Suzzara c’erano davvero quattro cadaveri.
• «Pensavo fosse selvaggina», dice Franco Sommi, 55 anni, artigiano. Un’occhiata alla carraia, quando passa per andare alla sua azienda da artigiano, la dà sempre. «Si vedono le lepri, al mattino presto», e lui ha la passione della caccia. «Ho visto qualcosa, mi sono fermato». Alle 7 telefona alla caserma di Pegognaga. «Ci sono due morti». Poi si avvicina ai corpi, e chiama ancora. «No, i morti sono quattro. Due sono nascosti nel frumentone e nella soia. Vi decidete a venire, che io faccio tardi al lavoro?». Pattuglie, sirene, lampeggianti. E le notizie si accavallano e si annullano. «Sono stati ammazzati e bruciati». «No, non ci sono colpi da arma di fuoco, sono stati ammazzati a botte e poi dati alle fiamme. Forse c’è un collegamento con la rissa avvenuta nel bresciano. Sapete, là gli indiani si sono picchiati fra di loro». «Guardando meglio, non ci sono ustioni. l’effetto della decomposizione». Il medico legale, Giorgio Gualandri, osserva a lungo, poi dice soltanto: « un vero mistero. Non ci sono né ferite evidenti, né ustioni. Sono quattro giovani tra i 25 e i 35 anni. Sono morti da almeno 48 ore, forse settanta». «Sono tutti maschi, e sono – dicono i carabinieri – indiani, pakistani, dello Sri Lanka, o giù di lì. Asiatici, comunque. Avevano addosso soltanto le mutande. Non sono stati rapinati: due avevano l’orologio, gli altri un braccialetto ed un anello. Secondo gli esperti, potrebbero essere morti per avvelenamento o asfissia».
• Sono le 12,30 quando il furgone dei morti prende la strada per l’istituto di medicina legale, ed i ragazzi firmati possono fare le fotografie. Ci sono anche gli anziani, che stanno sull’asfalto della provinciale, ed hanno messo le biciclette dentro al fosso per tenerle all’ombra. «Gli indiani? Sono bravissima gente». Un uomo, con il berretto del «bar gelateria la Perla», spiega che «gli indiani vanno bene a tutti, perché lavorano e non si stancano mai, e poi rispettano molto le vacche. Lo sapete, per loro sono sacre. I marocchini no, quelli si ubriacano, e se andassero a casa loro non piangerebbe nessuno».
• Se ne vanno quasi tutti, è l’ora sacra del pranzo. Due uomini restano sulla strada, guardano da lontano. Singh Sukhdev e Sinhg Balbir sono indiani del Punjab. «Li hanno già portati via? Eravamo venuti a vedere se erano nostri fratelli, noi sapremmo riconoscerli». Singh Sukhdev è operaio alla Iveco di Suzzara. «Sono contento, è un buon lavoro. Ma gli altri indiani lavorano tutti nelle stalle. Se fai tante ore, e le mucche sono tante, lo stipendio arriva ai due milioni al mese. Ma non ci sono mai giorni di riposo. Sabato, domenica, ed anche la notte, se deve nascere un vitello. E poi, se un lavoro è sporco, è un lavoro per gli indiani. Non è così per voi? Per noi comunque questa terra è buona. Si lavora, ed io ho chiamato la mia famiglia». Singh Balbir è ormai anziano, ed è in Italia «da tanti anni». «Sono riuscito a trovare lavoro qui vicino, in un allevamento per cani. Pulisco, e do da mangiare. Anche con i cani non si riposa mai. I soldi? Un milione e mezzo al mese».
• Ora non c’è nessuno, fra il granoturco e la soia. Sull’erba dove sono stati gettati i morti, ci sono pezzi di cartone fradicio e l’involucro di plastica di una merendina. Si chiama «Molto, croissant ofoghiatas», scadenza novembre 1999, prodotto in Grecia. Sopra c’è il disegno di una barra di cioccolato con le nocciole. Forse la busta è stata buttata a terra assieme ai cadaveri, nel buio della notte. Potrebbe essere una traccia importante, per cercare di capire da dove sia arrivato questo camion («con doppie gomme dietro, sopra i 35 quintali», dicono i carabinieri) probabilmente uscito prima dell’alba dall’autostrada del Brennero e poi rientrato. Ci vuole poco a capire, davanti a 4 morti senza nome, che gli assassini sono invece già noti. Si chiamano fame, emigrazione, voglia di fare soldi sulla pelle dei clandestini. Forse questi 4 giovani sono stati chiusi nel camion già in Grecia, prima che il camion entrasse nella pancia di una nave. Possono essere sbarcati in Puglia o ad Ancona. Lo hanno raccontato tante volte, questo viaggio, i curdi, i pakistani, gli indiani, i cinesi... «Ci mettono in un’intercapedine dietro la cabina di guida, ci si può sedere solo a turno. Manca l’aria. Per terra ci sono i cartoni, perché per fare tutto c’è solo un secchio, e si fa presto a sporcare. Quando il camion si ferma, si muore di paura. Nessuno deve fiatare, devi chiudere la bocca a tuo figlio che piange». Non si sa ancora cosa sia successo. Forse è mancata l’aria, forse è entrato il gas di scarico del camion. E l’autista non si è accorto di nulla. Lui pensa solo a 2 o 3 milioni ricevuti per ogni persona chiusa là dentro.
• L’odore dei morti in una sosta all’autogrill, la decisione di lasciare l’autostrada e di buttare via i cadaveri nella prima strada di campagna. In questa favola tragica, nella terra di Cesare Zavattini, ci sono solo 4 giovani morti in una terra che poteva essere il loro paradiso. «Ci sono almeno 50 indiani – dice il sindaco di Pegognaga, Marco Carra – che lavorano nelle stalle e nei caseifici, i mestieri più duri. Ma nessuno di loro chiede aiuto al Comune, a differenza degli altri immigrati». Se si segue la carraia dei morti, dopo 200 metri c’è una stalla. Anche qui lavorano indiani e pakistani. Da queste parti i bovari li chiamano «bergamini». Mandano a casa soldi mai visti prima, tengono lontano dalla famiglia quella fame che in questa bassa padana è un ricordo dei vecchi. Qui ci sono laghetti da pesca «usa e getta», dove prendi il pesce che una volta era la cena e lo ributti in acqua. Per divertimento.