Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2004  giugno 27 Domenica calendario

Michelangelo Antonioni, uno degli allievi più cari a mio padre, così racconta il pomeriggio del 29 giugno 1940: «Dalla Torre dei Caduti venne il primo colpo

• Michelangelo Antonioni, uno degli allievi più cari a mio padre, così racconta il pomeriggio del 29 giugno 1940: «Dalla Torre dei Caduti venne il primo colpo. una torre massiccia, tozza, e la sovrasta una gran campana i cui rintocchi cadono pesantemente sulla città a ogni evento memorabile, anche nei giorni di festa, all’uso medioevale. Quel 29 di giugno, nelle primissime ore del pomeriggio, la campana scoccò un tocco. E poi un altro, e un altro ancora. Staccati, pesanti, colmi d’uno sgomento vago. Sulla città cadde un silenzio improvviso, solo s’udivano quei rintocchi, presentimento d’angoscia senza fine. Nelle strade il traffico s’arrestò come spento, ad un tratto. Tutti, interrotte le loro faccende, stettero ad ascoltare i rintocchi che scivolavano lungo i muri, dentro le finestre e le porte, come orme di fantasmi. Era tempo di guerra e la guerra era lì, in quei rintocchi. S’udì una voce di donna dire forte, in dialetto: ”I dis ch’è mort Balbo”». Da quel giorno in poi, mentre da ragazzo mi facevo uomo, i racconti di ”quel giorno” si accumularono, proporzionalmente al desiderio di capire cosa nascondessero le voci ”poco chiare” che accompagnarono la notizia della morte di Balbo e dei suoi compagni. Mio padre era con lui per redigere un ”Diario”, testimonianza nella tragica impreparazione italiana allo scontro frontale con l’Impero inglese. Come tutti i parenti di chi perì nell’’incidente”, mia madre, i miei fratelli e io, ricevemmo nella nostra casa di Ferrara numerose visite di chi rientrava dal fronte libico: in licenza o rimpatriato per ferite o malattia e raccogliemmo da ”chi aveva visto cadere l’aereo di Balbo”, un’antologia di versioni diverse. Ricordavano in tanti quella vampata di fuoco accendersi nel cielo della baia di Tobruch. Solo pochi s’erano subito resi conto chi fosse stato abbattuto. «Finalmente ne abbiamo tirato giù uno» era stato il commento di chi riteneva inglese l’aereo colpito. Comprensibile soddisfazione perché fino a quel giorno la nostra antiaerea, rabbiosa ma imprecisa, aveva potuto vantare ben pochi successi. Al campo T2, dove Balbo stava per atterrare, si fece addirittura festa mentre l’aereo del Maresciallo bruciava. Una testimonianza drammatica (e inedita, fino a oggi) la raccolse mio fratello maggiore, Vanni, giunto in Libia, l’indomani dell’incidente. Aveva trovato posto su un volo speciale e sbarcò a Bengasi quando tutto era accaduto da poche ore: «(...) Egil Chersi, studente con me, allora ufficiale di complemento in marina, imbarcato su un cacciatorpediniere nella rada di Tobruch, mi presentò Del Pin, tenente di Vascello, comandante del tiro del San Giorgio. Mi disse che i suoi pezzi erano quelli che avevano colpito l’aereo (...) Quel giorno, sulle navi non avevano ancora dato il comando del cessato allarme per il bombardamento inglese. I serventi erano ai pezzi quando ”sentirono”, non videro, rumore di aerei da occidente. Il cielo era coperto di sabbia per il vento. Il sole al tramonto diminuiva la visibilità, poco dopo, quando dalle navi si cominciavano a vedere confuse sagome di due aerei, dalle batterie sulla riva occidentale del golfo, quelle che avevano il sole alle spalle e gli aerei sopra la testa, cominciarono a sparare. Le navi subito seguirono. Del Pin, piangendo quasi, mi disse «noi li abbiamo centrati». «(...) All’epoca, tutti quelli con cui parlai erano certi che non si era trattato di un incidente ma di un fatto voluto, profittando di un’occasione favorevole».
• L’indifferenza di Mussolini. Molti, non limitandosi a denunciare l’isterico tiro degli artiglieri, alimentavano dubbi, accennavano a complicità, a una cospirazione. L’incidente sembrò quindi essere una sorta di cartina tornasole capace di confermare i dubbi su un complotto mussoliniano, volto a eliminare Balbo. A questo proposito, parve particolarmente strano il comportamento di Mussolini quando atterrò in Libia e subito volò a Tobruch, riconquistata da italiani e tedeschi, considerata base di partenza per un definitivo attacco all’Egitto, inseguendo i resti dell’Ottava Armata. Evidentemente Mussolini non intendeva lasciare solo a Rommel la gloria d’entrare in Alessandria. Il suo aereo prese terra al T2, e quando lui ne discese, si trovò a poca distanza dal punto dove due anni prima, proprio in quei giorni, era caduto l’aereo di Balbo. Può sembrare incredibile, ma al tempo di un regime che per i riti funebri e celebrativi aveva una sfrenata passione, tanto da creare la mitologia dei ”martiri fascisti”, il Capo di questa ritualità ideologica, in occasione d’un anniversario celebrato in Italia con solenni riti religiosi e politici, non onorò di una sua visita il cippo eretto a ricordo di chi gli era stato accanto per anni. E aveva dato all’Italia, quindi a lui, il mondiale trionfo delle Crociere Atlantiche, e gli aveva offerto una Libia rimessa a nuovo e pacificata. Qualcuno si chiese se quella di Mussolini fosse stata decisione volta a sottolineare dissenso per l’unico suo gerarca capace di un’opposizione clamorosa. Dissenso non mormorato, ma fattosi palese al momento delle leggi razziali, dell’alleanza con Hitler, e all’ingresso in guerra. Altri attribuirono la mancata sosta al cippo all’euforia per il grande successo a portata di mano. Un rigurgito di tale vanagloria da cancellare anche memorie importanti. Difficile scegliere tra le due ipotesi. però facile capire perché gli assertori della tesi sull’esistenza di un complotto e di un abbattimento voluto interpretavano quel mancato atto di omaggio e pietà come indizio di colpevolezza, di viltà. Alla paura di trovarsi di fronte al punto dove un suo ordine, o fors’anche solo un desiderio, era stato esaudito con fredda determinazione.
• L’errore della contraerea Oggi le voci più accreditate preferiscono ritenere quello di Tobruch un errore della nostra antiaerea. Si punta soprattutto il dito sulla disorganizzazione della piazzaforte, sull’incomunicabilità tra Marina e Esercito. Qualcuno mette in evidenza il coraggio di un radiotelegrafista in servizio quel giorno a Tobruch, il quale - malgrado in quel momento stessero cadendo sulla base tante bombe inglesi - ricevuto l’avviso radio dall’aeroporto di Derna relativo al decollo di due SM.79 diretti al Campo T2, saltò in bicicletta per informare la contraerea. Non riusciva infatti a telefonare la notizia alle postazioni, tutte impegnate nel fuoco antiaereo per contrastare l’azione degli incursori nemici, le linee erano tutte interrotte. Riuscì però a portare la notizia pedalando da una batteria all’altra, malgrado continuasse il bombardamento. Generosità, anzi eroismo: inutile però, al coraggioso ciclista non fu possibile raggiungere le navi alla fonda nella baia, di conseguenza alle unità della Marina non riuscì di comunicare il messaggio. E la tragedia si compì sotto i suoi occhi.
• sul luogo del delitto A Tobruch sono andato per tentare di mettere a fuoco su paesaggi reali, gli eventi succedutisi nei secondi di fuoco tra le 17 e 31 e le 17 e 32 del 28 giugno 1940. Sequenza di attimi che da anni immagino senza riuscire a scomporla e a ricomporla in un quadro verosimile. Ho con me una mappa topografica militare italiana degli anni Quaranta, e foto in bianco e nero, per aiutarmi a localizzare e a sostare nel punto dove l’SM.79 di Balbo venne abbattuto. In una delle due foto è inquadrato lo scheletro del velivolo; l’altra ritrae lo stesso punto dopo la rimozione di quanto ne restava. Ritrovo lo spazio vuoto e deserto di quello che fu il Campo T2, previsto punto d’atterraggio del volo di Balbo per organizzare la scorta aerea chiesta dal maresciallo per il successivo balzo verso le prime linee. Di questa sosta il comando del T2 era stato informato da un preavviso telefonico con conferma orale, portata da un incaricato dello Stato Maggiore. Quando raggiungo i margini del Campo, sul costone roccioso alto sulla baia, so di avere sopra di me lo spazio di cielo dove Balbo e il secondo pilota Frailich, stavano per posare il trimotore al loro comando. In qualche punto del terreno attorno a me, era probabilmente piazzata l’arma che lo storico dell’aviazione Gregory Alegi, considera sia stata quella che, tra le tante, mirò l’SM.79. E lo colpì; si trattava d’una mitragliatrice Schwarzlose calibro 8 dalla portata di soli 600 metri, arma ridicola ma in quell’occasione purtroppo sufficiente a raggiungere il bersaglio, colpendolo sotto l’ala sinistra.
• Il saluto degli inglesi Nel cielo del T2 volò un aereo inglese disarmato, all’indomani della morte di Balbo. Peccato non ve ne siano tracce nel Museo della Guerra di Tobruch, ove solo qualche oggetto ricorda la presenza italiana in Libia, in pace e in guerra. Nel Museo, foto e manifesti lasciano immaginare una guerra qui combattuta esclusivamente tra britannici e tedeschi. L’unico reperto a ricordo delle nostre forze armate sono due vetusti cannoncini, risalenti alla prima guerra mondiale, o comunque a pochi anni dopo. Riverniciati color verde pisello, li hanno piazzati a destra e a sinistra dell’ingresso all’edificio di forma e dimensioni assai diverse da quella delle casupole intorno. Al tempo della Libia italiana era ”il Duomo”, (così infatti pomposamente lo definisce una guida dell’ETAL, Ente Turistico Alberghiero Libia, edita nell’anno 1938). Si può facilmente immaginare quanto sarebbe interessante questo Museo che non vale nulla, se documentasse per i suoi visitatori il volo poco sopra ricordato, quello di un caccia della RAF che il 29 giugno sbucò a bassa quota dal deserto, sfiorò a volo rasente il T2 e sganciò un contenitore metallico a poca distanza dal punto dove giacevano i resti dell’aereo del Maresciallo. Il personale del campo s’avvicinò titubante, qualcuno si fece coraggio e raccolse quanto lasciato cadere dal cielo. Aperta la chiusura a vite di un piccolo tubo, apparve un messaggio firmato dal comandante in capo delle forze aeree britanniche sul fronte africano. Venne letto con incredulità prima, emozione subito dopo: ”The British Royal Air Force expresses its sincere sympathy in the death of Marshal Balbo – a great leader and gallant aviator, personally known to me, when fate has placed on the other side. Arthur Laymore Air Officer Commanding-in-Chief British Royal Air Force, Middle East”.
• il sacrario Nel mio sopralluogo, muovendo nell’area di quella che fu la piazzaforte, ho potuto osservare la baia dalla cima di una torre di pietra rosso cupa, alta sulle acque. massiccia, con una sola apertura sui quattro lati, nessuna finestra o ingresso secondario. In un pesante portone sotto un maestoso arco d’ingresso, s’apre una piccola porta. Di qui entrano nella torre i gruppi di turisti, in maggioranza tedeschi o inglesi che giungono a Tobruch per visitarne i campi di battaglia. E sono desiderosi di visitare l’edificio, sacrario di Rommel e dei suoi soldati. Il nome del Feldmaresciallo, scolpito nella parete d’ingresso, si para di fronte al visitatore appena supera il portone. Un raggio di luce riflesso dalle acque della baia, illumina le cubitali lettere gotiche. Proseguendo all’interno ci si trova di fronte alle tombe dei caduti, inserite nella neo-gotica costruzione. I nomi o le scritte ”soldato ignoto”, si inseguono e sovrappongono in linea militarmente ordinata secondo i gradi. Centinaia di caduti lasciati a Tobruch per testimoniare le battaglie di Rommel. Furono 18.594 quelli dell’Afrika Korp in Libia e più di 3400 i dispersi. Altri dati completano il quadro e offrono misura dello scontro protrattosi per i 40 mesi di guerra in Africa settentrionale: ventitremila caduti italiani, trentacinquemila dell’VIII Armata Britannica. Circa quattromila gli americani impegnatisi solo negli ultimi mesi, sul fronte tunisino. Alla sommità della costruzione sono giunto salendo una ripida scala in pietra, una sorta di stretto corridoio volutamente tenebroso. La fatica mi sembra interminabile e quando sbuco da un ultimo, stretto varco nel passaggio dal buio alla luce resto abbagliato, come certamente aveva progettato l’architetto della Torre. Chiudo gli occhi, li riapro a fessura e lentamente li riabituo a una luminosità raddoppiata dal gioco dei riflessi. Mi guardo attorno notando un’altra astuzia dell’architetto. Per come sono disposti, dai bordi della terrazza superiore non può sporgersi chi sale sin quassù, anche se volesse non riuscirebbe a vedere la corte interna, le mura coperte da nomi dei caduti sulle loro tombe. Qui, dall’alto, si gode solo il paesaggio. La vita, non la morte. Dal parapetto posso inquadrare la baia nel suo insieme, non al presente, ma qual era nel 1940. Le navi qui ancorate dall’inizio della guerra erano l’incrociatore San Giorgio, i CT Aquilone, Borea, Turbine e Nembo. Accanto a loro i resti di quanto gli aerei inglesi avevano affondato appena accese le ostilità: il CT Ostro, il piroscafo Manzoni, la motovedetta Berta. Là dove invece la baia si stringe, ai moli attraccavano unità da trasporto con rifornimenti provenienti dall’Italia. Petrolio soprattutto, ma anche armi, viveri; carichi preziosi perché erano pochi, lo sappiamo, i mercantili che riuscivano a giungere sin qui sfuggendo ai sommergibili inglesi.
• Gli ultimi istanti Il 28 giugno del 1940, il San Giorgio galleggiava già da oltre un mese nello specchio d’acque dove la baia, a occidente, confina con il mare. Sul lato opposto, a oriente, la costa era il limite della spianata di Sidi Mahmud, con le piste del Campo d’aviazione T2. Tra le due rive, ovvero tra quella a ridosso delle unità navali e quella dove cadde l’SM.79 di Balbo, posso calcolare la distanza e l’approssimativo tempo occorrente a un aereo trimotore per sorvolare la baia. Dal punto dove iniziò il tiro antiaereo al punto dove l’SM. 79 cadde. Prima di giungere a Tobruch, le mie elucubrazioni sul tempo di volo su quella baia, mi avevano suggerito una durata d’almeno uno o due minuti. Tanti, se cadenzati da una ridda d’esplosioni attorno e davanti all’aereo ormai a bassa quota. Quel calcolo dei tempi osservando Tobruch dalla sommità della torre, mi appare inesatto. Occorre più tempo a descriverlo, il volo da sponda a sponda, di un aereo d’epoca, di quanto non ne possa esser trascorso effettivamente. Calcolando una approssimativa velocità del trimotore in atterraggio, motori al minimo, flap fuori, per coprire lo spazio aereo tra il San Giorgio e la riva opposta quell’aereo non può aver impiegato più di dieci, quindici secondi. Di questo voglio convincermi. Desidero sia questo il tempo reale di quel tratto di volo. Se fu tale posso credere che a bordo dell’aereo di Balbo non ci si sia potuti render conto di trovarsi al centro d’una salva di cannonate e di raffiche di mitragliatrice. Se i colpi sono esplosi alle spalle dell’SM.79 - è stato detto da alcuni esperti - all’interno d’un rumoroso aereo trimotore e senza aperture laterali, difficile siano state viste o udite le esplosioni dell’antiaerea. Né i lampi dei colpi traccianti delle mitragliatrici. Se questa non è una consolazione, ma ipotesi giusta (e io credo lo sia), l’orrore della fine è stato forse percepito solo dai due piloti e solo all’ultimo istante. Quando un proiettile ha centrato e fatto esplodere i serbatoi di carburante; o forse quando ha colpito proprio loro. Il quadro d’insieme consente di sperare. Sperare che sino all’ultimo istante chi si trovava all’interno di quella stretta e buia carlinga non si sia accorto d’essere giunto al suo ultimo istante di vita. Se a questo riuscirò a credere e vivrò in questa certezza, mi provocherà meno orrore e m’accenderà minore rabbia, il sentir nominare la baia di Tobruch. Scendo la stretta scala, riattraverso la corte dalle pareti tappezzate con quelle tombe incise da centinaia di nomi (e da altre centinaia senza nome). Tanti caduti, tanto dolore eppure quanto qui misuro è solo minima parte del consuntivo delle perdite accumulatesi dal ’40 al ’43. Massacro di quattro eserciti, costato solo alle forze italo-tedesche ottomila aerei, seimiladuecento cannoni, duemilacinquecento carri armati, settantamila veicoli, duemilioni e mezzo di tonnellate di naviglio mercantile e due milioni d’uomini fra feriti, prigionieri e caduti sul campo. Uno di loro si chiamava Nello Quilici. Caduto nel pieno della sua vita professionale e affettiva, partito volontario per il fronte d’una guerra della quale aveva visto avvicinarsi, e crescere l’inevitabilità. E che nessuno era riuscito ad impedire. Folco quilici