Pallinato da Frammenti, Gruppo AAA, 1 gennaio 2002
Ancora una volta, in questi giorni, si è parlato di Pompei come della ”città dell’amore”
• Ancora una volta, in questi giorni, si è parlato di Pompei come della ”città dell’amore”. La ragione è legata all’apertura al pubblico di un edificio recentemente scavato e restaurato: le Terme suburbane, già note per le otto pitture erotiche che sono state rinvenute al loro interno. Pompei a luci rosse, dunque? Come dicevamo la fama è antica. Gli scavi archeologici (che ebbero inizio nel 1748, per ordine di Carlo di Borbone) portarono infatti alla luce, fin dal loro inizio, raffigurazioni erotiche, bordelli, statue, bassorilievi e un’incredibile quantità di oggetti che rappresentavano organi genitali maschili, non di rado di dimensioni abnormi.
Cerchiamo di capire se questa fama è meritata, cominciando a occuparci dei bordelli. Che a Pompei esistessero locali di questo tipo non può certo sorprendere. La prostituzione nel mondo romano era considerata un’ istituzione socialmente utile: se sfogavano i loro istinti con le prostitute, si pensava, gli uomini non rischiavano di attentare alla virtù delle donne oneste. Ovvio, dunque, che anche a Pompei ci fossero le prostitute: lupae, le chiamavano i romani, o meretrices (meretrici), dal verbo merere, guadagnare. Se cercavano clienti passeggiando nelle strade, poi, le chiamavano ambulatrices (passeggiatrici); se lavoravano sotto i fornices (ponti) fornicatrices; se esercitavano di notte noctilucae (lucciole).
• I termini erano molti e diversi; così come erano diversi, ovviamente, i loro prezzi. Il più basso era due assi (sesterzio): il prezzo di Lahis, ad esempio, che reclamizza la sua specialità di fellatrix sull’edificio di Eumachia, nel Foro (un importante edificio pubblico, dove forse si teneva il mercato della lana, e dove forse Lahis lavorava). Altre, sempre a un livello bassissimo, si vendevano per due assi e mezzo o tre assi. Ma alcune erano molto costose. Spes (Speranza) costava nove assi. E fuori Porta Marina si legge: ”Se qualcuno si siederà qui, legga in primo luogo questo: se vuole fottere, cerchi Attica, per 16 assi”. Per una sola prestazione, Attica chiedeva una somma superiore al soldo giornaliero di un soldato, che in quell’ epoca pare si aggirasse attorno ai due sesterzi e 1/2.
• Prezzi variati, dunque: ma nessuna varietà nell’ abbigliamento. Le prostitute dovevano essere individuabili a prima vista, e dunque, indipendentemente dal livello a cui esercitavano il proprio mestiere, dovevano indossare lo stesso abito e avere lo stesso colore di capelli.
L’abito era la toga, una veste maschile che lasciava scoperte le ginocchia (le donne oneste invece, le matrone, portavano la stola). Il colore dei capelli era il rosso: una tintura o una parrucca. Donde il nome Rufa - ”rossa”, appunto - usato da molte come nome di battaglia, e diventato (e usato da Catullo) come sinonimo di prostituta.
• Quante erano le prostitute di Pompei? Difficile dirlo. Gli edifici certamente destinati all’esercizio del mestiere erano una decina: alcune cellae meretriciae (locali adiacenti a un’abitazione privata o una locale pubblico, destinati ad accontentare in loco i clienti), e uno o forse due bordelli.
L’edificio certamente costruito per essere tale, come dimostra la sua struttura, è il celebre Lupanare, all’angolo con Via del Balcone Pensile. Gestito da due lenoni di nome Africanus e Victor, era composto di due piani. Al piano inferiore, su cui si aprivano due ingressi, si trovavano una latrina e cinque piccoli locali con letti in muratura (cubicula), ornati all’esterno da pitture erotiche, che rappresentavano varie modalità di accoppiamento. Al piano superiore si trovavano altri cinque cubicula. Come rivelano i graffiti, in queste stanze lavoravano circa venti ragazze, di cui conosciamo il nome (Anedia, Aplonia, Attica, Atthis... ), e a volte anche le preferenze o la specializzazione: Myrtale, ad esempio, era specializzata nella fellatio. Ma non tutte, ovviamente, lavoravano nel bordello.
• Per le strade, troviamo gli annunci pubblicitari di molte lavoratrici autonome, che davano notizia della loro disponibilità e del loro prezzo. Altre informazioni vengono dalle scritte (sempre su muro) di ammiratori o innamorati delle numerose attricette, danzatrici e mime che venivano in città, spesso con compagnie girovaghe. Non prostitute di mestiere, dunque, ma forse disponste ad accettare regali anche in danaro dai loro più o meno occasionali amanti. I pompeiani si divertivano, insomma. E amavano non solo praticare il sesso, ma anche farne oggetto di scherzo: come dimostrano chiaramente le scene erotiche scoperte nell’edificio di recente aperto al pubblico di cui parlavamo, le ormai celebri Terme Suburbane. La funzione delle pitture trovate nello spogliatoio di questo locale, infatti, non era quella di stimolo sessuale, che siamo soliti attribuire alle rappresentazioni erotiche. Le scene osé erano dipinte in corrispondenza degli scatoloni di legno numerati e sospesi alle pareti, ove i clienti depositavano gli abiti. Per ogni scatolone, sulla parete che lo sovrastava, una scena diversa: rapporti di gruppo, coito orale, un amore lesbico. Scene hard, insomma: che, sorprendentemente per noi, erano solo una sorta di gioco di società, come ha convincentemente dimostrato l’archeologa che ha scavato le terme, Luciana Jacobelli. L’accoppiamento tra il numero della scatola e le diverse figurae Veneris non era casuale. Nel mediterraneo circolavano delle specie di kamasutra, inventati e propagandati dalle cortigiane greche, ed evidemente popolari anche a Pompei. Nelle terme, l’uso pittorico di questi kamasutra e l’accoppiamento numero-figura erotica serviva non solo a ricordare più facilmente la scatola in cui si erano riposti i propri vestiti, ma fornivano un ottimo pretesto per quegli scherzi salaci, quelle battute a doppio senso e quelle allusioni sessuali che i romani tanto amavano, come la letteratura latina ampiamente conferma. Concludendo: Pompei a luci rosse? Certamente, il sesso era parte importante della vita della città. Ma i pompeiani vivevano il sesso in modo diverso dal nostro. Erano pagani, non conoscevano i tabù che dopo secoli di cristianesimo possiamo essere tentati di attribuir loro. Luci rosse pagane, insomma, luci rosse senza peccato.
• I romani amavano molto le terme. Dietro pagamento di un biglietto d’ingresso (balneaticum) più o meno elevato a seconda del livello dello stabilimento balneare, essi vi entravano abitualmente nelle prime ore del pomeriggio per restarvi fino a sera. Alle terme infatti non andavano solo per svolgere attività fisica o per passare il tempo. Le terme erano un luogo ove si poteva incontrare, senza bisogno di chiedere appuntamento, una persona con cui si voleva concludere un affare, dove si potevano consolidare amicizie politicamente utili, e dove per finire si potevano fare nuove conoscenze femminili: gli stabilimenti infatti erano aperti anche alle signore. Solo a Roma, in epoca imperiale, si stabilì che esse dovessero prendere i bagni in orari speciali, riservati a loro: ma anche allora l’accesso a tutti gli altri ambienti dello stabilimento rimase aperto ad ambedue i sessi. E a Pompei, comunque, le cose stavano diversamente. Uomini e donne, assieme, dopo essersi spogliati nello stesso locale, nuotavano nella stessa piscina fredda, si immergevano insieme nella vasca dell’acqua calda, sedevano insieme nel laconicum, un locale surriscaldato da un forno sistemato sotto il pavimento (oggi diremmo un ”bagno turco”); sempre assieme, senza alcun problema, sostavano nel tepidarium, un locale riscaldato con aria calda. Una libertà totale, insomma, che sorprende non poco pensando all’ immagine che i romani hanno voluto tramandarci delle loro donne. Casta, pia, domiseda, essi definivano la moglie morta, nelle epigrafi funerarie destinate a celebrarne le vitrtù. Sulla tomba di una certa Clelia, morta nel II secolo a.C., leggiamo il seguente elogio: lanam feci, domum servavi (ho fatto la lana, ho custodito la casa).
Ovviamente, nessuno intende mettere in dubbio che Clelia avesse queste virtù. Ma evidentemente, per una Clelia, esistevano molte altre sconosciute matrone che, per qualche ora al giorno, si distraevano dalle più o meno pesanti cure familiari; e se per farlo frequentavano le terme suburbane di Pompei, scherzavano con gli uomini sulle pitture erotiche che ne decoravano le pareti. Una sorpesa, non c’ è che dire. Ma piacevole. Siamo contente di scoprire che anche le austere matrone romane potevano e sapevano divertirsi.
• Luciana Jacobelli, che ha scavato le Terme suburbane di Pompei, racconta: «Durante i due secoli di scavi occorsi a riportare Pompei alla luce, dall’abitato della città furono riversati sul perimetro delle mura circa sei milioni di metri cubi di terreno. Col procedere dei lavori questa immensa massa di terreno finì per seppellire la cinta dell’antico abitato. L’opera di rimozione dei cumuli venne portata a termine fra gli anni Cinquanta e Sessanta, anche grazie alla costruzione dell’autostrada Pompei-Salerno. Dovendo infatti realizzare un grande terrapieno per sopraelevare l’arteria nel tratto Pompei-Scafati, vennero utilizzate le terre accumulate nel circuito esterno di Pompei. Nel contesto di tali lavori venne riportato alla luce anche il piano superiore delle Terme fuori Porta Marina ed emerse una magnifica fontana a mosaico raffigurante Marte attorniato da Amorini, ma gli ambienti termali rimasero inesplorati.
Bisognerà attendere il 1985 per disporre dei fondi necessari alla realizzazione dello scavo, che si protrarrà per oltre due anni. All’inizio della sua esplorazione l’area delle Terme era completamente invasa da un’intricata vegetazione e da grossi cumuli di terra non ancora rimossi. Lo scavo iniziò dall’alto, svuotando gradualmente gli ambienti completamente ricolmi di terreno. Man mano che veniva rimossa la terra mista a lapillo, infiltratasi nell’edificio attraverso le grandi finestre e le volte squarciate dall’eruzione, emergevano straordinarie testimonianze archeologiche. Nello spogliatoio tornava alla luce il famoso ciclo delle pitture erotiche; nell’attiguo frigidarium si scopriva una eccezionale decorazione in stucco; lungo le pareti nord e sud riapparivano lunghe mensole decorate da elementi vegetali e amorini, su cui si imposta una volta in stucco. La parete est rivelava fastose scenografie con architetture fantastiche anch’esse in stucco, che ricordano quinte teatrali. Comunicante con il frigidarium è una piscina fredda, alimentata dalla fontana a mosaico scoperta negli anni Sessanta. Riemergevano gli affreschi intorno alla piscina, con ninfe marine ed una gran varietà di pesci, che riflettendosi nell’acqua creavano un raffinato gioco tra realtà ed illusione. Il mare, quello vero, lo si poteva ammirare dai finestroni del calidarium muniti di vetri, in parte ritrovati durante lo scavo. Tornava in luce anche l’unica grande piscina riscaldata di Pompei (m. 10 x 6), rivestita di marmi e di mosaico policromo nelle nicchie parietali. Da un’ampia breccia sul muro del calidarium l’esplorazione veniva allargata a tutta la zona dei servizi, nascosta ai clienti, dove schiavi ed inservienti conducevano il duro lavoro necessario al funzionamento dell’impianto. Questa sezione, trovata interamente ricolma di lapillo, si presentava in perfette condizioni. Consisteva in un lungo corridoio, all’inizio del quale era una latrina utilizzata dai clienti delle terme, che non mancarono di scrivere sui muri col carbone i loro nomi e le loro impressioni. Lungo le pareti del corridoio sono visibili le tracce delle funi per trasportare la legna usata come combustibile, e accantonata in un ambiente di servizio. In fondo era il praefurnium, con caldaie che contenevano acqua di diversa temperatura: bollente per la vasca del calidarium, tiepida per quella del tepidarium. Dal praefurnium i fumi caldi prodotti dall’acqua bollente venivano condotti nelle intercapedini ricavate nelle pareti e nei pavimenti delle sale termali e le riscaldavano. Proprio nel praefurnium lo scavo rivelava la sua ultima emozione. Davanti alla bocca del forno era una grossa pala, usata dall’addetto (fornacator) per aggiungere man mano nuovo combustibile. Come ogni giorno, la pala era stata poggiata dall’operaio accanto al forno a fine lavoro. Ma quel 24 agosto del 79 ciò avvenne per l’ultima volta: l’eruzione sigillava per sempre anche quel gesto consueto, quotidiano, consegnandolo a noi e alla storia 2000 anni dopo quel terribile evento».