Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 13 giugno 2004
Senza il mio aiuto non avreste mai ottenuto la corona di re dei romani»
• Senza il mio aiuto non avreste mai ottenuto la corona di re dei romani». Così Jacob Fugger, banchiere di Augusta, si rivolgeva a Carlo V il 2 luglio del 1519, a quattro giorni dalla sua nomina a capo del Sacro Romano Impero. Tre anni prima, il giovane Asburgo era stato nominato re d’Aragona e Castiglia, mettendo così le mani anche sui regni di Napoli e del Nuovo Mondo; ora controllava anche l’Europa centro-orientale e l’Italia del Nord: il suo era davvero il regno «su cui non tramonta mai sole». Eppure quella di Carlo V è la storia di una sconfitta. Fu chiamato a tenere insieme un impero medievale mentre tutto attorno a lui stava cambiando: le dispute religiose spaccavano l’Europa, la nobiltà e le classi produttive cercavano di liberarsi di un potere oppressivo e lontano come quello imperiale. Carlo passò la vita a tentare di consolidare il suo regno: gli toccò tenere a bada i turchi, scontrarsi coi luterani, guerreggiare con la Francia e i signori italiani. In un paio di momenti la sorte sembrò essergli amica. Ma alla fine perse.
L’elezione al trono che era stato di suo nonno Massimiliano (fino al gennaio 1519) è certo il momento cruciale del volo abortito del giovane Asburgo. Ma anche questo non fu senza difficoltà. Da più di un secolo e mezzo l’imperatore veniva scelto da sette elettori germanici: gli arcivescovi di Magonza, Treviri e Colonia, il margravio di Brandeburgo, il duca di Sassonia, il conte del Palatinato renano, il re di Boemia.
In quell’occasione, oltre a Carlo, s’erano candidati alla guida dell’Impero i re di Francia e Inghilterra, Francesco I di Valois e Enrico VIII Tudor. Il francese, in particolare, terrorizzato all’idea d’essere accerchiato da ogni parte dagli Asburgo, s’era dato parecchio da fare e nella primavera del ’19 era decisamente in vantaggio sul rivale: solo una velata minaccia militare e i soldi dei Fugger, dei Welser e dei banchieri di mezz’Europa erano riusciti a far trionfare la causa degli Asburgo.
er essere eletto imperatore Carlo sborsò 835.000 fiorini (equivalenti a 2.100 chili d’oro), più di 400 mila dei quali finirono direttamente nelle borse dei votanti: 103 mila fiorini all’arcivescovo di Magonza, 40 mila a quello di Colonia, 22 mila a quello di Treviri; 40 mila ai legati del minorenne re boemo, 32 mila fiorini all’elettore di Sassonia e ben 184 mila a quello del Palatinato. Tutto certificato dai registri bancari. Carlo però si dimostrò furbo: le cambiali sarebbero state onorate solo in caso di elezione; incentivo assai più convincente dei contanti versati dal Valois. Il titolo imperiale «è la merce più costosa che sia mai stata venduta», notava il rappresentante britannico Richard Pace «e, a mio parere, per chi l’avrà ottenuta, si rivelerà il peggiore degli affari».
• Un giovane timido e affamato
Carlo d’Asburgo era nato il 24 febbraio 1500 a Gand, nelle Fiandre. Suo padre, l’arciduca Filippo il Bello era signore dei Paesi Bassi e figlio dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo e di Maria di Borgogna; sua madre Giovanna, nata da Ferdinando e Isabella di Spagna, era erede dei regni d’Aragona e Castiglia. Quest’incredibile intreccio di titoli riassume assai bene la novità che sconvolse le battaglie dinastiche nell’Europa tardo-medievale. In sostanza: gli Asburgo, per qualche secolo, si dedicarono a sposare bene.
Erano la famiglia più potente dell’Europa centrale fin dal 1278, anno in cui conquistarono il ducato d’Austria. E nei 150 anni successivi, mentre i signori di Wittelsbach e Lussemburgo si disputavano il titolo di imperatore, allargarono e fortificarono i loro dominii. Fu Federico III, nel 1438, il primo Asburgo a salire sul trono di Carlo Magno: quel seggio resterà alla «casa d’Austria» fino al 1806. L’acronimo scelto dal capostipite è più di un programma: AEIOU, Alles Erdreich Ist Osterreich Untertan (tutto il mondo è soggetto all’Austria).
Il mezzo individuato non furono le guerre, ma le più prosaiche alleanze matrimoniali coi regnanti di tutta Europa: Carlo V, evidentemente, è il punto più alto di questa strategia. Certo il giovane imperatore fu anche parecchio fortunato. Una serie impressionante di morti gli fornì assai presto le chiavi dei suoi molti regni: se ne andarono suo padre, i suoi cugini e zii spagnoli, suo nonno l’imperatore. Sua madre Giovanna, invece, si limitò a perdere il senno.
Il futuro imperatore rimase nelle Fiandre fino all’adolescenza, allevato dalla zia Margherita, circondato da dotti umanisti e uomini di fede, in primo luogo Adriano di Utrecht, che lo seguirà in Spagna e poi diverrà papa col nome di Adriano VI.
Carlo di Gand era un ragazzino solitario, timido e riflessivo; appassionato più all’esercizio fisico, all’equitazione e alla caccia che ai libri e alle lingue (parlava solo francese), ma nonostante ciò di salute cagionevole. Anche l’aspetto fisico non l’aiutava: l’incarnato era pallido, gli occhi sporgenti, la mascella così larga da sembrare deforme (una caratteristica degli Asburgo).
Tutti i contemporanei comunque concordano nel definirlo un ragazzo morigerato e un modello di devozione religiosa: confessarsi e assistere alla messa furono sue abitudini, frequentissime, per tutta la vita. Solo un vizio, e smodato, l’accompagnò sempre: la gola.
La sua colazione consisteva in un cappone cotto nel latte con zucchero e forti spezie e il resto dei pasti procedeva di conseguenza. «Ogni sorso dell’imperatore equivale a una buona pinta di vino del Reno», notavano i suoi cortigiani. I medici e gli amici lo supplicarono a lungo di moderarsi, ma senza risultati. I danni non si fecero attendere: a trent’anni Carlo ebbe i primi attacchi della gotta che lo perseguitò tutta la vita. Soffrì anche di prostata. Il suo medico personale, il dottor Felipe, ideò per lui una terapia particolare, molto in voga nel XVI secolo: mediante una sonda introduceva nell’uretra una «candeletta» contenente una sostanza corrosiva a base di calce viva, albume d’uovo e bava di lumaca (doveva essere tenuta ”in sede” per una settimana). L’idea era che l’azione corrosiva avrebbe in qualche modo «macerato» la prostata.
• l’avventura spagnola
Nel 1516, sedicenne, Carlo di Gand aveva lasciato le Fiandre per raggiungere la Spagna: era appena stato nominato re di Aragona e Castiglia. Nella penisola iberica conobbe il fratello minore Ferdinando. I due non s’erano mai visti ma l’incontro, pochi minuti, fu necessariamente silenzioso: non parlavano la stessa lingua. Pochi giorni dopo il cadetto partì per l’Austria, onde evitare che la nobiltà spagnola, che lo amava almeno quanto diffidava del re ”straniero”, si coalizzasse contro Carlo. Il giovane monarca restò nella penisola iberica fino al maggio 1520, governando poco e male, circondato da decine di nobili fiamminghi completamente disinteressati alle cose spagnole e, per di più, abbastanza inclini all’arricchimento personale.
Carlo, fra l’altro, abbandonò la Spagna proprio mentre molte voci si levavano contro il suo governo: la Rivolta dei comuneros vide inizialmente alleati popolo e nobiltà nel chiedere al re più autonomia e meno tasse (il fatto che coi soldi Carlo avesse comprato la carica imperiale non faceva che acuire la rabbia). In realtà quando le posizioni popolari si radicalizzarono, i nobili si tirarono indietro schierandosi con la Corona e la rivolta fu sedata quando possibile, stroncata quando necessario.
A questo punto, s’era nel 1522, Carlo era già tornato tra gli spagnoli, s’era messo a parlarne la lingua, a impararne i costumi, cominciava insomma a proporsi come «sovrano dalle molte facce: borgognone tra i borgognoni, spagnolo in Castiglia e Aragona, italiano tra gli italiani» (lo storico Fernàndez Alvarez). In Spagna rimase per sette anni e nel 1526 prese anche in moglie Isabella di Portogallo. La sposò per interesse, ovviamente, ma pare che l’amasse davvero: quando lei morì di parto, nel ’39, sconvolto si ritirò per giorni in un convento di Toledo.
• L’incontro con Lutero
Insomma la Spagna fu presto pacificata, ma non altrettanto si poteva dire del resto d’Europa. Nel 1520, lasciata la penisola iberica per prendere possesso del trono imperiale, Carlo si fa incoronare a Aquisgrana. La situazione, apparentemente tranquilla, contiene già in sé tutti gli elementi del dramma: fin dal 1517 un monaco agostiniano, Martin Lutero, aveva cominciato a contestare prima l’autorità morale, poi quella religiosa della Chiesa di Roma. Il suo seguito aumentava sempre più, trovando consensi anche tra i nobili (attratti fors’anche dalla possibilità di mettere le mani sulle ricche proprietà ecclesiastiche).
All’inizio Carlo V s’era disinteressato della rivolta: i problemi erano ben altri. Il suo potere nell’Europa centrale era più formale che altro, il controllo del territorio gli sfuggiva così come il gettito fiscale: tentò quindi di creare un’amministrazione imperiale - il consiglio di reggenza - che governasse in sua assenza. I principi tedeschi, ansiosi d’autonomia ma impauriti dall’idea di scontentare il nuovo imperatore, fecero buon viso a cattivo gioco: il consiglio fu istituito, ma nei fatti non governò mai. Fu un altro però il momento culminante della Dieta di Worms (gennaio-maggio 1521): l’incontro tra Carlo V e l’appena scomunicato Lutero.
Anche il Papa, come l’imperatore, aveva preso sotto gamba il monaco tedesco, ma nel giugno del 1520 con la bolla Exsurge Domine gli aveva dato sei mesi di tempo per ravvedersi, pena la scomunica. Lutero, per tutta risposta, aveva bruciato il testo papale nella piazza di Wittenberg insieme a qualche volume di diritto canonico.
A questo punto Carlo avrebbe dovuto bandire il ribelle dall’Impero, ma i principi riformati lo convinsero, pur riluttante, a ascoltarlo: Lutero rispose «in modo insolente» alle questioni teologiche che gli furono poste e rinnovò la propria professione di fede. Per un imperatore «cristianissimo» come Carlo V questo era troppo: l’editto di Worms, approvato dalla Dieta all’unanimità nel maggio del 1521, bandì Lutero dai territori imperiali. In realtà Federico di Sassonia fece condurre il monaco nel castello di Wartburg e lo difese da ogni persecuzione.
• Le guerre con la francia
Nel frattempo i rapporti con la Francia s’erano fatti parecchio tesi: una contrapposizione destinata a durare quasi quarant’anni con vere guerre e manovre sottobanco per mettere in difficoltà l’avversario. I primi scontri avvennero in Italia.
Dopo l’elezione Carlo rivendicò subito il suo possesso su Milano, all’epoca in mano francese ma considerata parte dell’impero. Risolvere la faccenda per via diplomatica era impossibile. Fu la guerra e per la Francia, inizialmente, una disfatta: lo stesso Francesco I cadde in mano nemica a Pavia nel 1525, fu portato in Spagna al cospetto di Carlo e liberato l’anno successivo, ma non prima d’aver firmato una pace: il Trattato di Madrid impegnava il Valois a cedere la Borgogna, a non avanzare rivendicazioni su Milano e a versare un forte obolo all’imperatore. Per sovrammercato, Carlo trattenne in Spagna i due figli di Francesco.
In realtà il Trattato non era affatto ben congegnato (se ne lamentò parecchio Gattinara, ”primo ministro” di Carlo) e il francese, appena libero, s’affrettò a dichiararlo nullo. Per riuscire a vendicarsi batté ogni strada: allacciò rapporti coi principi tedeschi di fede luterana; s’alleò col turco Solimano I favorendone l’avanzata fin sotto Vienna (1529); riunì contro l’imperatore la Lega di Cognac (1526), che comprendeva Venezia, Firenze, Milano e persino lo Stato pontificio.
La reazione di Carlo V non si fece attendere: inviò in Italia grossi reparti di Lanzichenecchi che misero a ferro e fuoco la penisola sinché, nel maggio del ’27, giunsero a Roma, espugnarono la città e la sottoposero a un feroce saccheggio (Carlo, sembra, non diede l’ordine: i mercenari, che non ricevevano la paga da mesi, pensarono così - e non a torto - di rientrare dei mancati guadagni). In ogni caso, la Lega di Cognac si sfaldò e la vittoria dell’imperatore fu totale: nel febbraio del 1530 papa Clemente VII lo incoronò nella chiesa di San Petronio a Bologna. L’Asburgo, per celebrare degnamente la cosa, spese circa 300 mila fiorini: 8.000 li gettò direttamente alla folla.
• falsi trionfi
Poteva sembrare un trionfo, ma niente era cambiato: i turchi continuavano a assediare Vienna e a razziare i mari (e non basterà a farli smettere neanche una vittoriosa spedizione contro Tunisi nel 1535); il Valois era sconfitto ma non domato; i principi protestanti s’erano riuniti nella Lega di Smacalda, apertamente anti-imperiale. Con la Francia, dopo una serie di guerricciole che attraversano tutti gli anni Trenta del secolo, s’arrivò alla pace di Crepy nel settembre 1544: Milano rimase all’Impero, la Savoia a Francesco. Il re francese morì tre anni dopo e Carlo si ritrovò con un nuovo nemico: suo figlio Enrico II. Nel frattempo l’Asburgo era passato a vie di fatto contro i protestanti, sconfiggendoli duramente a Mühlberg nel 1547.
il secondo momento d’oro di Carlo: ai sudditi il suo potere sembrò senza limiti. Per celebrare la vittoria si fece dipingere da Tiziano a cavallo, in tenuta da battaglia, equipaggiato con insegne, corazza e lancia, sul petto il simbolo del Toson d’oro. In realtà Carlo, tormentato da una gotta che gli impediva persino di camminare, assistette alla battaglia da una lettiga.
E anche gli effetti reali di quella vittoria furono assai limitati: l’imperatore convocò una dieta a Augusta, propose la creazione di una nuova lega a cui avrebbero partecipato principi, città e territori dell’impero e che doveva dotarsi di un parlamento, d’un esercito, di una corte. Insomma, più di una concessione: il certificato di morte delle vecchie istituzioni imperiali.
La questione religiosa, che continuava a crucciare un Carlo sempre più disilluso, avrebbe dovuto essere risolta da un Interim da ritenersi in vigore fino alla conclusione del Concilio di Trento (iniziato nel ’47 e subito sospeso): si apriva al matrimonio dei preti; si autorizzava l’eucarestia nelle due specie, cattolica e protestante; si scendeva a compromessi sui sacramenti; si sorvolava sulle terre ecclesiastiche secolarizzate dai principi riformati. Entrambe le proposte furono sorpassate dalla storia: la Lega di Smacalda non aveva affatto disarmato e, aiutata da Enrico II, attaccò di nuovo l’imperatore.
• La sconfitta
Nel 1552 anche a Carlo era chiaro che la battaglia era persa. Cominciò a preparare la sua successione: al figlio Filippo sarebbe andata la corona di Spagna, al fratello Ferdinando quella del Sacro Romano Impero. Alla dieta che si riunì a Augusta nel febbraio 1555 non si presentò nemmeno: come scrisse a suo fratello, che lo sostituì, c’erano concessioni che era necessario fare in materia di fede che la sua coscienza gli avrebbe impedito di sottoscrivere.
Ne uscì il principio cuius regio, eius religio (ovvero il popolo sarà soggetto alla religione del suo sovrano, qualunque essa sia). La pace coi principi protestanti fu sottoscritta a nome dell’imperatore Carlo V: la fine dell’unità dei cristiani fu l’ultimo atto del suo regno. Toccò al suo successore Filippo II, invece, concludere le ostilità con la Francia con la pace di Cateau Cambrésis, nel 1559, quando l’imperatore era già morto.
Due anni prima s’era ritirato nel monastero di San Jeronimo de Yuste, nell’Estremadura castigliana: da una finestra della sua camera poteva vedere l’altare maggiore e assistere alla messa. Qui trascorse il suo tempo leggendo, conversando, passeggiando, andando a caccia. E ovviamente mangiando.
I monaci dovettero cedergli un’ala dell’edificio per i suoi 50 servitori e dodici cuochi. Una generosa provvista di cibi raffinati - ostriche, anguille, acciughe, cacciagione, dolciumi - soddisfece il suo appetito ma ne aggravò i mali. Mentre pranzava all’aperto, sotto il sole d’agosto, contrasse una febbre che niente riuscì a calmare: morì all’alba del 21 settembre 1558.
Il sogno medievale dell’impero cristiano era finito. In molti avevano riposto speranze in lui, eppure l’imperatore non poteva vincere. Come Debussy disse, a torto, di Wagner: «Fu un tramonto, ma poté sembrare un’alba».
Marco Palombi